I vini naturali al Tabernario di Sondrio

Il primo grande pregio di un vino è l’onestà del produttore



A. Foradori (teroldego rotaliano) 2005 – vigneto in conversione biodinamica dal 2002 – Elisabetta Foradori (Mezzolombardo)

Per l’azienda Foradori è stato il secondo vino che ne ha rivoluzionato l’impostazione; il primo era stato quello della vendemmia 2004, annata positiva e, per questo motivo, non necessariamente affidabile ai fini di considerare la scelta biodinamica in termini qualitativi. La 2005, con le sue difficoltà, è stata invece la rivelazione del decennio per l’adesione al modello “teroledego e luogo” che per tanti anni era sfuggito alle aziende del Campo Rotaliano; a ciò si può aggiungere la veracità dei profumi e la lunghezza del sapore, meno voluminoso del fratello “convenzionale”, ma alla distanza sempre più efficace. Il bicchiere, come sempre, non tradisce chi vuole approfondire lo stato del vino, così il 2005 “bio” si rivela sempre meglio mentre l’altro s’inaridisce.


B. Foradori (teroldego rotaliano) 2005 – convenzionale – Elisabetta Foradori (Mezzolombardo)

Ai tempi era una buona mediazione tra identità e godibilità, con l’arrivo della versione “bio” sono cambiati i parametri sensoriali e la percezione è divenuta di un vino prevedibile, magari sostanzioso, ma incapace di donare emotività. A dimostrazione che la soggettività si nutre di continuo e non può cristallizzarsi su assaggi pregressi ma deve per natura confrontarsi e per sentire ciò che accade, in una sorta di spontaneo e inevitabile rinnovamento dei parametri di ognuno di noi.




1. Faro 2010 (nerello mascalese, nerello cappuccio, nocera) Bonavita di Giovanni Scarfone (Faro Superiore)
È da diverse settimane uno dei protagonisti dei nostri corsi. Ciò lo dobbiamo alla fragranza e alla ricchezza di un rosso che per la prima volta da alcuni anni non subisce la pesantezza del rovere e riesce a esprimere l’energia del suo vitigno principale, quel Nerello Mascalese così sensibile ai vigneti in altitudine – Bonavita è 250 metri slm. La maturità propria dei vini meridionali viene donata con misura, così emerge la varietà odorosa che evoca aspetti marini e di flora costiera, accanto a una mineralità “cortese”. Il sapore aggiunge elementi di sapidità non banali e la lunghezza è il suo pregio più significativo. Il Faro lascia in eredità un’idea di appagante generosità.




2. Brunello di Montalcino (sangiovese grosso) 2005 Il Paradiso di Manfredi di Florio Guerrini e Rosella Martini (Montalcino)

Rappresenta la Montalcino della tradizione, direi meglio della lentezza, intesa come gradualità espressiva ed evolutiva. In alcuni casi il Brunello della famiglia Guerrini è così chiuso da far pensare a una indisponibilità permanente, in altri esprime una certa caducità, così da far pensare che non abbia margini di evoluzione. Invece, seguendolo non ci delude mai, sebbene avverta la differenza delle annate e la restituisca come pochi, conservando quel livello di sana irregolarità così prezioso. La 2005 è dunque una versione “di studio”, messa a disposizione per capire come si trasforma una materia consistente e scorbutica in una serena e affascinante rusticità. In questo momento il Brunello del Paradiso 2005 ha persino nel colore, di solito piuttosto arrendevole, una profonda densità materiale, il profumo restituisce una vena organica meno incisiva di altre versioni, mentre il sapore è serrato e duro, da enofili che non temono le sensazioni estreme.




3. Taurasi NeroNè (aglianico) 2005 Il Cancelliere di Romano Soccorso (Montemarano)

Se il Brunello è profondo, il Taurasi del Cancelliere è cupo e quasi impenetrabile, un vero classico della collaborazione tra Romano Soccorso e Antonio Di Gruttola, nel quale si avverte lo sforzo per far sentire l’età delle viti di Aglianico. Ci sono pochi casi nei quali si può parlare di mineralità, e in maniera così netta, al naso e in bocca; il NeroNè fatica a reggere l’impatto dei tannini del rovere e così la persistenza del gusto è disturbata da un effetto asciugante, tuttavia è esemplare per come lotta e cerca di far prevalere l’astringenza delle uve. Come il Brunello, col quale condivide un’annata “complessa”, è un vino severo, arcigno, con la differenza che, rispetto al precedente, ha vissuto già più tempo in bottiglia assumendo un profilo odoroso meglio definito. Rimangono intatte la passionalità e il magnetismo.




4. Malvazija 2003 Branko e Vasja Côtar (Komen – Slovenia)

Dopo due vini così impegnativi, l’arrivo della Malvasia di Côtar è un sollievo… A parte gli scherzi, il liquido ambra chiaro e la sua verve aromatica hanno il potere di ribaltare emotivamente una sequenza, mettendo in campo la luminosa essenza del luogo e una deliziosa maturità evolutiva. Il produttore sloveno conduce macerazioni coraggiose, consapevole che il tannino della Malvasia Istriana non supera la soglia di imbarbarimento espressivo oltrepassata da molti bianchi vinificati in rosso. In tal modo il vino non appare annientato dalla vinosità, o dal timbro del tino di rovere – luogo deputato alla fermentazione – e lascia trapelare una misura sorprendente per essere un 2003. La salinità e lo sviluppo di un corpo consistente, ben attaccato alla lingua, lanciano il vino verso una persistenza di alto profilo, il motivo principale per il quale va servito sempre dopo i rossi.




5. Trebbiano d’Abruzzo 1999 Valentini (Loreto Aprutino)
Questo vino è cambiato molto negli ultimi tre anni. Un’accelerazione che era difficile immaginare, vista la crudezza e la ferocia con le quali si presentava sotto il naso. Qualcosa è avvenuto nel rapporto con l’aria, si è allentata la saldatura del sughero e si è modificata radicalmente la fisionomia, che oggi consegna un Trebbiano di Valentini insolitamente “gentile” al naso e meno acido nel sapore – nel 2008, per esempio, era irriducibile. Potrebbe essere questione di bottiglie? La mia esperienza recente si basa su nove campioni, un test credibile, anche in considerazione del pensiero di Francesco Valentini, al quale fa comodo che un suo vino viva il tempo e non se ne faccia cristallizzare. Il resto è storia: aspetto visivo incerto, sentori magici e in continua trasformazione, esibizione gustativa incisiva sempre in levare, senza mai una sosta ma al tempo stesso in grado di respirare nelle sensazioni finali.

6. Chateau Musar rosso (cabernet sauvignon, carignan, cinsaul) 1998 Gaston Hochar (Valle della Beqa’ – Libano)
Tanta seta merita uno spazio a sé, pur nella frammentarietà espressiva che dona. Non possiamo certo dire che il vino di Serge Hochar sia il più in forma, ciononostante la resa emotiva non ha pari. Abituati a voler tenere in pugno il vino attraverso la descrizione, ci spiazza perché è imprendibile; hai voglia a dire che è “stanco” e forse un po’ disarticolato se, al momento meno opportuno e quando pensi di aver capito, si ripresenta in bocca e sotto le nostre dita e colpisce un luogo meno frequentato del nostro sentire. Mi rendo conto che non è semplice trasferire una modalità a tratti è evanescente, eppure da questo rosso integralmente mediterraneo s’impara moltissimo, e senza accorgersene.

7. Champagne Grand Cru Blanc de Blancs “Vielle Vigne de Cramant” Extra Brut 2006 Larmandier-Bernier (Vertus)
Alcuni anni fa, almeno venticinque, ricordo che un enologo trentino mi disse che lo Chardonnay era stato a lungo sottovalutato nella spumantistica come vino a sé stante; troppo dipendente dal Pinot Noir, si diceva, sbagliando… Quando assaggi questo Champagne ti rendi conto dell’autonomia espressiva anche a una latitudine limite; ma forse le ultime annate calde hanno dotato anche una zona così settentrionale di una maggiore dose di calore. O, forse, è la scelta biodinamica ad aver rafforzato la solidità del liquido. In ogni caso, il produttore è tra i più “felici” dell’intera Champagne, perché sa mettere in evidenza ogni particolare del terroir restituendolo come fosse un brillante, in grado di vivere di luce propria. Chiudere con il Grand Cru Extra Brut è una soddisfazione per chi ama la persistenza, per chi gode a essere “scavato” dal vigore elettrizzante di un vino dal sangue freddo e dalla tempra prodiga di emozioni.