A proposito di frane: ma è la vigna il male?

Il bosco non è il bene come la vigna non è il male.

La questione dei disastri ambientali, in Italia, è permanentemente all’ordine del giorno e ciò perché l’assetto del territorio dell’intera penisola è estremamente labile e si regge su delicatissimi ed instabili equilibri.

Lo dico ponendomi dalla prospettiva di una terra, la Campania e in particolare il Salernitano, che, nel mezzo secolo che ho vissuto, mi ha consentito di vivere le conseguenze di una impressionante serie di eventi calamitosi: un’alluvione che ha modificato l’intero assetto del litorale, un terremoto che ha devastato quasi interamente 2 regioni, e una frana con morti, feriti e senza tetto. Mi manca l’eruzione del Vesuvio: l’ultima è del 1944, ma l’inusuale ritardo mi da buone possibilità di vivere anche questa esperienza.

 

Tra le questioni ambientali, quella dell’assetto idrogeologico, è una delle più delicate, materia di enorme complessità che non può essere affrontata che con un approccio multi o interdisciplinare. Gli aspetti geologici sono cruciali, ma quelli agronomici non sono da meno.

 

Innanzitutto facciamo brevemente chiarezza sui più comuni effetti del dissesto idrogeologico e sulle loro cause.

Il primo fenomeno è quello dell’erosione, causato dall’azione di trasporto delle acque meteoriche di scorrimento superficiale; esso è poco evidente ma, interessando lo strato attivo e quindi più fertile del terreno, produce, nel tempo, gravi conseguenze sulla produttività dei suoli declivi (in pendio), fino alla loro sterilità agronomica, in specie quando gli effetti sono acuiti dalla scabrezza della superficie, che favorisce la formazione di moti vorticosi dell’acqua, incrementandone l’energia cinetica e la capacità di trasporto di particelle solide.

Smottamenti e frane sono fenomeni macroscopici, consistenti nel distacco dai versanti montuosi o collinari di quantità ingenti di materiali solidi incoerenti. Questi fenomeni sono provocati dall’eccessiva idratazione di un suolo prevalentemente argilloso, che tende ad aumentare di volume in misura proporzionale alla quantità di acqua che assorbe. Il suolo tende, perciò, a rigonfiarsi quando è umido e contrarsi quando è secco, fessurandosi profondamente. In queste fenditure penetra l’acqua piovana fino a raggiungere strati impermeabili, come la roccia madre, dove ristagna e funge da lubrificante, favorendo lo scivolamento degli strati di terreno soprastanti, che, a causa ancora delle fessurazioni, risulta diviso in blocchi e non costituito da un’unica massa coesa.

 

In un contesto così definito, si può certamente affermare che il bosco svolga, nella maggior parte dei casi, un’azione positiva per la stabilità dei versanti. La copertura vegetale, agendo su svariati aspetti, svolge un’utile azione di contrasto degli agenti atmosferici, attenuandone gli effetti erosivi e di trasporto. Da un punto di vista fisico-meccanico, gli apparati radicali interagiscono con il substrato (il suolo) stabilizzandone lo strato superficiale, quello più esposto all’erosione, producendo un effetto simile a quello ottenuto con le reti di rivestimento in materiale inerte. Sul piano idrologico, la vegetazione favorisce l’infiltrazione dell’acqua nel suolo, limitandone lo scorrimento superficiale e, di conseguenza l’erosione; inoltre incrementa l’evapotraspirazione, facilitando lo smaltimento dell’umidità del suolo.

L’effetto benefico è, perciò, certamente prevalente, ma non assoluto. In letteratura, infatti, sono documentate azioni della copertura boschiva che producono effetti contrari alla stabilità.

In situazioni particolarmente sfavorevoli, con pendenze accentuate, substrati scarsamente coesi e perciò maggiormente erodibili, ricchi di argille rigonfiabili, il sovraccarico determinato dal peso delle chiome arboree, combinato con l’effetto vela nei confronti dell’azione del vento, può addirittura incrementare i rischi di scivolamento dei versanti. Inoltre, il bosco non può esercitare alcun effetto positivo su dissesti provocati da acque infiltratesi a distanze anche notevoli e soggette a movimenti provocati dalla gravità o dalla differenza di potenziale idrico del suolo.

Ancora, in zone ad alto rischio idrogeologico, se è auspicabile la salvaguardia delle coperture vegetali esistenti, i rimboschimenti, a causa dell’invasività degli interventi di movimento terra che necessitano, sono addirittura sconsigliati, se non a particolari condizioni e con grandi cautele. A questo proposito è importante sottolineare l’importanza da attribuire alla scelta delle essenze utilizzate: in primo luogo, vanno sempre favorite le specie autoctone, per le garanzie che forniscono nell’attecchimento e nel rapido sviluppo, conseguenza della sperimentata adattabilità alle particolari condizioni pedoclimatiche del sito; in secondo luogo, vanno, di norma, preferite le latifoglie alle conifere, per la differente anatomia e conseguente maggior efficacia degli apparati radicali delle prime rispetto alle seconde.

Come si vede, quindi, anche sull’utilità del bosco è necessario ragionare con le adeguate competenze e con mente scevra da pregiudizi e da idee preconcette.

 

Al contrario, le attività agricole sono da considerare generalmente favorevoli alla stabilità dei versanti collinari, in conseguenza dello svolgimento delle comuni pratiche agronomiche ed in particolare delle sistemazioni idraulico-agrarie.

Infatti, come si è detto il maggior fattore di rischio è l’eccessiva idratazione del suolo; di conseguenza, l’obiettivo principale è quello di regimare le acque piovane in eccesso e favorirne il deflusso rapido e controllato, attraverso la realizzazione di opportuna rete scolante. In molte aree di viticoltura particolarmente intensiva, si sono sollevati molti dubbi sull’opportunità di sostituire il bosco con la vigna. Ma, alla luce di quanto sopra esposto, se è vero che disboscare per impiantare la vigna può costituire un fattore di rischio idrogeologico, il male maggiore è l’abbandono delle terre prima messe a coltura e poi trascurate.

Questa affermazione è suffragata anche da personali indagini svolte sui siti della cosiddetta “Frana di Sarno” del 1998, dalle quali scaturisce che l’evento ha interessato prevalentemente terreni fino a qualche decennio prima investiti a vigneto e intensamente coltivati (non dimentichiamo che la vigna era il principale cespite di reddito della famiglia contadina delle aree interne, collinari) e oggi divenuti incolti. Certo anche allora ci furono eventi piovosi eccezionali per intensità e durata, ma resta il fatto che i terreni erano esposti a un rischio molto alto per le ragioni sopra riportate.

 

Allora, la morale proposta da queste considerazioni potrebbe essere:
il bosco non è il bene come la vigna non è il male.

Certo, una ragione ci sarà se, per secoli e fino a qualche anno fa, anche in territori fortemente vitati, la vigna non era impiantata dappertutto ma sopravvivevano vaste aree a bosco. Ne dovrebbe scaturire l’ovvia considerazione che prima di intervenire in maniera invasiva su un sistema che si regge su equilibri estremamente precari, bisognerebbe prendere seriamente in considerazione tutte le implicazioni ed i rischi derivanti. Insomma: c’è modo e modo di impiantare una vigna e in certi contesti, sono le cattive pratiche agronomiche a creare la situazione di pericolo.

A tal proposito, è emblematico considerare l’aspetto delle sistemazioni idraulico-agrarie. Dovendosi favorire il rapido smaltimento delle acque in eccesso, limitando, nel contempo, lo scorrimento superficiale, per contenere il ruscellamento e, quindi, l’erosione del suolo, fino a tutta la metà del secolo scorso, le sistemazioni prevalenti in collina erano a girapoggio, con disposizione di fossi e filari, oltre che esecuzione delle lavorazioni in senso perpendicolare alla pendenza, secondo le isocline, le linee di livello. Inoltre, in terreni esposti all’erosione, si reputava opportuno limitare le lavorazioni del suolo al minimo indispensabile.

Da qualche anno, per ragioni eminentemente finanziarie e gestionali, si è diffusa indiscriminatamente la sistemazione a rittochino, in cui, al contrario, si realizzano gli interventi nel senso della massima pendenza, con rischi facilmente intuibili per l’assetto del suolo. Inoltre, causa la sempre più diffusa meccanizzazione, ci si accanisce spesso con lavorazioni indiscriminate e non indispensabili.

Una volta si insegnava che un buon agronomo, che è innanzitutto un custode del territorio, prima di muovere un solo passo deve fare una cosa fondamentale: guardarsi molto attentamente intorno.