Anne Marie Lavaysse

Linguadoca, Sain-Jean-de-Minervois, macchia mediterranea, un altopiano bianco di origine calcarea, sette ettari di vigneto a 320 metri sul livello del mare: Anne Marie Lavaysse, il figlio Pierre e Rosalie la mucca custodiscono il Petit Domaine de Gimios. Non solo una vigna, è contemporaneamente orto e frutteto. D’altro canto, «se porri, legumi e piante selvatiche stanno bene, perchè estirparli?». Un posto coltivato eppure selvaggio, in cui ogni elemento concorre alla salute e all’armonia della terra. Vendemmia manuale nelle prime ore del mattino, una produzione poco superiore ai dieci ettolitri per ettaro. Una missione che è prima di tutto ascolto. Vengono coltivate uve Moscato “petit grain” e altri sedici vitigni autoctoni per i due vini rossi.
Abbiamo conosciuto Anne Marie al convegno sulla viticoltura naturale organizzato da Angiolino Maule a Verona lo scorso novembre. Durante una breve pausa, ho parlato con il figlio: «Le parole di mia madre saranno molto più semplici di quelle che hai ascoltato finora». In un contesto di osservazioni tecnico scientifiche e di ostiche teorie agronomiche, Anne Marie è un’Amelie degli anni sessanta: una donna “delle piccole cose”, vibrante, bella. E’ stata introdotta ai partecipanti del convegno dal ricercatore francese Pierre Paillard: «Questa signora mi è stata presentata nel ’99, in occasione di una cena tra amici. Lei era ai fornelli e mi disse: “Anch’io faccio vino; lo assaggerà stasera”. Avrei scoperto il suo Moscato liquoroso… Meno male che ero seduto: non ho mai provato un Moscato così buono, equilibrato e armonioso. Anne Marie mi ha spiegato che era il suo primo vino, ed era già un capolavoro. Quando ho visitato la sua tenuta, ho sentito vita, amore e un’atmosfera magica. Ora ha smesso di produrre liquoroso perchè la Commissione di qualificazione francese non sapeva che denominazione dare a un Moscato tanto buono. La cosa l’ha penalizzata finanziariamente, ma ha iniziato a dare vita a dei rossi meravigliosi. Dietro la sua modestia ci sono un’osservazione e una sensibilità superiori che le hanno fatto elaborare atti di agricoltura biodinamica dai risultati incredibili». Anne Marie, dolce ed emozionata, prende il microfono:
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«Quando ho iniziato non avevo nulla, se non il mio amore e il rispetto per la natura. Ho recuperato un vigneto in rovina; non sapevo nulla di vino, ma sentivo un grande interesse e la voglia di fare. Provavo una forte avversione per la chimica, ma non avevo le risorse finanziarie per chiedere consulenze esterne o per partecipare a corsi specifici. Possedevo delle viti e degli animali di cui occuparmi; ho osservato, riflettuto e lavorato. Mi sono detta: “Devo prevenire le malattie delle mie piante ora in salute”. Mi sono ispirata alla foresta e al suo naturale equilibrio: il mio ruolo di contadina è mantenere e proteggere la vita. Dopo l’intervento delle macchine per rimpiantare delle piante morte, la terra era morbida in superficie, ma sofferente. Avevo già praticato altrove la biodinamica e ho deciso di applicarla anche al mio vigneto. Inizialmente mi ero avvicinata solo all’atto pratico, non tanto agli aspetti esoterico-filosofici. Ho iniziato con i miei preparati, ho lasciato un inerbimento naturale. Sotto le piante morte mi sono resa conto che ricrescevano spontaneamente semi di leguminose. Mancando dei mezzi finanziari, osservavo e cercavo ciò che mi serviva: utilizzavo zolfo e rame per gestire i problemi di funghi e muffe e un compost classico, ma mi sono ritrovata con l’oidio. Assaggiando la linfa delle mie vigne, mi sono accorta che sapeva di uovo marcio, sembrava intossicata. Il pieno rispetto che porto alla terra mi ha condotto alla decisione di non usare più zolfo e rame; per la ninfa sono veleno. Ho compreso che non ottenevo risultati perchè mi affidavo a una versione ortodossa della biodinamica e ai suoi preparati classici, come l’equiseto e l’ortica, che non appartengono però alla mia regione. Sapevo di poterli sostituire con le piante che avevo, ma non capivo quali fossero. Ho proseguito per analogia; ho scelto le piante più forti, compatte e resistenti alle avversità parassitarie e ne ho fatto tisane per la vite. Ho selezionato sette (numero sacro) piante, da raccogliere fresche e con cui fare un infuso solare per un giorno e una notte; vengono dinamizzate secondo i ritmi cosmici del metodo biodinamico. L’effetto è stato immediato: già quell’anno il raccolto è stato fantastico; negli anni successivi è successo di nuovo. Il metodo funziona: il succo è dolce, le foglie commestibili. Le vigne sono più forti e anche nel caso di piccoli problemi sanitari ce la fanno da sole, le loro difese diventano endogene. In quel periodo conferivo ancora l’uva alla cantina sociale, ma mi sembrava di rovinare il mio lavoro, così ho fatto il primo tentativo di vinificazione sul Moscato. L’anno dopo ho prodotto tutto il mio vino. La mia tecnica è sempre la stessa, ho provato poco a poco: non ho enologi, annuso, assaggio, lascio alla vite il suo ritmo, non la disturbo. Credo sia questo ciò che dà equilibrio alla mia uva. Non ho mai avuto grandi problemi di vinificazione, mai un arresto di fermentazione: se non c’è forzatura il risultato è buono. Tutto questo anche grazie alla scelta di lavorare il piccolo. Conosco tutti i miei ceppi, faccio tutto solo con mio figlio. Produco i vini che mi piacciono; sono vini diversi che danno un messaggio di purezza e stretto legame con la natura. Questo metodo smette però di funzionare se si chiede alla vite di produrre troppo. Il suo potere non va sottovalutato. Utilizzo piante fresche, raccolte al momento della fioritura; le applico all’alba, quando c’è poco vento, affinché abbiano il tempo di essere assorbite. Non ho fatto altro che sostituire lo zolfo con le piante, alla stessa frequenza. Dopo due-tre anni senza zolfo la linfa è diventata dolce, zuccherina.

Viso, mani e parole hanno trasmesso un messaggio fortissimo, concreto, ma anche e soprattutto emozionale. Un percorso personale, privo di assiomi produttivi: ogni atto è contestualizzato, collocato e scelto in base a quello specifico territorio. Dopo qualche giorno, il desiderio di saperne di più ci ha spinto a cercarla. Via mail, fax, telefono e piccione…

– Quali sono ai suoi occhi le principali differenze tra un vino naturale fatto in vigna e un vino costruito in cantina?

Il vero vino è il frutto di una simbiosi tra la terra e il contadino. E’ una storia d’amore che rinasce ogni anno nel momento in cui si prepara la terra a condividere con noi i suoi tesori. Si intrecciano i momenti gioiosi, gli sguardi ammirati e le inquietudini. E’ la luce che entra nei frutti e dopo l’esplosione dei colori è una grande festa, la vendemmia. Da lì ha inizio questa trasformazione magica, quest’alchimia che crea il vino vero; è un messaggio di vita. Il vino costruito è altro: è una merce prodotta in cantina, intonacata di tutti gli artifici possibili; una bevanda scomposta e senz’anima che finirà in bottiglia e somiglierà a qualcosa che ricorda il vino.

– A causa del surriscaldamento climatico in atto, alcune zone vocate nei prossimi quarant’anni non saranno più tali e dei vitigni storici dovranno essere spiantati in favore di altre varietà più resistenti. Agli occhi di più enologi e investitori non è un problema ma un’opportunità. Che cosa ne pensa?
Il nostro pianeta è vivente e non ce lo fa dimenticare mai. Anche la vigna, come l’uomo, tenterà di adattarsi; noi ci accontenteremo di una minor produzione e tenteremo forse di modificare alcune pratiche agronomiche, per proteggere più efficacemente la pianta. In Francia abbiamo ancora un patrimonio viticolo poco colpito dalle modificazioni genetiche. E’ un tesoro che va preservato. Già in molti rimpiangono la scomparsa delle vecchie vigne, estirpate col pretesto che i vitigni erano qualitativamente poco interessanti. E’ evidente, alcuni enologi fanno investire dove ci sono forti interessi, e il cambiamento climatico ne può creare di nuovi; dietro di loro ci sono le grandi industrie enologiche e farmaceutiche della viticoltura che non dicono il vero.

– Che cosa rappresenta per lei il momento della vendemmia? Come individua il “momento giusto”?
Per cominciare, scelgo il giorno più favorevole secondo il calendario biodinamico; poi scavo dentro me stessa e guardo le mie piante per capire se è davvero il momento migliore. Passo regolarmente nelle vigne e gusto le resine, sorvegliando anche la luna per la maturazione degli zuccheri. Arrivo così, naturalmente, verso la data. A volte ci sono delle sorprese: la natura agisce più velocemente di me e in 48 ore, all’improvviso, arriva il giusto momento; chiamo tutti gli amici, sempre felici di aiutarmi. E’ un periodo gioioso e di festa; questo è molto importante perché il vino sia buono. Essere contadina è una scelta, che ogni giorno rinnovo. Amo questa relazione dolce e rude che ho con la natura: è il più bel mestiere del mondo: dare e ricevere.