Cataldi Madonna: il vino e il territorio

Su Porthos 35 abbiamo pubblicato la parte più intima del racconto di Luigi Cataldi Madonna sul terremoto in Abruzzo dell’aprile 2009. In quella occasione si parlò anche di vino e territorio.

Leggi il racconto della degustazione dei vini di Cataldi Madonna.

Il vino. “Per me lo stile del vino è stato dettato in maniera dittatoriale dal territorio. Lo so che è un concetto abusato, ma è difficilissimo fare qualcosa di diverso. Nella seconda metà degli anni novanta ho cercato di fare un vino più concentrato, con più estratti e più corpo, ma non ci sono riuscito, perché non è nelle corde di questo territorio. Non ho introdotto grandi cambiamenti in azienda, però ho portato un atteggiamento di ricerca e di confronto che ai tempi di mio padre non c’era e credo che il vino sia migliorato essenzialmente in eleganza e profumi grazie a una maggiore attenzione alla nota olfattiva. Le barrique le ho introdotte nel 1988 per la prima edizione del Tonì, un vino che ho fatto di nascosto perché mio padre (1) non era il tipo che si dedicava un vino. Ho deciso tutto da solo, pure l’etichetta, per la quale mi sono semplicemente ispirato a quella di Gaja poi qualche anno più tardi ho aggiunto il guerriero di Capestrano, anche se papà aveva già avuto l’intuizione di disegnarlo a mano sulle etichette delle prime bottiglie nel 1975. Oggi è un simbolo dell’Abruzzo.
Storicamente in azienda si erano usate solo le botti grandi, poi quando è arrivato Landi (2) mi ha convinto a toglierle. Forse mi sono lasciato convincere troppo facilmente, ma non so se tornerei indietro, perché con l’esperienza ho maturato un atteggiamento più critico nei confronti del legno. Infatti non lo uso più per il Pecorino, da quest’anno nemmeno per il Malandrino e solo il Tonì, che ha un suo stile e una certa continuità, continuerà a maturare in legno, per ora. Con Landi ho un ottimo rapporto di fiducia e di confronto continuo ma non gli lascio carta bianca, ci mancherebbe. Nel senso che faccio le mie scelte ma ho bisogno delle sue capacità tecniche e delle sue conoscenze, soprattutto in vigna. Rimango pur sempre un filosofo, tuttavia anche se io fossi un enologo, mi servirei comunque di un consulente esterno con cui confrontarmi.
La mia naturale attitudine alla ricerca ha inoltre portato nel 1990 all’introduzione del Pecorino. Non credo che si fosse mai coltivato in questa valle, almeno non dall’epoca di mio nonno, che produceva un tradizionale uvaggio di Malvasia, Trebbiano e Moscato con aggiunta di zucchero. Sentivo l’esigenza di fare un buon vino bianco e decisi di sperimentare gli autoctoni Pecorino, Fiano e Falanghina, che sono in un certo senso cugini appenninici. Nelle micro vinificazioni prevalse il Pecorino e nel 1996 feci la prima bottiglia. Per me è come un figlio adottato, cresciuto attraverso una lunga serie di prove che mi hanno portato a cambiare varie volte la tecnica di vinificazione. Ne avevo fatto anche una versione di vendemmia tardiva botritizzata perché avevo letto che un tempo si usava come vino dolce.
Se non avessi avuto l’esperienza con il Pecorino, oggi forse metterei il Trebbiano, ma in quel periodo il Trebbiano d’Abruzzo godeva di una pessima fama e non me la sono sentita di investirci. Inoltre penso che il Trebbiano d’Abruzzo sia solo una finzione storico viticola, nel senso che non esiste una selezione di Trebbiano d’Abruzzo, nonostante molti dicano di averlo. Viene identificato in genere con il Camplese, la Passerina o anche la Cococciola, tutti vitigni bianchi della tradizione viticola abruzzese. La parola trebbiano deriva da trebulanae che indicava le uve bianche che stavano vicino casa, per cui il vero Trebbiano d’Abruzzo era per esempio quello che faceva mio nonno, cioè un blend di uve.
Mi chiedi del vino sfuso, ci tengo moltissimo. Primo, perché anche io, se vivessi solo del mio stipendio, non potrei permettermi tutti i giorni una bottiglia Cataldi Madonna, neanche quella base. Secondo, perché chi viene a prendere lo sfuso è una persona appassionata, orgogliosa di quel vino che condivide con gli amici. Non mi sento di escluderla, oltre al fatto che vale molto di più un buon vino sfuso di uno in bottiglia da due euro. Iniziai quasi per caso con un gruppo di clienti aquilani e poi quel mercato l’ho sempre conservato, non considerando nemmeno se fosse redditizio. Fino a qualche tempo fà la gente veniva con le dame e la taniche ma si creava confusione in cantina, così oggi lo vendo in bag.
Anche sotto questo punto di vista Edoardo Valentini è stato esemplare e Francesco (3) sta continuando sulla stessa linea, anzi sta dimostrando un’indipendenza culturale dal padre, con il risultato di aver pure migliorato alcuni vini. Dal punto di vista umano mi sento molto vicino a lui, oltre al fatto che, certo con importanti differenze, abbiamo una certa impostazione aziendale in comune.”

Il territorio. “Non so come sia nata la leggenda del “Forno degli Abruzzi”, ma la sensazione di meraviglia e sorpresa che avete provato voi, la vivono tutti quelli che vengono qui arrivando dalle montagne. È una valle molto particolare anche perché si trova sotto il Calderone, l’unico ghiacciaio appenninico, che è stato di recente declassato ma misura pur sempre 4 ettari di estensione e 25 metri di spessore.
Ci sono forti escursioni termiche estive, ma solo dopo la metà di Agosto. Per questo le uve cosiddette tarde come il Montepulciano ne beneficiano mentre i vitigni internazionali a maturazione più precoce come il Cabernet Sauvignon o il Sauvignon Blanc si prendono una sconcallata (4) pure la notte. Lo dico per esperienza perché il Malandrino all’inizio lo facevo con un 25% di Cabernet e facevo anche un Cabernet Sauvignon in purezza. Non che fossero vini cattivi però non era certo quello che mi aspettavo. È la dimostrazione che la selezione viene fatta dal territorio, che nel nostro caso ha scelto il Montepulciano che qui ha una storia molto lunga. Questa zona fino alla fine del Cinquecento è stata dominio prima dei Piccolomini poi dei Medici, sotto i quali è divenuta Granducato di Toscana e è rimasta un’enclave toscana fino al Settecento inoltrato, nonostante il resto della regione fosse Regno dei Borboni. Questo è molto importante dal punto di vista storico, perché è una questione di buon senso pensare che il Montepulciano d’Abruzzo sia in qualche modo il risultato dell’incontro tra un uva locale e il sapere tecnico dei toscani, dato che avevano fatto insediamenti viticoli in quest’area. Non si parlava di Montepulciano a quel tempo, se ne parlerà solo molto più tardi ma le origini sono lì. Tradizionalmente in questa zona domina il Montepulciano cerasuolo, vale a dire che il vino di casa del contadino è il cerasuolo, mentre nell’area di Chieti è il rosso. È una questione di abitudine alimentare e di territorio, che in questa valle regala al vino grande struttura acida ma non concentrazione.
A conferma della particolarità di questa valle, a partire da quest’anno, nell’ambito della Doc Montepulciano d’Abruzzo, sarà operativa la sottozona Alto Tirino per la quale mi sono battuto molto, ma la reale conferma sue potenzialità è che negli ultimi anni sono arrivate altre cinque importanti cantine abruzzesi a impiantare viti. Per me, che ci ho sempre creduto, è grande motivo di gratificazione e mi dispiace che mio padre non l’abbia vissuto.”

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1 Antonio “Tonino” Cataldi Madonna, produttore delle prime bottiglie dell’azienda, è morto nel 1997.
2 Lorenzo Landi è l’enologo dell’azienda dal 2003.
3 Francesco Paolo, figlio di Edoardo Valentini.
4 Modo di dire abruzzese per indicare una scottatura.