Nelle Cinque Terre con Andrea Pecunia e il suo Terre Sospese - Porthos Edizioni

Dalle molte terre

All’inizio c’era un sentiero.
Io camminavo e gli occhi erano chiusi.
Il vento portava profumi di resina e di sali minerali.
Il mare non doveva essere lontano.
Poi il sentiero diventava una scalinata in discesa.
Dove stavo andando?
Il mare, eccolo, ora lo sentivo incontrare le rocce in basso.
Poi gli occhi si aprivano.
Le case di un piccolo paese alle estremità di una terra.
Nell’acqua un gruppo di ragazzi giocava con le onde.
Poi le scale finivano e il sentiero riprendeva a salire.
Io continuavo a camminare.

Oggi sono a Riomaggiore per incontrare Andrea Pecunia. Mi aspetta nei suoi vigneti nei pressi del Santuario di Montenero a circa tre quarti d’ora dal paese. Seguo le indicazioni di Andrea e in pochi minuti mi trovo alla fine delle case, la strada d’asfalto continua girando a sinistra mentre davanti a me, appesa a un palo di legno, una freccia con la scritta Santuario – Sentiero N. 3 (45 minuti).

Nelle Cinque Terre con Andrea Pecunia e il suo Terre Sospese - Porthos Edizioni


Poi cominciava a piovere.
Il sentiero continuava a salire
Perché non potevo fermarmi?
Poi il fischio di un treno da dentro la terra.
Doveva esserci da qualche parte una galleria.

Procedo con lentezza e curiosità. Sui fianchi del sentiero che sale raccolgo qualche mora che mi rende aspra la bocca. Iniziano a vedersi alcune piante di vite assieme a castagni, meli e peri. Una piccola mela rossa dev’essere caduta dall’albero e si è posata a terra proprio in mezzo a un filare di uva gialla. Una donna sta raccogliendo l’erba del giardino con un rastrello, mi saluta quando le passo vicino. Il sentiero è tornato pianeggiante, dopo qualche passo sono arrivato al santuario. Davanti a me, in basso, Riomaggiore circondato dalla terra e dal mare. Sulla sinistra piccole porzioni di vigneto circondate da muretti a secco, da scalini di pietra e cancelli di legno.

Poi vedevo una massa di persone salire sul treno.
Dove andavano quelle persone?
E perché nessuno parlava?

Andrea l’ho visto emergere dal verde della vegetazione del vigneto come fosse stato da sempre lì radicato nella terra che lavora. I capelli lunghi e la barba, all’incirca la mia stessa età. Ci stringiamo la mano e ci salutiamo.

Nelle Cinque Terre con Andrea Pecunia e il suo Terre Sospese - Porthos Edizioni

«Questa è la costa sud, si chiama costa Casen. Quella che vedi in basso e che gira laggiù, a sinistra nella Valle di Serra, si chiama appunto costa Serra. Sono le due zone migliori dove coltivare la vite. Dal medioevo qui le famiglie hanno sempre avuto microappezzamenti sparsi che si sono trasmessi di successione in successione. Qui non esiste mezzadria, ognuno ha un pezzo di terra che lavora. Quel che mi preoccupa è il cambio generazionale, l’abbandono delle terre e dei vigneti, sono rimaste quasi soltanto persone anziane – i conferitori della cooperativa Cinque Terre sono ottantenni – nessuno è più interessato a venire fin qua per coltivare la vite». Si ferma e guarda in basso verso il mare. Scatto qualche foto, vorrei essere più attento e diligente, ma la mia energia è assorbita dall’unicità e dalla bellezza circostante. «È un territorio artificiale. L’uomo l’ha fortemente rimodellato». Magari l’uomo fosse sempre così rispettoso.

Poi un cartello diceva “sentiero interrotto”.
Perché continuavo a camminare allora?
Vedevo vecchie costruzioni al lato del sentiero dalla parte del mare.
Sembravano piccole case fatte di stanze.
Non c’erano tetti.
Vedevo i rubinetti attaccati alle pareti e le docce arrugginite.
Chi abitava questi luoghi?
Poi c’era una lunga scalinata che scendeva verso il mare.
Ma dove erano tutti gli scalini?
Perché si interrompevano tra la terraferma e il mare?
Chi aveva costruito tutto questo?

«Il mio bisnonno viveva facendo vino, mio nonno e mio padre hanno anche dovuto lavorare in fabbrica oltre che nella campagna, io ho avuto la fortuna di poter scegliere e ho scelto di tornare qui per restarci». Le parole di Andrea sono fatte di dura concretezza eppure vanno via nell’aria insieme al resto. Ho sempre creduto nel dialogo degli opposti, nella loro compresenza e mi sono allontanato dalla logica accademica della contrapposizione, soprattutto da quando ho iniziato a camminare per davvero. Guardo per un attimo gli scogli e l’acqua del mare che diventa schiuma. «Qui la terra è fatta da macigno e arenaria».

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Lascio a voi un po’ di immaginazione che queste parole possono suscitare. «Ho iniziato nel 2005. Ho piantato mille piante di Vermentino, Bosco, Albarola o Bianchetta Genovese e ora qualche pianta di Rossese Bianco, un vitigno storico, quasi scomparso, delle Cinque Terre. Il Bosco non lo ritengo un gran vitigno, possiede un buon tannino, è rustico ed è molto generoso a livello di quantità prodotta. È l’uva che dà corpo, dà colore. Ma tutte le uve che vanno a formare il mio vino forniscono ciascuna il proprio apporto, così l’Albarola, grazie alla sua precocità intensifica l’acidità, mentre il Vermentino dona la parte aromatica. Diciamo che è un blend di uve ideale». Ci spostiamo tra i vigneti, Andrea apre e chiude piccoli cancelli di legno, accarezza i grappoli quasi a maturazione, raccoglie una pietra e me la mostra accanto a un muretto a secco che circonda le sue piante. «Come vedi qui non c’è molto spazio per la coltivazione della vite, dopo che hai sistemato o rifatto un muretto, curato il terreno e i confini del tuo appezzamento, ecco cosa puoi piantarci. Questo vigneto di Rossese Bianco ha circa un anno. Ho iniziato dove in realtà tutti fanno vino DOC, dove non c’è una grossa sperimentazione, dove quasi nessuno parla inglese e porta la gente in vigna».

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Ci fermiamo nella casa costruita in mezzo alle vigne, mi siedo mentre Andrea prepara il caffè. «Le due stanze che affitto ai turisti hanno più valore economico dell’intera campagna che possiedo. Con la mia ragazza organizziamo piccoli itinerari per i turisti volti alla scoperta del paesaggio delle Cinque Terre, insieme a degustazioni di prodotti e dei miei vini». Prendiamo il caffè senza aggiunta di zucchero e restiamo fermi tra il sapore della terra e quello del mare.

Poi mi trovavo di fronte a una galleria.
C’era un tavolo appena prima di entrare.
Qualcuno aveva lasciato i bicchieri ancora pieni e se n’era andato.
Chissà se sarebbero tornati a farmi compagnia?
Chissà se avrei potuto finalmente fermarmi?

Scendiamo verso il mare e arriviamo sulla strada d’asfalto. Saliamo su di un piccolo furgone e ci dirigiamo ancora verso il paese, verso la cantina e il vino.

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Andrea apre il portone di un una casa e vi entra. Io rimango un attimo sul limitare e guardo dentro. Lo spazio raccolto e riempito da damigiane, cartoni, tavoli, grate sospese al soffitto e anfore di terracotta. «Qui faccio il mio vino. Con il mezzo ettaro di vigneto riesco a fare mille bottiglie. Mi piaceva l’idea di iniziare dalla natura ed ho acquistato queste anfore dove il vino rimane per 6 mesi. Questo materiale è più neutrale rispetto al legno, cede meno sostanze e consente una maggiore tenuta termica. La macerazione sulle bucce dura tra i 4 e i 10 giorni. Faccio una filtrazione grossolana passando il vino 3-4 volte in damigiana e per decantazione assottiglio la feccia finché diventa residuale all’interno della damigiana. Poi imbottiglio tre volte: ad aprile, a maggio e l’ultima tra giugno e luglio».

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Da un cartone bianco prende una bottiglia, c’è scritto Terre Sospese Vino Bianco, su di un’etichetta giallo-arancione. La apre e ne versa il contenuto in due bicchieri. Beviamo. Il colore ricorda quello dell’etichetta. C’è una materia corporea che sale al naso con fragranza di erbe aromatiche e di frutti, una diversità tenuta assieme con armonia; una parte di natura che si espande quasi solida nel palato tra lingua e denti, da masticare come fosse cibo, spontaneamente salata.

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«Faccio anche un passito, le uve le lascio qui sopra dopo che le ho raccolte». Sull’etichetta questa volta leggo la parola Refursà. «È il nome che si usava per questo tipo di vino. Mio nonno lo chiamava così». Il suo tannino importante e la sua acidità benevola sono un’affinità elettiva che invogliano il palato nella ricerca degli elementi della natura, in una curiosità che si rinnova ad ogni sorso. Resto un attimo ad ascoltare gli odori del vino e della piccola cantina, c’è una compattezza umana che si è piegata con le mani verso la terra, mi parlano gli scogli, i soffi del mare e il vino rimasto. Poi arriva il momento di andare. Ci stringiamo la mano. Mi allontano pensando ad Andrea che ritorna lassù nella casa in mezzo al vigneto.

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La galleria era buia e dopo pochi passi era tutto scomparso.
Il sentiero non si vedeva più.
Il mare e i profumi se n’erano andati.
C’era il silenzio di tempi senza nome.
Lo spazio aveva perduto la sua identità.
Mi chiedevo dove mai potessi arrivare.
Camminavo ancora e questo era rimasto l’unico segno di vita.