28 Set Il Collio attraverso Paraschos
Arriverò sul Collio passando dal Carso isontino.
Alexis mi mostra il panorama da un punto di osservazione privilegiato, il piazzale del Museo della Grande Guerra del Monte San Michele. Mi da indicazioni, io cerco di orientarmi. L’Isonzo, in basso, lambisce l’altopiano carsico poi in lontananza il monte Sabotino e le Alpi Giulie all’orizzonte. È appena iniziata la primavera, tira una bora tesa ma non è così fredda. Conversiamo. Siamo quasi coetanei, lui tre anni più grande, ragazzo positivo, sguardo gentile e vispo.
È il primo figlio – Jannis il secondo – di Evangelos, greco di Salonicco laureato in Farmacia a Trieste e di Nadia, figlia di ristoratori goriziani. Suo padre, innamorato del vino e grande ammiratore di Radikon e Gravner, acquista qualche ettaro di vigna a fine anni novanta tra San Floriano del Collio e le frazioni goriziane di Sant’Andrea, Gradiscutta e Oslavia, la 2003 è la prima vendemmia ufficiale. Alexis è cresciuto col vino, si è formato in Economia a Trieste e lavora ormai in azienda a tempo pieno da undici anni. Jannis, bravo batterista, grande grillista, lo affianca in vigna e in cantina. Rimontiamo in auto per scendere in direzione Gorizia. Prendo confidenza, ma non abbastanza, per abituarmi a questo splendore tremendo: la natura qui sul Carso è spigolosa, essenziale, emergono dal suolo brandelli di calcare che pare respirino. L’imbrunire alimenta la suggestione, accresce i contrasti tra il bianco della roccia e il nero di terra e alberi ancora spogli.
Oltrepassiamo il blu dell’Isonzo, la bellezza di smeraldo, e saliamo verso San Floriano con l’ultimo spiraglio di una luce plastica, prismatica, imprendibile. Intanto continuiamo a parlare io e Alexis, senza interruzioni, lui risponde paziente alle mie tante curiosità. Per cena ritorniamo nel capoluogo isontino e, al Rosenbar, incontriamo Stanko Radikon, pieno di energia nonostante la pessima notizia al rientro dall’ennesima visita medica. È lì con Suzana, sempre pronto a riversare il vino, scherza con Evangelos che nel frattempo ci ha raggiunto. Lo incontrerò al Vinitaly qualche settimana dopo, per l’ultima volta.
Dolce durezza del Collio
Non mi sorprende la grande voglia di osservare le terre ancora prima dei vigneti. La ricchezza e la prodigiosa geologia del Collio, i rilievi, i versanti, la ponca (marna calcarea stratificata) sono l’orgoglio di Alexis. Solo dopo è possibile parlare di varietà, conduzione agricola e forme di allevamento. Al mattino percorriamo strade e sentieri sui margini delle vigne tra San Floriano e Oslavia, gli occhi cadono in basso e si risollevano, afferrano e seguono i particolari, l’alternarsi delle sfoglie di roccia, orizzontali, verticali, reticolari. Grigie, gialle, azzurre, vene sabbiose. Stratificazioni che emergono, la terra mostra la sua memoria e continua a conservarla, la pietra affiora e s’immerge.
Anfiteatri di vigne, alternanza di boschi e frutteti. Queste colline, con le Alpi alle spalle sollevano l’animo, creano un senso di quiete. La luce del Collio è abbagliante anche nei momenti in cui il sole è coperto dalle nubi. La ponca è il segreto del suolo. Uno strato ideale per la coltivazione della vite, un ricordo marino che conserva il calore estivo e lo restituisce durante l’inverno. La rigidità delle stagioni fredde è addolcita dal Korada, il monte sloveno che, elevandosi alle spalle delle alture, protegge dai venti di bora. Al tempo stesso riverbera l’influsso benevolo del mare Adriatico distante una trentina di chilometri. Alexis guida, superiamo l’Ossario, siamo a Oslavia. Il Collio è diviso idealmente in due versanti, quello sloveno, verso nord che include San Floriano e Oslavia, e quello friulano, verso sud, che inizia nella parte più bassa, principalmente rivolto a Cormons e Cividale. Il primo, dal terreno povero e asciutto, è la zona della ribolla; il secondo, più argilloso e umido, del tocai.
Intanto scendiamo nella vigna del pinot grigio, in una delle zone più impervie ed esposte ai venti settentrionali che s’incuneano attraverso la valle della Vipava. Siamo nello Slatnik, toponimo che ha assunto due significati, non del tutto certi: il primo, e più credibile, è relativo alla presenza di prati (slat appunto) in tutta quella zona, una sorta di indicatore di qualità per la produzione d’uva. Inoltre per le pendenze, i forti venti e la sottigliezza dello strato della terra, non è una superficie coperta da alberi o arbusti. Slatnik è stata tradotta anche con “terra d’oro”, zlato in sloveno significa proprio “oro”, magari in relazione all’alta qualità del vino oppure è una conseguenza della colorazione gialla che lo slat assume in estate e in inverno.
Ci dirigiamo verso Lucinico, dove si trova la vecchia vigna di tocai, a sud est del Monte Calvario che sovrasta Gorizia. Attraversiamo boschi e zone oltrepassabili solo grazie al vecchio Defender. Viti di oltre ottant’anni, lì quasi per miracolo, per volere dei Paraschos, un fazzoletto di terra fra una vegetazione straordinaria. Un luogo di desiderio, ricordi e affetti.Da lì a qualche ora ci aspetta proprio la verticale di otto annate del Kai, il tocai ottenuto da questa vigna-monumento. Ne approfitto per fare qualche domanda ad Alexis.
L’intervista
Si nota che sei affezionato a questi luoghi…
Il Collio è una zona che adoro, si vive bene e da quando faccio questo mestiere a tempo pieno, mi sono ritrovato ancora più attaccato al luogo, il lavoro con la terra mi permette di arrivare al cuore del luogo. Poi le persone con cui sono cresciuto mi hanno aiutato ad alimentare questo affetto. Sasa (Radikon n.d.r.), per esempio, mi ha sostenuto su tanti aspetti. Nei primi anni di produzione, per motivi di spazio in cantina, eravamo costretti a vendere tutto il vino entro l’anno. Le vinificazioni erano più “semplici”, con lieviti selezionati e uso di solfiti. A un certo punto gli altri amici produttori ci dicevano che, con le nostre uve, dovevamo pretendere un vino migliore. Qui c’è un legame speciale tra i produttori, anche tra chi ha una visione diversa; è un legame di radici, ci rispettiamo molto.
Forse è un’unione collegata al fatto di abitare in una zona di confine, per quello che è successo nel corso della storia.
Tutto il circondario di Gorizia è a maggioranza slovena. Una comunità, in uno stato “straniero”, ha la necessità di stare unita, tenere vive le tradizioni, la lingua, per resistere ed esistere ancora, per avere un’identità culturale.
Qual è la cosa che ha più di speciale il Collio?
Anche se ci troviamo nell’estremo nord est è una zona calda dal punto di vista culturale ed emotivo, più mediterranea, pur essendo a ridosso delle Alpi. Tra gli sloveni siamo i più aperti ed espansivi. Non so se questo c’entra con il vino ma penso alla solarità, alla luce, al clima. Il Collio è un’isola di sole, spesso accade che pioggia o grandine siano tutte intorno a noi, qui invece resiste il sereno. Sia sulle viti che sulle persone incide in modo positivo.
Cosa fai per preservare il senso del luogo nel vino e nella vigna?
Mi viene naturale dire: toccandolo meno possibile, rispettando le pratiche usate in passato come, per esempio, smuovere il terreno esclusivamente in inverno, prima delle gelate. Oppure lasciar crescere le erbe spontanee nel vigneto affinché la biodiversità locale influisca positivamente sulla pianta. Una vigna nello Slatnik, diserbata e lavorata eccessivamente prima del nostro acquisto nel 1997, ha impiegato vent’anni per riacquistare la flora autoctona. Questo inverno proprio lì abbiamo creato una nuova terrazza, c’era uno strato di humus straordinario, materia organica dove prima c’era il deserto.
Come vivi il rapporto con le tue origini greche in un territorio così complesso?
Credo che la cultura greca mi abbia influenzato: la razionalità, il rifiuto del dogmatismo, la ricerca della logica e della ragione, l’empirismo. Mi spiace non frequentare più la Grecia, i miei genitori ci tornano più volte l’anno.
Hai avuto altre ambizioni oppure sei sempre stato determinato sul lavoro aziendale?
Purtroppo o per fortuna non ho avuto molti margini di scelta. Ero certo di prendere in mano l’albergo e il ristorante della famiglia di mia madre. La passione per il vino c’era già perché tutti gli amici lo facevano, era spesso intesa come una sfida. Abbiamo iniziato a fare vino che avevo diciassette anni, assaggiavo le prime bottiglie, è stato un susseguirsi di eventi che non mi hanno fatto pesare una scelta non proprio indipendente.
Ti vedo tenace e con un forte senso di responsabilità. Evangelos è un tipo tosto…
Credo che la responsabilità sia una conseguenza obbligata: nulla è scontato e non si può abbassare la guardia. E poi, con mio padre, le condizioni sono sempre state molto ferme: responsabilità o ti cerchi un altro impiego. L’ingresso in azienda non è stato dei più leggeri. Ricordo ancora la prima giornata di lavoro, lo reputavo di “adattamento” se non di ferie, anche perché mi ero appena laureato… Mi ha fatto capire che mi sarei dovuto guadagnare tutto.
Con tuo padre hai sempre condiviso le scelte?
Io sono un sostenitore della democrazia, mio papà meno. I pareri sono spesso discordanti però a volte mollo io, a volte lui. Una varietà di pareri porta sempre a una decisione migliore. Da qualche anno si è aggiunta una terza testa, mio fratello Jannis che sta crescendo e lo vedo ogni giorno sempre più appassionato. Quest’anno vorremmo andare a fare una seconda vendemmia in Alsazia, un luogo di cui siamo innamorati e con il quale troviamo molte similitudini.
Negli ultimi anni, alcuni dei migliori produttori del Collio italiano e sloveno, hanno scelto di ridurre il tempo di contatto con le bucce. Come vedi questa scelta?
Non credo sia solo una scelta stilistica. Certo, magari oggi si apprezzano vini più sottili ma non necessariamente più semplici. Quelli macerati a lungo davano molto nell’immediato, quasi stupivano. Adesso i nostri vini mi sembrano più integri e con più carte da giocare nel medio-lungo periodo, la complessità può essere letta sotto altri aspetti, magari legati alla finezza e all’acidità. Ovviamente l’alta qualità dell’uva di partenza è fuori discussione e in ogni caso cerchiamo sempre di assecondare l’annata. A volte vorresti che la macerazione durasse all’infinito tanto la buccia è sana e profumata. Oggi le persone accettano questa variabilità, capiscono che è una virtù. La bellezza nel vino è questo senso di apprendimento costante, di rivedersi, di cambiare idea, non per assecondare il mercato ma per assecondare l’annata e il tuo sentire.
Come ti proietti da qui a qualche anno?
Non mi pongo più il problema. Ogni volta che l’ho fatto, sono stato smentito. È come programmare la vita dei tuoi figli, è un fallimento in partenza. Dato che non amo fallire, nemmeno ci provo.
La verticale di otto annate del Kai al ristorante La Subida di Cormons
Per il 70% le uve di questa cuvée provengono dal succitato vigneto di 90 anni su ponca. Nel ripercorrere i vini della degustazione, come complesso di elementi, è emersa forte la spiccata identità di ogni singolo liquido riportata attraverso brevi note. L’impronta identitaria mi ha fatto pensare a una premessa strutturalista la cui definizione generale, letta qualche tempo prima sull’Enciclopedia Treccani, mi pare calzasse a pennello per l’occasione: l’intera degustazione «costituisce una struttura, ossia un insieme organico e globale i cui elementi costitutivi non hanno valore funzionale autonomo ma lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive di ciascun elemento rispetto a tutti gli altri dell’insieme».
2003
Cremoso, con un afflato alcolico feroce, è potenza ben spesa veicolata dalla volatile.
2004
Contenuto, sereno, immediato, sembra che il legno abbia avuto una certa influenza.
2005
Floreale, ambizioso, delicato ma irrimediabilmente più semplice.
2007
Spessore, è l’unione delle parti a dargli supporto, un’impalcatura complessa.
2008
Confuso, sembra indebolito, fiacco e come diviso da un vegetale estraneo.
2009
Solare, caloroso, raggiante. Il più severo, secchezza e integrità.
2011
Salato, ha una modalità lieve e continua, incalzante, vivacità.
2012
Resine, alcolicità e tono morbido. Ha comunque presa, concretezza.