Il suono del vino

 

di Piera Ghisu

Le parole

sono di tutti e invano

si celano nei dizionari

Montale

Al rientro da Seneghe, percorrendo la strada che collega il paese a Santu Lussurgiu, non ero circondata dalle querce da sughero verdi d’estate. Non c’erano i lentischi, i corbezzoli, l’elicriso. Non c’erano gli amati profumi della macchia mediterranea. C’erano il nero, la cenere, la puzza e una luna rossa all’orizzonte che ricordava il fuoco.

Tornata a Cagliari, appena acceso il pc, apprendo della morte di Jean-Luc Nancy. Una grandissima perdita. Era vecchio e vivo, come un ulivo. Non credo di sbagliarmi se dico che fino al giorno prima era stato il più importante e influente filosofo in circolazione, capace di ascolto, analisi e coraggio, le cui opere rimarranno come le pietre miliari ai bordi delle strade, nonostante il tempo e nonostante gli incendi.

Fortunatamente porto con me una grande gioia. Il ricordo di due ore piacevolissime, passate intorno a due bottiglie perfette, il Cannonau Minneddu 2017 di Giampaolo Paddeu, nato tra i fili d’erba e le rocce di Mamoiada, e il Vermentino 2019 di Meigamma, la cantina del pomeriggio di Giuseppe Pusceddu e della bellissima Varvara, bionda e luminosa come il loro vino e come le spiagge di Villasimius; passate in compagnia di due grecisti d’eccezione, Gilda Tentorio(**) e Nicola Crocetti(*), massimi esperti italiani di Nikos Kazantzakis, il poeta cretese di Zorba il greco e dell’Ultima tentazione di Cristo, colui che scrisse ben 33.333 versi per raccontarci cosa accadde a Ulisse dopo il ritorno a Itaca, tradotti di recente in italiano dallo stesso Crocetti secondo il principio delle callidae iuncturae.

 

Nikos Kazantzakis

Nikos Kazantzakis

 

Con questi sentimenti contrastanti, diversi come i vini bevuti a Seneghe, comincio a scrivere di un incontro desiderato, sperato, preparato come ho potuto, durante il quale si è parlato tanto di poesia, di terra, di lingua, musica e traduzione. In una parola, di vino.

Partirei per questa intervista da quello che è il simbolo della casa editrice, la Kylix, la coppa del vino. Come è nata l’idea?

Nicola Crocetti: Mi ero accorto di una cosa, e cioè che tanti nomi erano già stati utilizzati per distinguere le collane editoriali: i nomi degli alberi, degli animali, i nomi di fantasia. E siccome io mi volevo distinguere, mi dissi: faccio una cosa che nessuno ha mai fatto, e utilizzo i nomi dei vasetti greci. Che sono tantissimi, e hanno forme meravigliose, armoniche. Allora presi un vecchio catalogo francese sulle ceramiche greche e scelsi la kylix, prima di tutto perché la sua forma mi piaceva particolarmente. Mi mancava però la giusta decorazione, ne avevo moltissime di vasi greci, ma non una che mi soddisfacesse completamente. Chiesi dunque a un amico illustratore di disegnare sul fianco della kylix un’immagine presa da un altro vaso: una donna che suona la cetra al cospetto di un satiro. Volevo che il simbolo della mia casa editrice richiamasse l’idea del simposio, dell’incontro intorno alla poesia.

Una delle kylikes più celebri, opera del ceramista Exechias, si trova a Monaco e ritrae Dioniso così come viene cantato negli inni omerici. Nei poemi invece il dio nato due volte non compare. Tuttavia l’elemento dionisiaco è però ben presente, integrato e integrale-naturale direi, e quindi non palese, nascosto, forse fuso in quell’Apollo ctonio di cui poco si parla ma il cui culto era antichissimo. Ma ci sono dei momenti nei poemi omerici dove il dionisiaco emerge con più forza? E come si è evoluto questo elemento nella poesia greca, e in particolare in quella di Nikos Kazantzakis?

Gilda Tentorio – Sono reduce da un convegno su Apollo, svoltosi a Delfi, nel quale si è parlato tanto anche di Dioniso. Nel santuario di Delfi, nel quale si erano succeduti nei secoli diversi culti pagani, le due divinità coabitavano. C’è indubbiamente un Apollo meno razionale di quello che ci è stato raccontato, quello che corrisponde al culto dell’età classica: allo stesso modo anche Dioniso ha aspetti più armonici e pacifici. Le due divinità rappresentano insomma gli aspetti complementari di una forza oscura che i Greci cercarono di catalogare, e che a Delfi emerge in tutta la sua complessità. Tra l’altro, come ci mostra Euripide nelle Baccanti, fu difficile inglobare Dioniso, una divinità che viene dall’Asia, nella cultura greca.

C’è però un episodio dell’Odissea nel quale compare uno dei simboli più chiari del dionisiaco, ed è quello dei Ciclopi: il vino è ciò che contrappone la barbarie di Polifemo alla civilizzazione dei greci, che usano il liquido odoroso e profumato per domare la furia cieca del gigante non civilizzato. Il vino è cantato dunque come simbolo di civiltà.

In ultima istanza ciò che manca nei poemi di Omero è l’ebbrezza dionisiaca, forse proprio in virtù dell’uditorio: rispetto agli inni, i poemi hanno un’altra modalità espressiva, e non sono finalizzati a un simposio.

Nell’Odissea di Kazantzakis, scritta intorno agli anni trenta del secolo scorso, vediamo invece come l’elemento dell’ebbrezza sia esplicitamente presente, e in maniera spesso incisiva. Il poeta cretese parla di quattro gradini dell’ebbrezza: estasi del vino, amore, dio e libertà occhi di stella (XVII 98, p. 526). E questo benché Ulisse, l’uomo libero per eccellenza, si ubriachi pochissime volte, per rimanere presente a se stesso e mantenere la tempra dell’uomo forte. In totale la parola vino compare ben 285 volte, legandosi principalmente all’idea di ospitalità. Il vino è inebriante, e spesso è motore di racconti: la comunità si riunisce intorno alla coppa di vino e da lì si sciolgono i commensali, liberando i loro animi.

Non dimentichiamo infatti che in Kazantzakis spirito e materia sono sempre intimamente legati, e il vino riesce a essere la perfetta sintesi e il perfetto tramite di questa profonda relazione. ‘’La vita è vino, la morte è vino, ubriachiamoci!” fa dire Kazantzakis alla bella Elena, protagonista femminile del poema.

 

Logo Crocetti Editore.

L’Odissea di Kazantzakis è un’opera enorme, cosmica, totale. Odisseo si rimette nuovamente in viaggio, lasciandosi il Mediterraneo alle spalle per tentare di abbracciare il sud del mondo. Una fuga da casa che mette in rilievo ancor più il ricordo della sua terra, rievocata in tutta la sua ricchezza, compresa quella lessicale, fissata dalle lunghe e accurate ricerche sul campo dello stesso Kazantzakis sui termini della lingua parlata dal popolo, la lingua demotica.

C’è un passo in particolare che mostra il lato forse più umano di Odisseo, perché vicino al popolo e alla terra:

 

L’Uomo che tutto vuole sospira, ha il cuore oppresso;

la sua mente non è mai stata al servizio della terra,

né ha mai voluto vivere come il padre da colono;

ma a volte guardando dalla nave le spighe turgide,

le vigne, gli olivi e i contadini chini sulla terra,

sospirava amaramente di nascosto dall’equipaggio

come se un vecchio aratore in lui arasse ancora.

 

Nicola Crocetti – Kazantzakis compì lunghi studi sulla lingua demotica, la lingua popolare greca. Salvò circa ottomila lemmi, trascrivendoli su un taccuino, per poi includerli principalmente nella sua Odissea. In quegli anni in Grecia si viveva in una condizione di diglossia, di bilinguismo: si utilizzava infatti sia una lingua riformata, imposta dal potere, dalla burocrazia, la lingua katharevousa, nata a tavolino dopo quattro secoli di occupazione ottomana, sia appunto quella demotica, la lingua essenzialmente parlata, contaminata da diverse culture. Creta, l’isola natia di Kazantzakis, era il risultato più evidente delle occupazioni straniere: si ritrovavano molti termini non solo di origine turca, ma anche veneziana e genovese. La lingua locale era insomma una lingua stratificata, impura ma viva. I sedicenti padri della patria vollero ripulirla da secoli di dominazioni, cercando di avvicinare la lingua greca a quella bizantina, l’erede per così dire ufficiale del greco classico. Crearono dunque una lingua artificiale, rifiutando quella del popolo, dei contadini, dei pescatori, degli artigiani, in cui se da una parte rivivevano i secoli di dolorosa dominazione, dall’altra permanevano i termini della tradizione più classica come quella omerica. Kazantzakis si oppose a questa riforma, e cercò come poteva di salvare e tramandare la storia della sua gente attraverso la lingua, quella radicata nel territorio, tra le persone, viva. Pur essendo un viaggiatore, era profondamente legato alla terra e alla sua isola. Lo prova la costante presenza, nelle sue opere, del tempo della vendemmia: esso viene più volte evocato da Kazantzakis. Era un momento centrale della vita dei greci, e lui, così attento allo spirito comunitario, lo celebrava come tale, al punto da inviare agli amici anche cartoline da Creta con le immagini della raccolta.

Così canta la vendemmia Ulisse, ormai alla deriva, verso la fine del poema (XXIII 370, p 739)

 

Nelle corti dei padroni schiamazzavano i pigiatori,

e ribollivano i tini traboccanti di grappoli.

Uomini enormi, biondi, nudi, pigiavano nei tini,

ebbri e inebetiti dai vapori acri dell’uva.

I folti baffi spioventi erano impregnati di mosto,

i raspi si impigliavano nella barba, nelle ascelle,

e il mosto denso dai canali colava dai recipienti.

Gli amici stesi sulla sabbia o nelle taverne a bere,

e alla ricca porta del palazzo la sorte era sospesa.

 

– I rimandi alla tradizione e alla storia popolari, unitamente all’attenzione per gli stati mentali e emotivi di Ulisse, rivelano la strettissima vicinanza di Kazantzakis all’idealismo tedesco e alla cultura romantica.

Gilda Tentorio – Certamente. Una delle ragioni della costante presenza nelle opere di Kazantzakis del numero tre deriva proprio dai suoi studi hegeliani. Oltre che letterato, poeta e traduttore, Kazantzakis fu anche studioso di filosofia. Nella sua Odissea sono continui i rimandi a Bergson, di cui fu allievo nei suoi anni parigini, oltre che a Hegel e a Nietzsche, di cui fu profondo conoscitore. In qualche modo Kazantzakis riesce a fondere il superuomo nicciano con l’idea di superamento della dialettica hegeliana, in un sincretismo filosofico e religioso. Ulisse è colui che va oltre, mente alata e guardaconfini, che supera le avversità ed è in continuo, perpetuo movimento, nella ricerca costante della libertà. Come lo stesso Kazantzakis, che nella sua epigrafe volle le parole Non spero nulla, non temo nulla, sono libero; da intendere non nel senso comune ma nella complessità dell’abbandono di ogni dipendenza, anche da se stessi.

 

Odissea, Nikos Kazantzakis. Crocetti Editore.

Nell’introduzione all’Odissea di Kazantzakis leggiamo che Ulisse ha ben 103 epiteti, e oltre a quelli già citati troviamo «vendemmiatore di anime».

Nicola Crocetti – Credo che anche Kazantzakis si considerasse tale, e non solo perché si identificava completamente nella figura di Ulisse, ma anche per un’altra ragione più profonda. Filosofi e poeti sono i più profondi conoscitori dell’animo umano, ed egli, che pure scrisse principalmente romanzi, fu essenzialmente un poeta, interessato agli aspetti più lirici e profondi dell’esistenza. Tra le sue poesie c’è una raccolta di terzine dantesche dedicate alle grandi anime del passato, come Don Chisciotte, Lenin, Maometto, Elena di Troia, figure chiave che animano il suo universo, e che compaiono anche nell’Odissea, che è il suo excursus nella storia universale e popolare. Potremmo definirlo – perché no? – una grande vendemmia.

 

 

 

Parliamo di traduzione, e della ricerca della musicalità e dell’armonia di un testo. Da una parte è facile constatare, nella poesia greca in particolare, come la relazione tra vino e poesia sia da sempre molto viva: come scrive Kazantzakis e ricordava prima Gilda, il vino è «motore di racconti»; ma c’è una similitudine a monte di questo discorso che forse val la pena di azzardare e analizzare, ed è quella tra chi produce il vino e chi traduce. Partendo da una consolidata relazione tra luogo e vitigno il vignaiolo inventa il suo vino, dandogli un suono peculiare.

Nicola Crocetti – Il lavoro della traduzione è un lavoro di creazione e ricreazione, è dare la propria voce a un’altra persona, come nel doppiaggio cinematografico. Ci sono molte teorie sulla traduzione, e sono tutte diverse. Non esiste una teoria univoca. Per me tradurre significa raggiungere uno scopo, che è quello di creare, nel caso della poesia, un’altra bella poesia, che abbia una sua musicalità, una sua piacevolezza. Tradendo quello che si può tradire, come vuole il detto, decisamente maschilista, che dice che le traduzioni sono come le donne: brutte e fedeli, o belle e infedeli.

Come si fa a riprodurre la metrica e la rima in altre lingue? Come si può tradurre la stratificazione di lingue come il greco in un’altra lingua che magari non ha alcuna stratificazione, o ne ha diverse? La diglossia greca non è riproducibile in italiano, cosi come non sono riproducibili le parole composte di cui è ricchissimo il vocabolario greco, per le quali si deve necessariamente ricorrere a parafrasi. Nell’Odissea di Kazantzakis ci sono tante parole monstre, come l’epiteto di Elena «colei che parla come un fiore ricoperto di rugiada» che in greco si può rendere con un unico termine, cosa credo impossibile in qualsiasi altra lingua. Per il traduttore è un esercizio di equilibrismo, è un arrampicarsi sugli specchi, soprattutto quando si tratta di tradurre in rima. Ci sono sempre, nelle lingue, parole che non fanno rima con nient’altro. In italiano sono cinque o sei, e una di queste, guarda caso, è uva. I grandi traduttori, coloro che sono considerati tali perché fedelissimi alla parola e quando c’è alla rima, alla fine ottengono solamente risultati grotteschi.

In questo senso sì, i traduttori assomigliano ai bravi vignaioli, che trasgrediscono quando c’è da trasgredire, riuscendo comunque a tirar fuori con eleganza il senso, l’essenza, il succo di quello che c’è da dire. La fatica è tanta, nel caso dell’Odissea è stata però erculea. Ricordo ad esempio quante notti passai a interrogarmi sul significato della parola fameghios. Uno di quei termini che nel momento in cui traducevo l’opera non comparivano in nessun vocabolario. A un certo punto ebbi l’intuizione giusta: l’origine della parola era veneziana, e fameghios era il famiglio, il servitore della famiglia.

 

Fermiamoci un momento nei territori dell’aisthesis, della sensazione. Kazantzakis definì il suono dei suoi versi decaeptasillabi (diciassette sillabe) simile a quello delle «onde sulla battigia» e allo «scorrere del sangue». Immagini liquide e sensuali. C’è un brano dell’Odissea in cui emerge con più evidenza tale sensualità?

Nicola Crocetti – Credo che nessuno abbia mai cantato i cinque sensi come li canta Kazantzakis. Nel Canto XVI prende forma un vero e proprio elogio dei cinque sensi. Gusto e olfatto sono così celebrati da Ulisse.

 

E tu, rigogliosa ferita, crespo garofano schiuso,

labbro scarlatto su cui resta il gusto dei baci dati,

vino pastoso, miele inebriante, pesca vellutata,

dalla cute sottile e le mille vene, come ti amo,

diafana pellicina, che baci sulla bocca il mondo!

Con che smania hai gustato sulla terra i frutti, il pane,

la carne e il vino che mille volte inebria, ingoiando

tutto nel cono del ventre per trasformarlo in spirito!

E tu mio segugio, che fiuti l’aria piena di incanti,

che insonne e muto corri sulla soglia del padrone,

che scegli i profumi e annunci gli odori guasti,

grazie per i piaceri che mi hai dato in questo mondo.

Per i fiori fragranti che ho fiutato, per la salsedine,

il fiato della terra dopo la pioggia, l’aspro olezzo

delle ascelle sudate degli amici che remano al sole,

e tu, dolce aroma di latte dei seni di una donna!

Mai l’occhio né l’orecchio, e il labbro non ancora,

han potuto toccare il segreto nudo, cosi nudo;

il profumo è un ricordo denso, e quando si risveglia

con che violenza saccheggia il fortino della mente!

Hai fiutato, annusato, matassa di aromi il mondo,

sii benedetto, naso, che senza mai saziarti fiuti!

 

Kylix.

 

Ancora il vino, che «mille volte inebria e si trasforma in spirito». Tra le opere che lei ha tradotto in passato una su tutte sembra richiamarsi esplicitamente al vino: La signora delle vigne di Ghiannis Ritsos. Vuole raccontarci qualcosa di questo introvabile libro? Chi è la signora delle vigne? E quali furono i suoi rapporti con l’autore?

Nicola Crocetti – Sto giusto meditando di riprendere La signora delle vigne, di rivedere la traduzione che feci circa 45 anni fa. Le traduzioni col passare del tempo si coprono di un velo di rughe, e devono essere necessariamente riviste. La signora delle vigne del titolo è la Grecia, con tutte le sue sofferenze, la sua bellezza e l’inevitabile poesia che ne deriva. Come tutti i paesi che hanno sofferto, la Grecia è stata una grande produttrice di poesia, come la Russia, la Spagna. Quando uno è felice non pensa certo a scrivere poesie.

Nei venti anni di amicizia profonda, Ritsos ha rivestito un ruolo fondamentale per la mia formazione. Tra le tante cose che mi ha insegnato, proprio a proposito di vino, c’è l’origine del nome del suo paese Monemvasia. Per alcuni si riconnette alla parola “Malvasia”, importata in Grecia dai veneziani, ma il poeta mi spiegò che il significato è in realtà quello letterale di «unico accesso». Per la Signora delle vigne tante cose si riferiscono al vino, ma nel caso di quel toponimo, no.

 

Abbiamo iniziato questa intervista parlando del simbolo della sua casa editrice, e vorrei chiuderla come si chiude una circonferenza, come il fondo di un bicchiere, tornando a quel punto esatto, con qualche parola in più sulla rivista Poesia, nata nel Gennaio 1988: quando è nata, sembrava quasi impossibile che potesse durare così a lungo.

Nicola Crocetti – Ritsos mi aveva detto: «Sai perché hai fatto tutto questo? Perché sei greco». Forse nella sua risposta ritorna quell’interesse per la cultura popolare che, come abbiamo detto, era proprio, tra gli altri, di Kazantzakis, e che lo stesso Ritsos sentiva. La rivista Poesia nasce infatti non solo da una motivazione personale, la mia passione per le opere in versi, ma dalla constatazione che la poesia fosse un fenomeno di massa – fatto oggi facilmente verificabile osservando il numero di risultati dei motori di ricerca – che però non era ancora stato compreso come tale. Per questa ragione scelsi come canale di distribuzione le edicole, per la loro presenza più capillare nel territorio – sfioravano allora le 40mila unità contro le 4mila librerie. E decisi di non fare la solita rivista letteraria di 300 pagine, senza immagini, ma di creare un magazine agile, che non usasse una terminologia troppo complessa, come spesso accade negli ambienti culturali italiani, o più in generale europei, dove si pensa che il parlare forbito testimoni una grande intelligenza. Personalmente, ho sempre pensato che riuscire a esprimersi con chiarezza, senza fronzoli, riuscendo a farsi comprendere da tutti, fosse il modo migliore di comunicare. Forse è stato proprio questo l’elisir di Poesia.

 

«Al di là… non resterebbe fuori musica neanche l’attestazione silenziosa dell’essereposto-qui delle pietre: ci sarebbe ancora, di già, fruscio di mondo, scricchiolii, crepitii, rumori “di fondo”, rumori senza rumore, oppure solamente uno stupore minerale che è ancora sorpresa di mondo».

Jean Luc Nancy, Il senso del mondo

 

(*)Nicola Crocetti, grecista e traduttore di poesia greca moderna e contemporanea, è nato nel 1940 a Patrasso, dove ha trascorso la prima infanzia. È cresciuto e ha studiato a Firenze, negli Stati Uniti e a Parigi. Ha tradotto migliaia di pagine di narrativa dal greco e oltre 100.000 versi dei maggiori poeti greci contemporanei. Vive a Milano, dove nel 1981 ha fondato la casa editrice Crocetti, specializzata in poesia. Oltre alle antologie dedicate alla poesia basca, svedese, russa e greca, tra i poeti stranieri pubblicati da Crocetti, sempre con testo originale a fronte, ricordiamo: Ritsos, Kavafis, Aragon, Gibran, Rilke, Dickinson, Machado, Whitman, Elitis, St. Vincent Millay, Valéry, Weil, Amichai, Sexton, Anaghnostakis, Majakovskij, Verlaine, Mallarmé, Rich, Saenz, Tranströmer. Tra gli italiani: Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda; Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove. Del 1988 è la rivista Poesia, che ha diffuso in maniera capillare la cultura poetica in Italia, affermandosi, per qualità e tiratura, come la più importante pubblicazione del genere in tutta Europa. Nel 2020 ha completato la traduzione della monumentale Odissea di Nikos Kazantzakis, prosecuzione dell’epos omerico.

 

(**)Gilda Tentorio si innamora irrimediabilmente della Grecia durante gli anni di Università a Milano. Per il Dottorato sceglie di trattare il canto delle Sirene nella sua diacronia, da Omero ad alcuni autori greci moderni e poi con un postdoc ad Atene studia la presenza del mito antico nel teatro greco contemporaneo. Oggi insegna al Liceo ed è docente di lingua e letteratura neogreca all’Università di Pavia e di Milano. Appena può vola in Grecia, che considera la sua “seconda patria”.

Nel 2015 ha pubblicato la raccolta di saggi Binari, ruote e ali in Grecia. Immagini letterarie e veicoli di senso, un approccio originale che studia le interazioni fra letteratura e mezzi di trasporto. Si occupa di viaggio, identità, eredità dell’antico, riscritture del mito, postmoderno e teatro.
Traduce dal neogreco saggi, prosa, poesia, opere teatrali. Traduzioni recenti: Il metrò di Tassoula Karagheorghìou (2021 – raccolta poetica); prosa: Christos Chryssòpoulos, Il bombarolo del Partenone (2017); Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione (2018) e La mia Grecia (2021); Vassilis Vassilikòs, Il racconto di Giasone (2020) e Vittime di pace (2021); Vassilis Paleokostas, Latitante gentiluomo (2021).