29 Mar La dittatura del consumatore globale
La giornata del 7 febbraio è uno dei primi passi concreti di quel gruppo di imprenditori vinicoli e giornalisti, che nel maggio dello scorso anno scrivevano il manifesto programmatico: “Appello sul vino, il mercato e l’enologia del III millennio”. L’hotel Sheraton di Roma ha ospitato la tavola rotonda voluta dal giornalista Andrea Zanfi, per comprendere da un punto di vista tecnico e di marketing, le evoluzioni cui è sottoposto il mondo del vino nel mercato globale. Due i momenti centrali della giornata, il cui approccio chiarisce l’intento del gruppo: “Marketing come strumento di supporto alle aziende vitivinicole per affrontare la sfida alla globalizzazione” e “Vitigni come elementi per un distinguo strategico delle aziende vitivinicole”. Il primo momento è stato introdotto da un’analisi della competitività del settore vitivinicolo esposta dal Presidente della F.I.S.A.R. Vittorio Cardaci Ama. Molti sono i problemi aziendali dei produttori di vino… la mancanza di risorse umane nell’area marketing e comunicazione, i pochi investimenti nella ricerca e nelle analisi e una comunicazione del vino inadeguata ai nuovi consumatori globali. Luigi Odello del Centro Studi Assaggiatori dice «Più artisti o più imprenditori? Fortunatamente c’è una migrazione anche nelle piccole aziende da artisti a imprenditori…mi vendo come artista e ragiono come un imprenditore». Continua con una riflessione sul fatto che «il vino è stato reso troppo difficile – ed invita a – conoscere il consumatore per soddisfare le sue esigenze e le sue richieste” come quella di una “universalizzazione del floreale». Andrea Gabrielli, giornalista, coideatore del suddetto manifesto, parla di internazionalizzazione delle aziende, lamenta che «non abbiamo una struttura produttiva adatta, troppo piccola per proposte interessanti all’estero» esortando i produttori a condividere progetti come quello della Assovini in cui 80 aziende siciliane si sono associate per fare un’offerta competitiva in un mercato globale.
Mario Falcetti, agronomo e direttore generale della Contadi Castaldi, trova che vada esaltato il terroir a discapito del vitigno, con grande fierezza racconta l’iniziativa ludica proposta dall’azienda franciacortina nelle visite, in cui vengono forniti campioni di vitigni con cui ognuno può costruire il vino che vuole, il cosiddetto “Gioco della Cuvée”. Concludono il case-history Donnafugata e l’intervento di Roger Sesto, addetto stampa dell’evento, fautore di etichette emozionali che ricordino terroir e vigna più che vitigno e tecnica. Il secondo forum è del tutto in linea con le premesse della mattinata: “I vitigni come elementi per un distinguo strategico delle aziende”. Il primo intervento vede il famoso agronomo Attilio Scienza, consulente di aziende come Petra Wines, che espone il dualismo, terroir/vitigno come un falso problema e propone di puntare tutto sull’innovazione poiché «la globalizzazione ha creato anche occasioni di produzione alternative, facendo ricorso a pratiche come la biodinamica, nel tentativo di mantenere forme di viticoltura che le pressioni del progresso scientifico tendono a sconvolgere. Ma rivolgersi alle filosofie “new age” per produrre vino non ha molto senso, così come rifugiarsi in una tradizione che è vista come l’antidoto ai mali prodotti dalla ricerca. Nulla di più falso – continua Scienza – perché come dicevano Hossbawn e Ranger ne “L’invenzione della tradizione”, le tradizioni sono sempre state inventate e reinventate per soddisfare gli scopi di persone che volevano attraverso queste, legittimare il loro potere. A chi invoca il ritorno della tradizione nella produzione di vino si può invece rispondere che il modo più efficace per attuarla è quello di un suo “tradimento fedele”. Il paradigma interpretativo che ha mosso nei secoli il progresso viticolo è stata l’innovazione genetica, rappresentata dalla circolazione varietale e dalla selezione degli incroci intenzionali e spontanei. Se vogliamo dare seguito alla provocazione che una grande catena di distribuzione inglese utilizza, per stimolare l’interesse dei suoi consumatori nei confronti del consumo del vino, ( “prova qualcosa di nuovo oggi”), l’unica risorsa oggi disponibile è quella di introdurre nella nostra viticoltura dei nuovi vitigni. Possiamo attingere al grande bacino genetico transcaucasico (circa 800 vitigni da valutare nei nostri climi), ai risultati dei programmi di miglioramento genetico per incrocio, in corso presso molti centri ricerca e soprattutto dobbiamo intraprendere nuovi progetti di incrocio, utilizzando le scoperte fatte in questi anni sul genoma della vite, anche per ottenere piante meno vulnerabili nei confronti delle malattie e più adattabili ai cambiamenti climatici, che nei prossimi anni decideranno sulla localizzazione di vigneti in Europa e sullo stile dei vini che saranno, in questi, prodotti. Meglio non fare della filosofia, non ingabbiarsi in vitigni autoctoni dalla dubbia qualità, invece di “crearne” di nuovi magari dalla riserva genetica del Caucaso». Anche Il professor Roberto Zironi dell’Università di Udine scova un falso problema, quello dei vitigni autoctoni. Secondo lui è necessariofare una selezione per distinguere varietà storiche da quelle minori. «I vitigni internazionali sono attualmente percepiti come vini di qualità standardizzata e riconosciuta mentre gli autoctoni godono dell’aura della riscoperta diventando prodotti per intenditori. Gli stessi produttori talvolta cadono in questo paradosso: internazionale per accontentare tutti e/o autoctono per ricavarsi delle nicchie di particolarità. Questo per far capire semplicemente che spesso un vitigno si è affermato su un territorio perché aveva delle caratteristiche qualitative ottimali in relazione alla produzione o alla sensorialità. Autoctono non è quindi sinonimo di qualità, spesso il fatto di essere un vitigno minore dipende dall’evidenza di avere delle qualità minori».
A questo punto la professoressa Oriana Silvestroni denuncia un atteggiamento obsoleto dell’organizzazione legislativa riguardo il vino, che non tiene conto dell’innovazione, bisognerebbe spingere su nuovi incroci, il nuovo consumatore deve essere imboccato e soddisfatto in qualunque suo desiderio. Solo Paolo Vagaggini sottolinea il senso delle DOC e delle DOCG dal quale non si può prescindere, al quale anche le esigenze di mercato dovrebbero essere sottomesse. Cita i Supertuscan, esempio emblematico del manifesto programmatico sottoscritto dagli organizzatori, come un modo per fantasticare e incontrare il gusto di un certo tipo di consumatore, ma senza esagerare, anche se poi termina dicendo «…la genetica del gusto sta mostrando la diversa capacità di intere popolazioni di percepire il gusto in forma diversa e nel futuro i vini potranno essere creati tenendo conto dei mercati che li apprezzeranno. I vitigni e la loro elaborazione sono il materiale che l’artista-enologo usa per le sue creazioni in cui può dare libero sfogo alla fantasia per la sua opera di gioiosa creatività».
Anche Vittorio Fiore accusa i disciplinari e le DOC di non essere al passo con l’innovazione viti- enologica. Fabio Turchetti in quest’ultimo forum fa un intervento pieno di domande, come «…alla fine, o all’inizio, di tutto, che significa “territorialità”? E quale la sua espressione più autentica? Quella del vitigno allocato lì da sempre, o l’altra: dell’uva portatavi di recente, ma capace di mostrare finalmente la faccia nascosta della luna, stavolta in tutta la sua luminosità? E l’Europa? E le nostre denominazioni? Sono ancora all’altezza, o c’è bisogno di rimboccarsi le maniche? Sono davvero un volano, altrove, per il nostro vino, o l’esperienza successiva alla tragedia del metanolo non ci ha ancora insegnato nulla, dopo che alcuni vini da tavola sbaragliarono il campo, rifacendo luce su un’Italia enoica che sbatteva la testa su un muro sempre più sconsolato? Vincerà la globalizzazione? Ma che s’intende per questa? È qualcosa che vede alcuni vitigni, ed alcuni stili o scuole di pensiero, soddisfare meglio il naso e il palato di tanti, o è li a ricordarci che invece potrebbe essere il marketing l’elemento determinate per primeggiare, più della qualità reale, presunta o spacciata per tale? O magari è vero che il pubblico si è avvicinato di più al vino, negli ultimi vent’anni, perché i canoni sensoriali oggi dominanti sono i preferiti? E se la colpa fosse di tutti noi, visto che vogliamo rendere anche quei nostri vitigni più esclusivi identici ad altri, come se invece non avessero voce propria e distinta? E perché non farli pagare il giusto, allora, ponendo ogni etichetta nella opportuna fascia di mercato?»
Il forum si è chiuso con una degustazione di vini, a tema con l’evento, “innovazione – il vino che berremo.
Pare che si stia combattendo una battaglia con la bandiera dell’innovazione e al grido di “s’ei piace ei lice”. Peccato che Tasso riferisca l’autentica proprietà di questa legge, alla passione che si manifesta in natura, all’amore sensuale, lo stesso che fa incontrare la terra e il suo seme per creare, e non inventare, la vita unica di un essere nel suo habitat e il loro indissolubile legame di senso e necessità. Terroir e vitigno. Il concetto di target verso il quale si orienta il mercato moderno, può essere la legittima preoccupazione di che si occupa di produzioni industriali, di elettrodomestici, prodotti informatici, cose dignitose nella loro utilità, ma senz’anima e senza vita. E’ stata, in effetti una giornata molto interessante dal punto di vista delle tecniche di marketing, delle politiche aziendali e della costruzione strategica dei brand. Il vino però, non è una lavatrice. E’ vita e relazione, poco gli importa di essere strategico.