21 Set La lettera di Paolo Parise, settembre 2019
Carissimo Sandro,
sono tornato domenica scorsa dalla settimana di trekking in Barbagia con la Zeppelin. Qui le piogge, il buio la sera e la ripresa del lavoro in piscina hanno decretato la fine dell’estate ed è di nuovo già vendemmia sulle colline qui attorno. Oggi (domenica scorsa) c’è proprio un tempo da lupi. La settimana in Sardegna, anche se faticosa e fatta di giornate piene, mi fa comunque sempre bene. Quest’anno avevo solo 16 persone, tra le quali incredibilmente mancavano i soliti affezionati, così sono riuscito a godermela di più. È da un pezzo che volevo scriverti 4 righe, forse dopo aver letto il tuo ultimo intervento su sito di Porthos, La ricerca di una possibile felicità.
Ricordi ti avevo accennato le sensazioni provate una volta tornato a casa dalla visita a Cupramontana da Dottori, dalla rilettura del suo libro. Anche la recente gita in Barbagia mi ha destato simili emozioni. Legate forse non tanto all’essere più a contatto col vino come vignaiolo, quanto all’essere più a contatto con la Natura, con la terra. Con l’energia che trasmette questa vicinanza, e alcuni luoghi in particolare.
Mi sono chiesto molte volte, specie nei miei giri estivi in bici qui attorno, come mai potrebbe essere se avessi campi e vigna da custodire. Vicino a Calvene mia nonna ha un prato, un pezzo di terra e bosco, che credo finisca nell’Astico. Vi è dentro, forse in affitto, uno che vende legna e lo usa come deposito, o punto principale della sua attività. Nei prati subito adiacenti vi sono anche delle viti coltivate. L’idea di mettere giù un giorno vigna o ulivi o meli o qualcosa ogni tanto mi sfiora. Proprio per avere un legame diretto con questa terra e con un’idea di radici (Calvene, sotto le montagne, difronte alle Bregonze e poco sopra l’Astico, che terroir sentimentale!) anche se nessuno mai che io conosca nella mia famiglia è stato agricoltore/vignaiolo (se trascuriamo tutti gli Achei che coltivavano la vite in Attica o nel Peloponneso o in qualche isoletta 25 secoli fa, che sicuramente sono miei parenti alla lontana). Ho dei cugini pure che hanno collina e vigna a Sarcedo, ma la gestisce il loro zio e conferisce tutta l’uva a Breganze. Certo che poi subito mi viene in mente che a differenza delle mele, il vino poi bisogna pur farlo dopo la vendemmia, da qualche parte. Questo comunque per dirti come a quell’idea di ricerca di felicità ci abbia pensato molto in questi ultimi anni, legata anche al fatto di lasciare qualcosa, di fare qualcosa, di produrre un qualcosa che sia risultato tangibile del lavoro, della passione, dell’amore, della sensibilità, e del particolare sguardo verso le cose del mondo. La sensazione poi di stare molto a mio agio all’aperto è cosa antica e probabilmente banale o comune a chi lavora al chiuso (vabbè che io lavoro poco ma sono addirittura sottoterra e o non ho finestre o vedo la rampa di cemento). La superiorità morale del vino, che avevo intuito, ma alla quale mi ci hai condotto per mano tu proprio in qualità di Maestro, fa pendere la bilancia dalla sua parte grazie alle mille implicazioni emozionali e culturali che mi hai insegnato e riconoscervi, a lasciar salire a me senza timore.
Proprio oggi leggevo un articolo di Mura sul centenario della nascita di Brera e ho tirato fuori un libro raccolta di suoi articoli (curato sempre da Mura) che mi era stato regalato 25 anni fa, già dopo la morte di Brera, e sfogliandolo e sorridendo anzi sganasciando per certe frasi lette a caso mi sono imbattuto su un articolo intitolato “Il vino che sorride” (non so se il titolo l’abbia messo lui stesso o il curatore x di questa raccolta). E ne ho goduto tanto. «Il barberone pavese, per berlo bene, qualche volta bisogna attaccarsi al tavolo». Invidiava chi avesse scelto le colline per i propri ozii e si immaginava di comperare un giorno la vigna tra le sue amate colline pavesi.
Ho girato il tuo articolo poi a Simone, in questi anni ho visto il suo particolare percorso che lo ha portato, non so se ti ha scritto in merito, ad aprire l’azienda agricola questa primavera. Ci siamo visti anche un mesetto fa, è stato qui e mi ha portato i suoi vini che ora, con calma, conto di provare dopo averli assaggiati con lui. Il vederlo così preso dalla sua attività è emozionante, come ricevere le sue prime bottiglie ufficiali, dopo i vini di prova dell’anno scorso, e posso capire che ciò susciti anche in te i medesimi sentimenti, ogni qualvolta i tuoi allievi intraprendono questa strada. Il senso di questa possibile ricerca di una felicità sta qui, in questa specie di sogno, dai contorni ovviamente non definiti e labili. Come se un fazzoletto di terra e una vigna permettessero di viaggiare in profondità. Non muovendosi da lì. Poi per tutte le altre implicazioni, economiche e pratiche, c’è una specie di sospensione dell’incredulità, che permette appunto il sogno.
Sto ascoltando un concerto per pianoforte di Mozart (k 450) al piano Wilhelm Kempff e ora ti saluto, devo mettermi a preparare la colazione, il mio famoso pastone Budwig, visto domani all’alba andrò a nuotare e poi mi rifocillerò in ufficio. Le domande ora sarebbero le solite, tipo: Quando ci vediamo, quando vieni su? Ti faccio un in bocca al lupo per l’inizio del nuovo anno accademico (mio nipote inizia domani la scuola) spero questo inizio ti possa caricare, di cose buone per te e per gli allievi nuovi e vecchi.
Ti abbraccio con tanto affetto!
paolo