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La passulata di Pantelleria

Un anno fa eravamo reduci dal viaggio a Pantelleria e ci preparavamo all’evendo di fine gennaio 2017.  Le vibrazioni di quelle esperienze sono ancora talmente forti da convincerci a pubblicare questo contributo, scritto da Francesco Ferreri, colui che con passione e competenza ci ha permesso di scorgere l’impossibilità della scoperta. 

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Ogni anno aspettavo Capodanno come si attende una condanna, soffrivo d’ansia: la corsa a organizzare, a capire quale fosse la festa migliore, cosa fare dopo la mezzanotte, a immaginare che l’anno nuovo mi avrebbe portato chissà dove e, alla fine, non succedeva mai nulla. E poi, nasce Camilla, e scopro che tutto era semplice, che bastava liberarsi dai condizionamenti, dalle cose che si devono fare perché si usa così. In fondo, avevo bisogno di passare da quella fase, fino a esserne saturo, per metabolizzarla dentro di me e vivere le cose in maniera semplice. Quest’anno abbiamo cenato con i miei. Mezzanotte è arrivata senza che me ne accorgessi e ci ha trovati a letto mentre cercavamo di far dormire Cami. Abbiamo fatto un brindisi con il nostro spumante metodo ancestrale (dieci bottiglie fatte questa vendemmia per condividerle nei momenti importanti) augurandoci tanta forza per reggere tutto sulle spalle, per non mollare. Poi abbiamo ascoltato questa canzone e ci siamo addormentati.  
Oggi arriva la mamma di Nicoletta. È la prima volta che viene a trovarci e pensavo a cosa vorrei raccontarle sulla passulata, non l’ha mai assaggiata.
Per me è il vino che meglio rappresenta Pantelleria; è imprevedibile, rifermenta più volte, è diversa in ogni stagione. L’ho fatta in due versioni, Alba e Tramonto, per ritrarre i due aspetti caratteristici dell’Isola, la luce e il calore. Il sole del mattino significa luce e dà leggerezza, quello del pomeriggio significa calore e potenza.
La passulata è il passito prima del Passito.
Un tempo, durante la vendemmia, le donne precedevano gli uomini nel filare, sceglievano i grappoli migliori – più spargoli e con gli acini più grossi – per metterli ad appassire nello scacco, lo spazio quadrato tra una vite e l’altra. Si sfruttavano le alte temperature e per questo si prendevano le uve raccolte dalle zone precoci, molto zuccherine già nei primi giorni di agosto, su terreni drenanti, ricchi di pomice. Oggi si fa il passito anche con l’uva delle zone tardive come Mueggen o Ghirlanda – tanto ci sono i tunnel di plastica – mentre in passato non si usava nessuna copertura, per l’appassimento era sufficiente il calore del terreno. Se il tempo minacciava tempesta, il contadino non dormiva, le piogge intense e brevi sono più frequenti in estate, tornava più volte nel terreno per girare e rigirare i grappoli (vota e svota diceva mio nonno, come fanno le persone nel letto quando non riescono a dormire per i troppi pensieri). Questo avveniva soprattutto nelle giornate in cui il Levante o lo Scirocco portano umidità dal mare. Raggiunto l’appassimento desiderato, si portavano i frutti nel macaseno  del vino e si faceva fermentare con pochi litri di pied de cuve preparato con i racemi qualche giorno prima.
La passulata non si filtra e non si chiarifica, le mucillagini di cui è ricca impiegano anni a decantare naturalmente e formano una specie di reticolo che trattiene persino il potassio (fino a 2 mg/l!), è questo a renderla salata. Non si aggiunge solforosa perché, durante i quaranta giorni di fermentazione, intervengono anche lieviti non-Saccharomyces, troppo delicati per resistere a un conservante. Il fatto che riprenda a bollire più volte aiuta a innalzare una volatile non fastidiosa: la passulata è talmente carica che l’asprezza acetica va a bilanciare le sue morbidezze e a veicolare i profumi. Se fatto bene, questo vino può invecchiare anche cinquant’anni, dice Zu Turi.
Non esistono macchine in grado di sgrappolare un’uva appassita, è un lavoro manuale che si svolge in compagnia, mentre si chiacchiera di quello che passa per la testa. I giorni impiegati sono funzionali alla fermentazione perché gli acini, e quindi ulteriori zuccheri, si aggiungono un po’ per volta. 
Nessuno fa più la passulata, i costi sono troppo elevati e il rischio che diventi ciciune (vino andato a male) è troppo alto. La produzione può essere semplificata aggiungendo, finita la fermentazione tumultuosa, uva malaga appassita oltre il 50% e resa non pigiabile e infermentescibile, a un vino che già fermenta con i suoi lieviti selezionati alto grado. L’uva passulata contiene al suo interno notevoli quantità di acido acetico, poiché la presenza di micro-fessure della buccia consente agli apiculati di innescarsi già al sole. Inoltre i lieviti producono acetaldeide perché partono “stressati” dal notevole apporto di zuccheri. 
Bisogna avere molta esperienza – il metodo della passulata non è riportato su alcun trattato di enologia, per questo solo i vecchi contadini possono insegnarlo – per capire quando aggiungere l’uva appassita e in quale quantità. Da un ettaro in zona primizia, si producono circa 30 quintali e non tutta può essere messa ad appassire, da questi si ricavano solo 600/700 litri di passulata.
Quest’anno abbiamo anche una “riserva” che matura in botti vecchie da 100 litri con il metodo solera, conosciuto in Sicilia come perpetuo. Il vino più vecchio è del 2008, l’anno del mio diploma, poi ho continuato a spillare e aggiungere. Le botti sono sempre scolme, il vino è in ossidazione, quest’anno ne metterò in bottiglia sessanta litri.
Come vedi, caro Sandro, vorrei dire un miliardo di cose e non so come sintetizzarle in una retro etichetta. Ci tengo tanto, vorrei per far capire cosa sia la passulata. 

alberello pantelleria