L’arte della lavorazione del sughero in Sardegna

Tutti sappiamo cosa sia il sughero, sebbene siamo in pochi a esserci posti le domande su come effettivamente funzioni. E qui viene il bello. Perché il sughero funziona, agendo da propellente di un’economia che, misteriosamente, non gode di una particolare sensibilità da parte delle nostre istituzioni.

La sensazione è quella di essere arrivati ultimi. O quella di non aver saputo riconoscere le nostre potenzialità, lasciando agli altri il compito di accoglierle a braccia aperte. Nostre, per intenderci, nel senso più elementare di comunità d’appartenenza o luogo d’origine. Riflessioni che s’intensificano in questo anno di festeggiamenti in cui siamo sottoposti allo sventolio di bandiere, agli inni patriottici e alla retorica dell’assenza di valori un tempo condivisi. Tuttavia, senza accorgercene, siamo noi a perderci il meglio di questa nostra Italia. A questo penso mentre mi occupo della recensione del libro fotografico di Roberto Graffi, dedicato alla lavorazione del sughero. Dispormi alla scoperta di qualcosa che appartiene al nostro territorio, in questo caso la Sardegna, come se ci fosse estraneo, mi fa sentire come un ospite invitato ad una festa privata.

Sono a Cerea, nel Veneto, all’evento dedicato alla degustazione di vini e prodotti naturali organizzato da Viniveri. Quale luogo migliore per parlare di sughero? Eppure in sala siamo solamente in quattro o cinque fortunati ad assistere alla presentazione del libro. C’è perciò ampia scelta di posti e l’evento diventa un piacevole dialogo diretto.

Chiariamo un punto: tutti sappiamo cosa sia il sughero, sebbene siamo in pochi a esserci posti le domande su come effettivamente funzioni. E qui viene il bello. Perché il sughero funziona, agendo da propellente di un’economia che, misteriosamente, non gode di una particolare sensibilità da parte delle nostre istituzioni. Non cedo al luogo comune secondo il quale in Italia ciò che funziona non è più di moda, ma bisogna sapere che l’opera di Graffi è stata presentata nel lontano 2009 a Boston e successivamente nel 2010 a Dublino. E che arriva nel nostro Paese, da dove è partita, solo dopo aver fatto il giro del mondo. Approda nel 2011 a Cerea, successivamente all’inaugurazione della mostra fotografica dello scorso anno in Sardegna presso l’Istituto Palladio a Tempio Pausania.

È con spirito da vera profana che mi lascio prendere dal racconto del libro, nato dallo stretto contatto di Graffi con il comune di Calangianus, legato da sempre alla vita del sughero e alla sua lavorazione. Da questa esperienza dell’autore nasce un giorno l’idea di raccogliere il materiale fotografico, elaborato e portato a maturazione nel corso del tempo, in un lavoro volto a immortalare una realtà prima che scompaia del tutto. Se la lavorazione del libro è durata due anni, il materiale appartiene ai dodici precedenti, durante i quali il fotografo è entrato nelle case, nelle fabbriche e nei boschi dove si sono svolti i processi di lavorazione. Nessuna opera “nasce in un giorno” e l’ispirazione trae spesso origine da un terreno fertile da noi coltivato con cura: Graffi arriva a Calangianus all’età di sei anni, dopo aver vissuto in Etiopia, portando con sé l’esperienza di un altro luogo.

L’arte della lavorazione del sughero in Sardegna ha una singolare confezione curata in ogni dettaglio. All’interno di una scatola elegante color rubizzo è infatti racchiusa l’opera alla quale è possibile accedere attraverso un tappo: proprio come una bottiglia di vino, il contenuto della confezione è fruibile unicamente se siamo disposti a stapparla. La copertina è in sughero e un dvd descrive e spiega i processi di lavorazione senza l’ausilio di parole o musiche, ma semplicemente attraverso i suoni prodotti dai macchinari. I supporti utilizzati da Graffi per raccontarci il sughero si avvalgono di due approcci diversi: il video mostra come funzionano certi meccanismi, il libro mostra chi li fa funzionare. Dall’integrazione dei due elementi si ha il prodotto finito e restituito nella sua dimensione più autentica. Se una macchina, infatti, non è in grado di raccontare una storia, l’artigiano intento al suo lavoro può invece avvicinare, attraverso la sua esperienza, l’oggetto allo spettatore. E questo è lampante nell’opera di Graffi, in cui le fotografie custodiscono sì il forte impatto naturalistico del sughero, delle sue bellissime querce e della porosità di una corteccia, ma raccolgono la loro verità storica e culturale dall’elemento umano che le inquadra nel contesto, costruendo il tessuto della storia. A proposito di questo l’autore dice: «Lasciamo che siano i volti a raccontarla, lasciamo che gli scorzatori, i quadrettai, le operaie, i portatori ci dicano qualcosa su questo prodotto naturale».
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Quando stappi una bottiglia di vino, ti sei mai chiesto se quel tappo ha una storia da raccontare? È la domanda con la quale si apre il racconto, la riflessione alla base di un’opera che vuole restituire il modo in cui si è trasformato e ha mutato aspetto il processo di lavorazione del sughero, la storia di una realtà locale che, sviluppatasi all’interno di botteghe artigianali con l’ausilio di pochi macchinari, è gradualmente uscita dai confini del paese per diventare fabbrica, adeguandosi al nuovo mercato concorrenziale del lavoro, nel tentativo di non soccombere alla crisi del settore iniziata a metà degli anni novanta.

Colpisce la forza dei ritratti dei protagonisti della storia. Ad esempio lo scorzatore, “custode del bosco”, colui che ogni dieci anni torna a far visita alla stessa pianta: un lungo periodo per l’uomo che, armato di scure, si avvicina all’albero ancora giovane. “Se qualcuno mi parla di sughero, piango, se vedo gli operai che vanno in foresta, mi viene voglia di prendere la mia scure e di seguirli”, racconta Luigi Inzaina all’obiettivo che lo fotografa ora che ha novantaquattro anni. Quante volte sarà tornato a separare la corteccia dal suo albero? Accanto a lui, altri personaggi con gli strumenti del loro lavoro: nella foresta, negli interni delle botteghe, sulla linea di produzione. “Queste cascate di rondelle un giorno incontreranno un fiume di Champagne” dice Manlia Venturu, operaia ritratta tra i sacchi colmi di tappi pronti per essere immagazzinati. L’attenzione al proprio lavoro si traduce in consapevolezza del prodotto finito che, nel caso del sughero, è anche patrimonio di un territorio che è riuscito ad attingere alla sua materia prima con un impatto ambientale vicino allo zero. Perché “il tappo di sughero è un prodotto naturale, deriva dalla quercia da sughero. Il tappo in silicone deriva dal petrolio”.

Dino Buzzati nel suo libro Il segreto del bosco vecchio, racconta come l’uomo abbia dimenticato il canto degli alberi, fino a diventare cieco e sordo al loro richiamo. Il legame con la propria terra e con le possibilità che essa ci offre, dipendono molto dalla capacità di recuperare questo contatto.

In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c’è nell’atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l’avvertono subito. Non c’è niente da insegnare al proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l’avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede.