Miniature di Luglio 2006

I trucioli, tormentone dell’estate
Il polverone creato dalla liberalizzazione dell’uso dei trucioli nell’UE dimostra quanto sia ancora acerba la cultura del vino in Italia e come cada facilmente nella trappola dei tormentoni estivi. Per conoscere meglio la situazione dal punto di vista tecnico e scientifico è utile rivolgersi a Maurizio Gily, che ha scritto, e pubblicato sulla rivista Vignaioli Piemontesi, un autorevole reportage sul tema. Maurizio, già collaboratore di Porthos, affronta l’argomento evitando di cadere nel facile moralismo, generato di solito da una profonda ignoranza, e dà voce a tutte le ragioni possibili, in modo da raggiungere un adeguato livello di informazione.
Per quanto mi riguarda voglio mettere in evidenza la cattiva coscienza della critica enologica italiana. In queste settimane sono apparse, su alcuni importanti quotidiani e settimanali nazionali, le levate di scudi contro questa liberalizzazione che di colpo annullerebbe qualsiasi differenza rispetto alle pratiche e alle caratteristiche dei vini del Nuovo Mondo. Chi ragiona con la propria testa sa che ad annullare questa differenza può riuscire solo il produttore che lo voglia, i trucioli non sono altro che uno strumento, né migliore né peggiore rispetto a molte cose che in Europa sono consentite e in Australia no. La preoccupazione di molti è che più pratiche esterne verranno via via autorizzate, maggiore sarà il rischio di appiattimento e di perdita di originalità territoriale. Naturalmente diventa centrale la credibilità che l’autore del vino riesce a costruire presso la critica e le persone consumatori. Dunque c’è da chiedersi, chi ha cominciato a introdurre scorciatoie tecniche per rendere i colori più concentrati e lucidi, per risparmiare sui tempi di maturazione, per ridurre le spese di acquisto delle botti, per ammorbidire i vini con un semplice gesto di cantina, ecc., ecc., ecc.? La lista sarebbe lunga… A far male è che autorevoli opinion leader, da Petrini a Paolini (Davide), da Massobrio a Vizzari, impegnati a prendersela con gli organi internazionali che non rispetterebbero le peculiarità nostrane – ma non dipende da noi? – sono i primi a premiare o ossequiare il consulente di grido o il miglior vinificatore dell’anno, il “padre dell’enologia italiana” o il giovane rampante, interprete del concetto di modernità e tradizione. I lettori devono sapere che la stragrande maggioranza dei consulenti e degli enologi che si dividono tra decine di aziende, lavorando più al telefono che in vigna, sono veri agenti di commercio, in rappresentanza delle industrie di elaborati per la protezione del vigneto, di prodotti per l’enologia e di soluzioni biotecnologiche. E le eccezioni sono rarissime. La “colpa” è dunque di quelle aziende che continuano a credere che la realizzazione del vino passi attraverso il ruolo di questi professionisti, invece di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità.

* Federico Curtaz ci ha inviato una sua replica che potete leggere qui.

Le degustazioni en primeur, limiti e opportunità
Il tardo inverno e la primavera sono le stagioni in cui si consuma la gran parte delle degustazioni “en primeur”. Un tempo queste anteprime erano vere rarità organizzate da alcune zone francesi, frequentate dagli acquirenti, i negociant, che scommettevano sulla possibile evoluzione di vini con poche settimane di vita. Gli assaggi avevano dunque una motivazione “commerciale” e contribuivano a costruire il prezzo finale della bottiglia. La degustazione en primeur serviva proprio per l’omonimo acquisto; il vino era ordinato all’inizio dell’estate e lo si pagava entro il 30 settembre dell’anno successivo, con alle porte la nuova vendemmia, mentre la consegna delle casse avveniva nell’arco di due-tre anni, a seconda dei tempi di maturazione decisi dalla proprietà. Il guadagno del negociant veniva deciso dalla credibilità che il vino andava assumendo presso i clienti finali, che cominciavano a conoscere, assaggiando presso di lui, l’esito di un’annata e la sua possibile longevità. In effetti una volta, la grandezza di un’annata si misurava non tanto sulla prontezza espressa al momento dell’assaggio en primeur, quanto invece sulla sua austerità, che faceva presagire un meraviglioso flusso evolutivo. Per saperne ancora di più confrontate l’articolo apparso su Porthos 23 a pagina 85 a cura di Damiano, dedicato all’en primeur dal punto di vista finanziario.
Questa premessa serve per comprendere come è cambiato l’assaggio en primeur grazie alla rivoluzione mediatica. Non sono quasi più i negociant a presiedere le degustazioni, ma i giornalisti, per i quali si organizzano vere e proprie kermesse, delle quali l’assaggio è un componente fondamentale ma non l’unico elemento di attrazione. Consapevole di non attrarmi molte simpatie (tanto ormai…), mi sento di dire che la competenza dei negociant era drammaticamente superiore a quella dei giornalisti, italiani e stranieri. Questa caduta di affidabilità dei degustatori ha svuotato l’assaggio en primeur, anche perché più di un produttore, a cominciare da alcuni celebri regisseur di Bordeaux, hanno candidamente ammesso di preparare partite specifiche per gli assaggi primaverili, decisamente diverse da quello che potrebbe essere il profilo definitivo del vino. Un altro elemento negativo è il correre dietro alle valutazioni degli assaggi “da botte” o “da vasca”. A un certo punto, qualche anno fa, i critici mondiali più influenti, a cominciare da Parker, avevano iniziato una battaglia su chi sarebbe andato prima degli altri a fare i propri barrel test, mettendo in imbarazzo le varie organizzazioni di produttori che dovevano gestire arrivi e partenze di questi guru che si guardavano in cagnesco. Era tale il desiderio di uscire prima degli altri con i punteggi che si arrivava a sentire i vini prima della fine della fermentazione. Potete immaginare con quale affidabilità. Oggi una delle cose più utili degli assaggi en primeur è incontrare i produttori e provare a capire dalle loro parole come sono veramente andate le cose; capire dal loro prevedibile riserbo come sarà la probabile evoluzione dei vini in bottiglia. L’assaggio non è, attualmente, di grande affidabilità. E’ inevitabile, e anche comprensibile, che l’autore porti il liquido prendendolo dalle vasche migliori a sua disposizione; troppe volte però c’è una differenza eccessiva tra la memoria della degustazione ufficiosa e il vino in commercio.

Il premio
Non avevo mai ricevuto un premio in vita mia. Due volte ho concorso in gare per sommelier e sono sempre arrivato secondo: nel 1981 meritavo il quinto posto, nel 1984 ho sfiorato la vittoria (forse l’avrei meritata). Ho da sempre un moto di fastidio quando penso ai premi assegnati da giurie, perché il mio pensiero va a coloro, e nella storia sono molti, che sono stati o sono ancora dimenticati con implacabile puntualità. Basti pensare a tre registi come Hitchcock, Kubrick e Scorsese: il primo è quello che ci andò più vicino, il suo “Rebecca la prima moglie” ricevette l’Oscar come miglior film che, come si sa, premia la produzione, e la fotografia in bianco e nero; l’autore di “Odissea dello Spazio” vide premiati gli effetti speciali, che erano per sua stessa ammissione merito di Douglas Trumbull; Scorsese ha fatto vincere premi a tutti i suoi collaboratori e, finora, è stato ignorato dalla Academy. Si potrebbe dire, esasperando il concetto, che i premi sono studiati per scontentare. Anche per questo motivo da quando Porthos esiste abbiamo rifiutato classifiche e gerarchie assolute: già il nostro modo di esprimere la critica evita di gestire il consenso e ha una modalità diretta, senza mezzi termini pur in un regime di civiltà; lasciamo che ogni lettore evinca la virtuale classifica di merito.
Dunque c’ho messo un po’ a digerire la nomination a miglior giornalista dell’anno, e l’ho fatto perché in caso di vittoria avrei provato a superare il mio innato egoismo e lasciare che Porthos provasse a misurarsi con una visibilità diversa. Non è quindi un gesto formale aver dedicato l’oscar a Tiziana, Onepablo, Damiano, Marcello, Giampi, Samuel, Francesca e Luca che mi sostengono. Alcuni lettori e frequentatori del forum di Porthos hanno aperto una discussione sulle possibili conseguenze della vittoria, quasi che l’eco del premio potesse convincere un numero imprecisato di amanti del vino ad abbonarsi alla rivista e così trasformarne le fattezze. Oppure che ricevere l’oscar da Franco Ricci e Antonella Clerici trasformasse un critico indipendente nel consulente enologico di improbabili trasmissioni gastronomiche. Alcuni hanno addirittura scritto che se Porthos avesse ricevuto 3000 abbonati sarebbe stato un peccato, perché doveva rimanere una rivista per pochi… Semplicemente, non si rendono conto di cosa dicono.
La cosa migliore che mi ha portato questo premio è l’incoraggiamento di tante persone che mi sono già affezionate a non cambiare – e come potrei? Quanto agli abbonati, è bene che sappiate che senza le sottoscrizioni non c’è Porthos, quindi, invece di fare gli schizzinosi, è bene che diffondiate il verbo, in modo che davvero si arrivi a un numero che permetta a tutte le persone che lavorano di ricevere il meritato e degno compenso.