Miniature di Ottobre 2005

La dipendenza dal Nebbiolo e dai suoi derivati
E’ una patologia molto diffusa in quelle fasce di popolazione che vivono un’evoluzione del proprio gusto. I primi casi di mia conoscenza risalgono alle riunioni della Ciurma, anche se col passare degli anni ho verificato che si tratta dell’ineludibile destino di ogni generazione di degustatori, senza distinzione di sesso, di razza, di religione o di condizione sociale.
Ammalarsi di Nebbiolo e dei suoi derivati è un traguardo, visto che, salvo rari casi di contagio immediato, si tratta di un’infezione subdola e pervicace che non abbandona l’organismo, può infatti sopravvivere benissimo anche in presenza di altre dipendenze come quella bilaterale da Riesling/Pinot Noir. Va detto che sono dipendenze dal costo altissimo, visti i prezzi delle migliori bottiglie.
Il morbo di cui parliamo non riguarda però solo la continua necessità di nutrirsi del liquido granato, tannico e profumato di erbe medicinali, la sua manifestazione più deleteria appare in presenza di altri vini. «Sai quale mi è piaciuto di più? Quello che pareva un Nebbiolo!» Questa affermazione ricorre non solo quando si affrontano vini a base di Aglianico e Nerello Mascalese, la loro ingannevole similitudine trova nel fisico debilitato un ambiente fertile in cui propagarsi: è purtroppo frequentissima durante le degustazioni comparative di Brunello, Chianti Classico, Montepulciano (!) e Refosco dal peduncolo rosso.
Giusto verso la fine dei turni di assaggio, quando la stanchezza rende più vulnerabili, ci si ritrova a sognare le sfumature aranciate, quel bouquet complesso e marino, la severa acidità, intatta anche dopo anni di militanza, l’interminabile persistenza del gusto…
Ma insomma! E’ possibile che un vino per essere considerato grande debba somigliare a un Nebbiolo?! Anche se la sua natura è diametralmente opposta?
«Evidentemente no – risponde timido il degustatore – però se ci va vicino male non fa…».
E così al ritorno da cene, assaggi e conferenze, mi ritrovo a sentirmi dire che il miglior bicchiere pareva un Nebbiolo, anche se la degustazione verteva sulle qualità dell’Acqua Filette o si trattava di una verticale di Petrus, non il Pomerol ma il liquore amaro, il boero Boonekamp.
In questo modo si rischia di fare lo stesso servizio che facevano i palati asfaltati dai rossi supermuscolosi, quando pretendevano, e purtroppo ottenevano, colore e densità anche dai Borgogna più sottili. Ah! Quanti leggiadri Chambolle sono stati sacrificati in nome della concentrazione.
A scusare parzialmente l’inguaribile dipendenza dal Nebbiolo c’è una disperata ricerca di verità, sostanziale ed espressiva, che in alcune bottiglie piemontesi ha indubbiamente resistito nonostante la diffusione del protocollo “tutta materia e innovazione”, gratificato dalla stampa di tutto il mondo.
A proposito di premi, leggiamo che i degustatori/critici italiani e stranieri berrebbero solo Nebbioli, Borgogna e Riesling, possibilmente della Mosella; sarà per purificarsi dopo aver glorificato vini da competizione che nessuno di loro avrebbe il coraggio di aprire a cena?

I produttori? Sono troppi…
(…come anche le etichette e le bottiglie)
E’ opinione sempre più diffusa. A preoccuparsi sono i consumatori, che non hanno percepito come un miglioramento l’aumento dell’offerta, ma non solo. A lamentarsi sono anche i rappresentanti, gli agenti di commercio, che faticano ad affrontare i ristoratori e gli enotecari con liste sempre più lunghe, spessi cataloghi, e sempre meno tempo. Una parte di questo maggior numero di referenze è assorbita dal sensibile aumento dei venditori di vino: alcune di queste figure esterne hanno molta passione ma pongono una delicata questione di professionalità. Inoltre gli enotecari e i ristoratori tollerano sempre meno la “pressione” di chi si presenta per vendere, al punto da immaginare un commercio di vini e specialità alimentari senza intermediari; senonché si scopre, ad esempio, che alcuni rappresentanti anticipano i soldi delle fatture per evitare che le aziende prendano provvedimenti contro i clienti, ricoprendo proprio quel ruolo di ammortizzatore che è richiesto a un mediatore. Evidente quindi la tensione di questa incerta fase economica. Eppure le nostre caselle di posta ogni giorno si riempiono di nuove etichette e nuove aziende; tra questi vi sono sia personaggi noti – produttori, commercianti e distributori – che investono i propri guadagni del vino nel vino, sia figure esterne convinte di poter avere successo in tempi rapidi con il lavoro della terra. Se ce n’è ancora.

«A quelli di Porthos piacciono i vini che puzzano»
E’ stata l’affermazione di un produttore che ha partecipato alla verticale del Montepulciano di Pepe a Spoleto. Eravamo all’inizio e non potevamo dargli torto, visto che il naso dei vini di Pepe non è mai d’impatto facile. L’esito dell’assaggio ha poi confermato che l’attesa nel bicchiere, il movimento graduale e il lavoro dell’ossigeno, sono serviti a svelare l’originalità priva di incertezze delle bottiglie abruzzesi. Il punto è la pazienza che serve per comprendere la diversità, fino in fondo. Questo per evitare che nella valutazione di un vino prevalga il ricorso al modello precostituito, tentazione rassicurante che mette al sicuro la coscienza ma impedisce la conoscenza.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Caro Porthos,
il perfido crostaceo ha la sfacciataggine di chiamare inchiesta una vetrina di bei tomi che si parlano addosso. Venti pagine per passare in rassegna 5 tra banche e assicurazioni, senza farsi domande, senza riflettere, solo foto, indirizzi e complimenti.
Scusa l’immodestia, ma al confronto voi siete da Pulitzer.
Come dice il mio amico Acetone, ormai arrivano sempre secondi, lo fanno apposta, leggono e poi si adeguano.