NEBBIOLO GRAPES SEVEN SHIRTS I

L’evento è magniloquente, l’impegno notevole; il tempo freddo assai, l’albergo a Morbegno. Se l’impeccabile organizzazione mi ha spedito a ventiquattro chilometri dalla sede del convegno è perché non c’è più un posto letto libero in tutta Sondrio. E l’avvenimento riecheggia di varie sfumature d’Inglese, di Francese e di Québécois, di Tedesco e di Valtellinese.
Nebbiolo Grapes” è il primo convegno internazionale sul vitigno Nebbiolo. Una Valtellina lanciata verso grandi eventi di rinascita ha bruciato qualsiasi concorrenza, e già si candida a ospitare la terza edizione dopo la debita replica in Langa. Il week end prevede tre convegni con decine di interventi, degustazioni di Nebbiolo dal mondo e un corollario di pranzi e cene. Non passa molto tempo e il respiro internazionale del convegno inizia a soffrire un po’ d’asma. Non si può biasimare l’autoctona organizzazione se vive questo evento come l’occasione per parlare un po’ di sé al mondo qui convenuto. Non troviamo neppure nulla da ridire se chi è stato chiamato a rappresentare il Piemonte vanta i propri nobili prodotti e terroirs. Ma emerge presto una tensione irrisolta nei propositi stessi del congresso – quasi un’intima contraddittorietà. Il reale intento non sembra illustrare le varie realtà mondiali in cui prospera il Nebbiolo, o quanto meno questo disegno dimostra il fiato corto; tant’è che quando lo zoom stringe si torna fatalmente a parlare di Barolo, di Valtellina, di Gattinara. Si presenta e si sostiene invece la possibilità ecumenica di questo vitigno. Per questo motivo, ci si concentra a discutere di proprietà tecniche, e ci si affida all’ausilio della scienza.

 

Crampo allo stomaco

Il Nebbiolo non è un vitigno internazionale: non si adatta cioè né facilmente né in modo gratificante ad ambienti diversi da quelli in cui spontaneamente ha preso dimora. Ecco perché il convegno racconta di Chiavennasca e di Spanna, di Lampia e di Michet, nomi un po’ aungusti ma saporiti per il nobile vitigno. Si parla delle Langhe e della Val di Susa, della Sassella e del Saluzzese: solo qui… pardòn, quasi solo qui il Nebbiolo è capace di dare quei nobili vini che hanno fatto la storia dell’enologia italiana. Il suo localismo è un valore, un orgoglio, un bonus da coltivare e utilizzare con cognizione di causa.

Ma questo convegno riunisce rappresentanti del Nuovo Mondo, nebbiolisti californiani, cileni, australiani, sudafricani. A dimostrazione che il Nebbiolo viaggia eccome; o forse che il modello internazionale, centrato su pochi, facili, ubiquitari vitigni, inizia a tediare l’international community of drinkers. Omogeneità e ripetizione alla lunga stancano. Al di là degli oceani si comincia a guardarsi attorno, si cercano alternative. Nel Nebbiolo? Anche nel Nebbiolo. Pare che ci sia grande interesse per i vitigni autoctoni italiani. Te credo.

Numero due: il Nebbiolo è da sempre un vitigno difficile padre di vini difficili. Tanti tannini e pochi antociani; alta acidità; giovinezza scontrosa, per taluni quasi imbevibile. Particolarità che qualcuno definisce piuttosto “limiti tecnici”. Limiti tecnologici ma soprattutto fenolici che sottolineano l’importanza di una stretta interazione con condizioni ambientali molto significative, se si vuole ottenere un prodotto di valore.

Nei secoli il Nebbiolo ha selezionato da sé il proprio habitat. È un vitigno che ama l’aria di montagna: sulle colline circondate dalle Alpi il Nebbiolo trova un clima fresco che ne valorizza la finezza con belle escursioni termiche quotidiane durante le ultime settimane del ciclo vegetativo; trova il riverbero di suoli chiari o addirittura dei ghiacciai: luce che risulta determinante per la maturazione dei polifenoli; trova terreni poco fertili e la scarsa concorrenza di altre colture. Se si guarda alle aree in cui si è affermato, dalle Langhe al Canavese, dalla Valtellina alla bassa Valle d’Aosta alla Val Sesia, ritornano queste caratteristiche.

Con queste doti (o limiti), e con questi presupposti ambientali, il Nebbiolo assume una vocazione nitida: la sua identità muta chiaramente in funzione della natura del suolo e del sottosuolo, e viene fortemente condizionata dal microclima come dall’esposizione. Il nostro vitigno ha la proprietà di risentire e di riverberare in modo preciso la natura del territorio – il prodotto sarà nobile nel momento in cui anche il terroir lo è. La struttura del vino può anche essere importante – come nel caso dell’imponente Barolo di Serralunga – ma sempre in qualche modo “concava”, accogliente nei confronti di una quota di ricchezza olfattiva e minerale che il luogo conferisce. Quasi che il suo fianco sguarnito di colore e di ciccia rappresenti una nicchia nella quale il respiro aromatico e la salinità geologica trovano uno spazio confortevole tra i poderosi tannini e il nerbo della spina tartarica…

Diagnosi, prognosi, posologia

Il nostro Nebbiolo è un malato a metà, si sussurra con il malcelato imbarazzo dell’imbarazzo nei corridoi. Se deve viaggiare nel mondo, o se in Valtellina o a Sizzano deve reggere un mercato tutt’oggi più propenso della pinguedine e dell’abbronzatura, bisogna pure che si sottoponga a qualche forma di body building. Quindi: selezione clonale; ricerca sul patrimonio fenolico; depurazione dalle virosi; studio del condizionamento microclimatico sulla maturazione tecnologica.

La selezione clonale servirà a censire gli individui nobili – quelli più resistenti, più produttivi, più affidabili, insomma: più qualitativi – e a propagarli. In tal modo ci si libererà almeno degli esemplari più bizzosi di un vitigno già capriccioso in sé. L’attenzione, dopo secoli di Storia, si sposta finalmente dal fenotipo al genotipo, passando per i marcatori microsatellitari molecolari, e smettendo così di lasciarsi sviare dall’alta variabilità del primo. Insomma: guardiamo nel microscopio per comprendere il cosmo. Qualcuno, deo gratias, si premura di sconsigliare una selezione clonale “forte”, che mina alla radice la biodiversità, la reattività alle malattie, la capacità del vitigno di adattarsi all’ambiente, persino la complessità e la varietà organolettiche dei vini. Forse questo timido appunto vorrebbe ricordare che l’evoluzione della specie è permessa dalla biodiversità.

La ricerca sui polifenoli si arrovella sui diversi sistemi che si possono attuare per estrarre dalle uve la maggior quantità di antociani possibili. Antociani: una parola d’ordine che si può ottenere tramite una scelta delle sottovarietà e dei cloni, attraverso adeguate opzioni agronomiche, particolari tecniche e accorgimenti in vinificazione (dalla fermentazione alla maturazione in legno). Risultato: colore. Altro obiettivo: il successo nel legare precocemente e in maggior quantità antociani e tannini, così da ingentilire l’astringenza e fissare più a lungo il colore. Come se il Nebbiolo avesse atavici problemi di stabilizzazione del colore, e soprattutto come se questo ne compromettesse la longevità in modo significativo.

Bisogna poi liberarsi dalle virosi come l’arricciamento e l’accartocciamento fogliare, o il legno riccio. Il risultato è più zuccheri, più antociani, meno acidità fissa; derivati da una maggiore efficienza fotosintetica, e accompagnati da un incremento della produttività senza perdita qualitativa. In breve: più alcol, più colore, più morbidezza.

Il condizionamento dell’ambiente (clima e microclima, terreno, ecc.) è determinante per le stesse ragioni: l’altitudine condiziona soprattutto la maturità tecnologica; il carico produttivo, l’irradiazione solare e la quota altimetrica quella fenolica. Saperlo significa dominare meglio questi due parametri. Lo scopo? Sempre il medesimo.

Un convegno di internazionalizzazione di un vitigno che non ha vocazione internazionale, che non ama viaggiare, e la cui intima relazione con poche e particolari condizioni di terroir è dimostrata dai fatti e osannata dallo sfruttamento del mito.

Un convegno sull’unicità di questo vitigno, sulla capacità di distinguersi in maniera forte e nobile dal marasma di vini tutti uguali nel quale rischiamo di naufragare. Il nostro Nebbiolo è orgogliosamente differente: un vero asso nella manica. Perciò gli studi, le ricerche e le indicazioni che si presentano – inappuntabili dal punto di vista scientifico – vertono sulla valorizzazione di parametri quali l’intensità e la stabilità del colore, la ricchezza alcolica, la morbidezza del gusto, la precocità della beva. Criteri che avvicinano il Nebbiolo alle caratteristiche degli altri vini.

O mi sono perso un pezzo del discorso, tra un pizzocchero e un Bramaterra, oppure non ho ancora capìto come vanno certe cose.