Omaggio al Roero 2006

Da una conversazione fra Marco Vallora e Mario Soldati:
Vallora: “Ma Collio si scrive con la g?”
Soldati: “Tu sei un c……, scrivilo pure con la g…”

Chi frequenta le nostre pagine sa quanto siamo diffidenti verso i premi e le giurie, persino quando a vincere è qualcuno di noi.

A questo si aggiunga la nostra scarsa abitudine alla mondanità, tanto da sentirci fuori posto anche quando siamo invitati. Devo quindi alla cortese insistenza di Claudia John se, invece che a casa, comodamente assopito in poltrona, sono schierato in decima fila, penna e taccuino pronti all’’uso.
Siamo nel Roero, la regione che molti ancora considerano una Langa minor; la serata è calda, si sta fuori volentieri, nel prato davanti al castello di Govone.
Il pubblico è folto, gli ospiti sono illustri, i microfoni funzionano e non ci sono neppure le zanzare, l’’Omaggio al Roero può cominciare.
Il nome sembra una civetteria, chissà perché non lo chiamano premio, in fondo è la solita storia, una cappelliera blu con dentro una sculturina, due chiacchiere del politico di turno, qualche flash e applausi stanchi. Calma, non è proprio così. Basta ascoltare i primi ospiti per scoprire che qui si parla di territorio e di genius loci, di colline e di filari, anziché di tannini e retrogusti. Tanto è vero che il riconoscimento più importante non va ad una cantina, ma a Tullio Pericoli, pittore e illustratore, uno che il vino lo beve e basta. L’’anno prima era toccato a sua maestà Renzo Piano, un altro che le bottiglie le stappa, non le produce. E allora si spiega il nome della manifestazione, che il poeta Nico Orengo pacatamente chiarisce: dal territorio si parte e al territorio si arriva, passando, ovviamente, anche per il vino, che deve essere espressione di un territorio sano, rispettato, custodito. Per questo l’’accento è su chi opera nel territorio, in una forma o nell’’altra, che si tratti di raccontarlo, come fa Pericoli nei suoi disegni, o di modificarlo, come fanno gli architetti.
Si capisce anche perché il premio, almeno nelle intenzioni, sia a termine, caso più unico che raro. Quando non ci sarà più bisogno di distinguere i comportamenti virtuosi nei confronti del territorio e del paesaggio agrario, quando l’”eccezione sarà la regola, allora l’’omaggio non avrà più senso, avrà esaurito la sua missione. Sic il presidente dell’’Enoteca Regionale del Roero, l’’instancabile Luciano Bertello, motore della manifestazione.
C’’è un briciolo di autocompiacimento in questo porsi fuori dagli schemi, ma spostare l’’accento da vigne e cantine per porlo sul contesto ambientale è segno di una visione ampia, che scavalca le tante sbarocciature di bicchieri che riempiono lo stivale. E allora si premia, pardon, si omaggia, chi ha recuperato un ciabòt o chi ha restaurato una chiesa o comunque ha reso un servizio all’’ambiente e al paesaggio.
Mentre io rifletto su questa e altre questioni, sul palco della premiazione sfilano in tanti. Il cronista ne ricorda solo alcuni, a cominciare dal rappresentante del Sovrano Militare Ordine di Malta, proprietario dell’’azienda friulana Rocca Bernarda, premiata per “il recupero dei vitigni autoctoni e la valorizzazione del paesaggio viticolo”. Dopo i ringraziamenti di prammatica, il nobiluomo ci racconta come da “quella specie di cancro del Picolit” si possano curare tante malattie, ovvero di come, grazie ai prezzi delle bottiglie, si ricavi denaro da destinare ai malati di 30 paesi, da Betlemme al Brasile. Arriva anche la società Autostrade, chiamata a premiare chi recupera i ciabòt. Verrebbe da pensare a quanti ciabòt siano scomparsi sotto l’’asfalto, ma non c’’è tempo per l’’ironia, tale è l’’andirivieni sul palco. E fra le tante autorità, dai sindaci ai senatori, non poteva mancare un esponente di Slow Food, a presentare due stelle del mondo del vino, Angelo Gaja e Josko Gravner, quest’’ultimo premiato per la sua “ricerca di un rapporto armonico e rispettoso tra il lavoro del viticoltore e la Madre Terra”. Appena afferrato il microfono, l’’uomo di Bra dimostra subito un carattere volitivo, giacchè, senza farsi minimamente influenzare dalle circostanze, taglia corto sul Roero e sul territorio, per concentrarsi sulle cose importanti. Con dovizia di particolari, unita ad una certa malagrazia, l’’assertivo funzionario ci informa che loro, cioè Slow Food, premieranno Gravner il 30 ottobre (2006, nda), al Salone del Gusto. Un vero e proprio spot pubblicitario, fuori posto e non richiesto. Mancano solo il prezzo del biglietto e l’’ubicazione dei parcheggi. Mi guardo in giro, più d’’uno pare a disagio, noi siamo qui ora, per vivere un evento che qualcuno, faticosamente, ha organizzato, e lui, bel bello, parla sfacciatamente di un altro evento, che si svolgerà in un altro tempo e in un altro luogo. E’ come dire: bravi bambini, voi dategli il vostro premietto, che poi alle cose serie pensiamo noi.
Ovviamente nessuno ha il coraggio o la pietà di fermarlo, ma per fortuna l’’intervento termina presto, è il momento di Angelo Gaja, che il sagace speaker di Bra chiama sul palco a “parlare di Gravner”.
E il grande Gaja, disinvolto e sorridente, guadagna la scena. Si guarda in giro, saluta tutti e cattura gli astanti col suo affabulare elegante; racconta della sua giovinezza, di quando andava in Friuli per questo e per quello, parla di vino e di mercato, di terra e di passioni, sfiora la nostalgia e regala sottili vene d’’umorismo. Il pubblico è silenzioso e confuso, tutti aspettano che Gaja parli di Gravner ma lui niente, su Josko neanche una parola.
Qualcuno azzarda dubbi, sarà l’’età o peggio, ma nessuno si permette di dirlo ad alta voce, o di interrompere per fargli notare che è fuori tema. Passano i minuti, lenti e imbarazzanti per chi ascolta, non per lui, che serenamente continua a narrare.
Quando ormai si è persa la speranza, Gaja fa un breve e rispettoso accenno a Gravner, sottolineando la diversa Weltanschauung che li separa.
Allora non era rimbambito, sembra dire qualcuno. Il sorriso luminoso di Gaja ha una sfumatura beffarda, ma forse è solo una mia impressione, chissà.
Finalmente intrat Gravner, col suo incedere solenne e la voce grave e lenta, le parole sono pietre.
“Io aggiungo solo tracce di solforosa e devo dirlo. Sembra una battuta, ma lo è di più quell’’indicazione dei solfiti in etichetta, rifletto, mentre Gravner continua su toni ominosi: “Fare vino buono vuol dire tornare indietro, altrimenti la terra si ribella e avremo gravi problemi…”
E niente cantine cooperative, per favore, Josko non ne vuole sapere: “Il vino deve sentire il padre vicino…”.
Come dire che molti dei vini che beviamo, più che orfani, sono figli di troppi padri.
Il finale di Gravner è conciliante: “Migliorare non è diventare più ricchi di soldi, è diventare più ricchi nell’’anima.”
Nel clima di calda cordialità che avvolge la serata, persino Pericoli, introdotto da una dotta quanto avvincente presentazione del critico d’arte Marco Vallora, si lancia a raccontare un aneddoto che sa di territorio. Lui, marchigiano, narra di quando, tornato dopo anni a rivedere i colli natii, si accorse che una certa torre pareva più bassa. Non era un’’illusione ottica, scoprì, ma il progresso. Gli spiegarono che il passaggio dall’’aratura animale ai trattori aveva modificato l’’idrografia del terreno. La diversa orientazione dei solchi, non più paralleli al terreno, come su linee di livello, ma ortogonali, provocava il dilavamento della terra. Trascinata giù dalle piogge, la terra colmava i fossi e abbassava i livelli, portando con sé gli agenti chimici usati nella concimazione e nella lotta agli insetti. Il tutto ad una velocità maggiore che in precedenza, complice la gravità.
Risultato, servono maggiori quantità di agenti chimici e le colline si abbassano. Per la cronaca, nessuno si è alzato a smentirlo pubblicamente, è quindi plausibile che la tesi non sia peregrina.
La serata, come per ogni premio che si rispetti, dopo un buffet dedicato al grande pubblico, è proseguita a cena, durante la quale i pochi eletti (mica tanto pochi, per la verità) hanno potuto chiacchierare amabilmente e gustare i vini premiati, in abbinamento alla cucina di Davide Palluda.
Detta così, sembra la solita storia di nasi affondati nei bicchieri e lingue sciolte nel pettegolezzo, ma anche in questo caso è andata diversamente. Sarà stata la situazione priva di agonismo, sarà stata la presenza di pochissimi giornalisti e, al contrario, di molti personaggi lontani dagli aspetti produttivi del vino, ma alla fine si è parlato d’’arte, di viaggi, di scuola, di pinze pieghevoli e ancora di terra e di lavoro.
E si è svelato qualche mistero. Il caso ha voluto che al mio fianco sedesse proprio quell’’Angelo Gaja che tanto stupore aveva destato nel corso del suo intervento. Chiacchierare con Gaja non è facile, le sue parole sono una lectio magistralis anche quando parla, apparentemente, di piccolezze. Aiutato dall’’assenza di mal di testa (un grazie di cuore ai produttori dei vini che ho bevuto) lo tormento con domande sul mercato, ma vengono fuori temi correlati, a dimostrazione che l’’intelligenza collega i puntini. A metà della cena, mentre vaghiamo dal marketing alle trattorie di un tempo, dal turismo enologico alle letture filosofiche, mi azzardo a chiedergli perché abbia dedicato solo due parole a Gravner, tirandola in lungo ad arte. Dapprima mi guarda stupito, poi si rasserena e sorride: “Vede, è che non mi piace che mi dicano quello che devo dire.”.. E tanti saluti allo speaker di Bra.

I vini della cena:

Roero Arneis d.o.c.g. Trinità 2005
Az. Agr. Malvirà (Canale – Cuneo)

Buntsandstein Riesling 2004
Hirschhornerhof (Neustadt)

Ribolla 2001 Anfora
Az. Agr. Josko Gravner (Oslavia – Gorizia)

Roero d.o.c. 2003 Mompissano
Az. Agr. Cà Rossa (Canale – Cuneo)

Roero d.o.c. Trinità 1999
Az. Agr. Malvirà (Canale – Cuneo)

Picolit d.o.c. Colli Orientali del Friuli 2003
Az. Agr. Rocca Bernarda (Premariacco – Udine)