Pepe – Valentini

Epica e mitologia del vino d’Abruzzo

di Sandro Sangiorgi

È stata un’idea di Marco Valente, componente della nuova squadra di Porthos. L’ha messa lì, sia perché lavorando al censimento della cantina aveva incontrato diverse bottiglie delle due aziende, sia perché nella sua giovane carriera di enofilo non aveva ancora provato certe etichette. A me è parsa subito di difficile organizzazione: campioni maturi significa tappi impegnativi da estrarre, irregolari livelli del liquido, probabili depositi ingombranti, possibili indebite trasformazioni e, inoltre, poetiche ma spesso fraintese ossidazioni. Invece è andato tutto liscio, ben al di là delle previsioni. Quando durante gli assaggi si è scoperta qualche imperfezione, è stato un attimo cambiare con campioni di scorta o vini di millesimi diversi ma ugualmente significativi.

La scelta delle annate ha voluto premiare l’identità dei singoli vini, abbiamo insistito su stagioni capaci di restituire insieme calore, luce, risolutezza, energia. Alcuni campioni erano stati sentiti e raccontati in vecchi numeri di Porthos, altri erano attesi con trepidazione visto che per la gran parte di noi rappresentavano un’assoluta novità. Altri ancora erano stati protagonisti di confronti tra le due aziende in precedenti occasioni, quindi l’ennesima opportunità per sentire come si evolvono le annate importanti nei due differenti territori.

 

                   Emidio

Sono stati esclusi i Cerasuolo di entrambi e il Pecorino di Pepe; sappiamo che il “rosato” di Valentini può essere un vino formidabile nel tempo (c’è la verticale su Porthos 36), mentre quello di Pepe ha una verve che si esprime in giovinezza. E poi, contando su otto posizioni, era troppo golosa l’opportunità di esplorare solo Montepulciano e Trebbiano. L’ordine di servizio ha previsto prima i quattro rossi e poi i quattro bianchi, prima le annate mature e poi le più giovani. Le due serate sono state introdotte dal pane di Gabriele Bonci e dai piatti di Rumi. In accostamento al cibo dei due incontri abbiamo servito vini diversi: nel primo il Cerasuolo 2012 di Ottaviano Pasquale dell’azienda Praesidium, nel secondo il Rosato Eughenos 2018 di Maria Paola Di Cato. Espressioni felici di un territorio distante da quelli dei due protagonisti, e non tanto in senso chilometrico. Vini ottenuti in altitudine, nei luoghi, come Vittorito e Prezza, considerati gli alvei di nascita e di primo allevamento del Montepulciano in Abruzzo. Il Cerasuolo della famiglia Pasquale ha mostrato la riuscita maturità dei suoi dieci anni e ha consegnato in modo graduale il caratteristico fervore alcolico. Il prodotto della famiglia Di Cato ha manifestato il lato positivo di un’annata complessa, quindi meno esuberanza del solito e un equilibrio compiuto, definito, fatto di cose piccole e deliziose.

È poi riuscito ciò che ho sperato, eludere la gara, almeno nella conversazione dopo gli assaggi. Ogni persona presente avrà di sicuro maturato una propria gerarchia, ciononostante i discorsi si sono indirizzati sull’espressività di ciascun vino e sullo stato di trasformazione, sul rappresentare o meno la sua “epoca” produttiva, sul possibile per quanto impegnativo confronto tra lo stile di allora e il più recente. Così è nata un’intensa esplorazione di note, sfumature, pressioni e leggerezze, lunghezze e persistenze, una ricognizione resa più avvincente e scambievole dal numero contenuto dei partecipanti. Il 15 giugno i vini di Pepe sono apparsi comunicativi e partecipi. La sera dopo, il 16 giugno, i vini di Valentini hanno recuperato una modalità appassionata e finalmente dedita ai nostri sensi.

L’ultima annotazione è riservata alle descrizioni. Non si tratta solo di una compilazione generata della mia soggettività, ma coinvolge l’essere stata l’unica persona che ha degustato gli stessi campioni presenti in entrambe le serate. È impossibile non vivere una suggestione, tanto intensa quanto lo sono i singoli vini e l’assaggio nella sua unità. È prevedibile il condizionamento dell’esperienza del 15 sul 16, allo stesso tempo è stato divertente vivere il contrario e tornare col pensiero alla degustazione della serata precedente e “vederla” sotto una luce diversa. Quando l’esibizione della stessa annata si è ripetuta sulla medesima linea, ho aggiunto dei brevi appunti. Troverete questo e molto altro nelle schede che seguono. Infine ho approfittato di tale eccezionale opportunità per riassumere molto di ciò che ho vissuto e imparato frequentando le famiglie Pepe e Valentini, un ineguagliabile patrimonio di emozioni e conoscenze del quale sarò loro sempre grato.

 

                  Sofia

 

Mercoledì 15 giugno 2022 

Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe 1982

Questo vino ci accompagna da vent’anni, tra i Montepulciano dell’azienda di Torano Nuovo è forse quello che conosciamo meglio. Infatti è stato proprio seguendo le varie versioni decantate e ricolmate, pronte per l’esportazione, che abbiamo scoperto la pratica della famiglia Pepe di imbottigliare vasca per vasca le tre-quattro migliori di ciascuna annata, rinunciando alla consolidata pratica dell’assemblaggio (ma sarebbe più corretto chiamarlo “taglio”). Ora, è opinione diffusa che, da sempre, i vini di Emidio possano riservare sorprese di ogni tipo, a cominciare dall’evidente differenza dovuta alla scelta di lasciare che nelle bottiglie si formino vite diverse, le quali vanno in giro per il mondo a rappresentare ognuna il senso più intimo di una vendemmia. Anni fa abbiamo trovato una strepitosa 1982 dal colore scuro e dalla straordinaria profondità odorosa, un lascito che in bocca diventa potenza e lunghezza senza pari. Tempo dopo, ne abbiamo incontrata un’altra dal profilo più gentile, chiara nel colore come l’aurea volatilità degli odori e la fluente eleganza gustativa. Le bottiglie di questa sessione, aperte il 15 e il 16 giugno, incarnano un notevolissimo punto d’incontro tra i due estremi. L’aspetto visivo manifesta un’invidiabile compattezza all’interno di una tonalità stagionata e omogenea. Il profumo è scabro, scavato nella terra, dove incontriamo radici e umidità. Il sapore sostiene il passaggio odoroso, sulla lingua ritroviamo una tattilità granulosa, affascinante, in grado di trasformarsi in vellutata tenerezza. È un 1982 affinato nella cantina di Porthos da circa quindici anni. L’autorevolezza dell’annata è confermata dalla sensazione che il vino sia attraversato da un teso filo di rame, lucente, vibrante, di cui non si conosce il punto di partenza né il punto di arrivo.

 

Edoardo

 

Montepulciano d’Abruzzo Edoardo e Francesco Valentini 1995

Solare sin dal primo sguardo, sempre che si possa definire così il colore di un vino rosso (nero), in ogni caso emana un calore maturo e amico. Al profumo arriva la conferma, la bottiglia ha vissuto intensamente, ma non inutilmente: è vero, non ci sono le note e le sfumature che sovente lo consegnano severo e introverso, tuttavia lo spettro odoroso non è passivo. Quelli che potrebbero apparire segni di stanchezza hanno il potere di un risveglio progressivo, per esempio la dolcezza della confettura ci riconduce al bosco, dove incrociamo l’inconfondibile macchia mediterranea e il vento del mare. Tale parco di sensazioni si riversa in bocca e contribuisce a consolidare l’espressività plastica e avvolgente, dall’epilogo di assoluto rilievo. Qualcuno è stato sorpreso, scambiandolo per un vino di Emidio, altre persone ne hanno amato il concedersi aperto e più gioviale del solito. La sua scheda è presente anche su Porthos 1, all’interno della verticale dedicata proprio al Montepulciano di Valentini, ebbene il giorno della degustazione, avvenuta ventitré anni fa, si rivelò magnifico, il migliore di una serie di alto profilo. Per capire meglio di che tipo fosse, vi invito a leggere la scheda del 16 giugno.

 

Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe 2007

Lo conosciamo bene, è amato sin dal 2012, quando abbiamo cominciato a studiare per il libro dedicato al produttore. Sin da subito è apparso un fuoriclasse, compendio di efficacia e ricercatezza. Il tempo lo sta aiutando ad assumere una progressiva essenzialità nelle forme e nei modi, così la giovanile prodigalità ha perso il lato più ingenuo e ora il vino è consapevole della propria forza, unito e integro pur nelle sfumature appena brune del colore. Il naso non ha esitazioni, sospeso tra il desiderio di porsi al centro dell’attenzione, in fondo sa di essere “bello”, e la necessità di serbare il mistero della complessità; il risultato è un liquido fatto di parti dialoganti tra loro. Questo fortunato segno evolutivo diventa chiaro quando il vino si appoggia sulla lingua e scorre deciso, partecipe, con una dimensione aerea che, insieme al sapore, sfocia in un’indomita persistenza.

 

Montepulciano d’Abruzzo Edoardo e Francesco Valentini 2006

Ad aprile, il 29, muore Edoardo. Sono i giorni in cui le viti vivono l’inizio del ciclo fisiologico, in una stagione che si rivelerà più complessa di quanto il figlio di Valentini avrebbe potuto immaginare. Francesco Paolo, ben al di là di ciò che pensava la gran parte delle persone, consumatori, esperti, venditori, si occupava dell’intera azienda da almeno vent’anni. Quindi, mentre tutti gli osservatori si concentravano su come se la sarebbe cavata nella prima annata senza il padre, lui aveva ben altri pensieri e gatte da pelare. L’uscita del Montepulciano 2006 è un omaggio, una scelta ineludibile, ma non manifesta quella selezione rigorosa, talvolta quasi autolesionista, alla quale i Valentini avevano abituato gli enofili di tutto il mondo. Per carità, è tutt’altro che un vino semplice, solo manca degli elementi che distinguono i millesimi meritevoli della bottiglia, quelli che non temono il tempo e sono grandi, diversi ed emozionanti su una tavola di New York, di Tokyo e di Pescara. Al colore non dimostra gli anni che ha, al naso esibisce il suo schema caratteristico: caffè in primo piano e via via la terra, il sangue e la crudezza delle bacche selvatiche. Il punto è che questi aspetti sono donati in modo “poco impegnato”, restano in uno stadio quasi superficiale, non ci richiedono quel supplemento d’indagine indispensabile per entrare in contatto con il potenziale di complessità. E così il sapore fluisce in modo piacevole e regolare, la stoffa è di prima finezza ma, nella bottiglia, il senso della persistenza non ha il coraggio di affrontare il mare, quello vero.

Emidio

Trebbiano d’Abruzzo Edoardo e Francesco Valentini 1999, bottiglia sostituita durante la degustazione dalla 1998

La nostra consuetudine è di controllare sempre i vini con almeno un’ora di anticipo rispetto all’inizio di un evento o di una lezione. La prima preoccupazione è il possibile tappo compromesso dalla caratteristica muffa, così da avere il tempo di cercare una sostituzione, in particolare quando abbiamo una sola bottiglia del vino prescelto. Allo stesso tempo, il sughero può darci anche l’indicazione su come sta il vino, su come va la trasformazione. Il tappo di quella bottiglia 1999, un po’ troppo stretto e asciutto per essere un Valentini, mi aveva destato perplessità, ma non ho dato fiducia all’istinto, ho pensato che poteva starci una fase di chiusura. Quello però non era il “rifiutarsi” di veronelliana memoria, era invece sfuggente, sintomo di uno svuotamento di contenuti. Appena l’ho versato nel calice, è stato chiaro che il colore e l’odore non tornavano e il sapore scivolava spezzettato. Ho aperto subito il Trebbiano d’Abruzzo 1998 e sin dal tappo, che ha restituito subito le note organiche tipiche di questo vino (tra le diverse, la deliziosa pungenza del vomitino da latte del bambino), è stato chiaro che avevamo a disposizione un vino vivo, in grado di mutare e di aprirsi progressivamente. L’annata 1999 ha una statura diversa, ha l’ambizione di una vita lunga e piena di sorprese. La 1998 lascia emergere una bellezza appena più compiaciuta, soddisfatta di aver raggiunto quel punto di evoluzione. Non si tratta del finale di una tappa o di una gara, possiamo definirlo un traguardo volante oppure un gran premio della montagna. Un passaggio dopo il quale il bianco di un’annata felice potrebbe ritirarsi e preparare una nuova uscita, in quella che appare sempre più una trasformazione di talenti che un semplice declino.

 

Trebbiano d’Abruzzo Emidio Pepe 2004

È stato fondamentale servire i bianchi dopo i rossi, questi ultimi avrebbero sofferto la portata gustativa dei Trebbiani, ai quali non serve la conturbante aromaticità dei vini varietali per rafforzare la persistenza. È un gioco di soglie di percezione: per quanto possa essere puntuto, dotato di tannini prestanti e di una corposità consistente, un vino rosso (o nero) non reggerà mai l’impronta percettiva di un bianco di personalità, dotato per natura di una dimensione che può tenere insieme, e a lungo, volume e strisciante attaccamento alla terra, ops… lapsus freudiano, volevo dire alla lingua. Seguiamo da oltre un decennio quest’annata del vino di Pepe, uno dei suoi bianchi più impegnativi da leggere, prima che diventi davvero un capitale della nostra memoria. Innanzitutto è quel giallo caldo con ancora un taglio verde; poi il naso destabilizza, resiste tra l’ossidazione e la riduzione e non si fa identificare, aspetto di estrema suggestione che non trova quiete neanche dopo la fine della bottiglia. In bocca rivela un’ulteriore svolta di quel processo, cominciato tra il 1994 e il 1996, volto a lasciare sempre più libero il Trebbiano. Tra i primi passi c’è la ricerca di una più completa maturazione delle uve, senza temere il calo delle acidità, a favore di un equilibrio dalle proporzioni ricche e interessanti. Poi c’è la progressiva diminuzione dell’uso della solforosa che aveva il potere di imbalsamare i vini, rendendoli eternamente giovani, tanto da evocare uno dei film più interessanti di Frank Capra, “Orizzonte Perduto”. L’affrancarsi dai tanti lacci ha generato partecipazione gustativa e profondità, qualità necessarie per cogliere nel fin di bocca il valore dell’incantevole mutazione dei profumi.

 

Francesco Paolo

 

2010, Trebbiano d’Abruzzo Valentini e Trebbiano d’Abruzzo Pepe, 15 e 16 giugno

Siamo di fronte a un’annata di altissimo profilo, d’intonazione solare e foriera di grandi possibilità evolutive. Abbiamo servito prima il vino di Loreto Aprutino e poi quello di Torano Nuovo. In questi ultimi otto anni li ho sentiti a confronto almeno cinque volte, ciò mi ha convinto a redigere un racconto associato della loro esibizione, una pièce teatrale, con le caratteristiche variazioni proprie delle repliche. Uno straordinario “qui e ora”, la cui unica costante è l’immaginario contesto sociale e storico nel quale si muove la vita dei personaggi. È il loro rivolgersi al mondo, che somiglia all’effetto dell’ascendente rispetto alla posizione del sole nel segno zodiacale. Il Trebbiano di Valentini si manifesta tutto d’un pezzo, incorruttibile, basta osservare il colore dalla corona dorata e dal cuore verde. Il Trebbiano Pepe tende a dare confidenza, sia che frizzi un po’ sia che resti fermo, il suo è un cromatismo caldo che salda l’aspetto visivo a quello odoroso. Superata questa scena iniziale, i due bianchi compiono un gioco di posizioni ogni volta diverso. Nella prima serata il bianco pescarese ha conservato la sua esasperante tensione, unendo il naso alla bocca in un flusso senza un momento di pausa. Ha l’autorevolezza di una persona che conosce la storia del mondo e non si fa scalfire da bagatelle ed emozioni superficiali. L’unico rischio di un donarsi così sussiegoso è che diventi la gabbia dove un animale (il vino) è a disposizione di sguardi di ammirazione, mentre il cuore e i sogni gli dicono di scappare via, correre a perdifiato in spazi senza fine. Al contrario, al bianco teramano è concesso di tutto, aprirsi e chiudersi nel volgere di qualche minuto, apparire per un attimo stanco e poi riprendersi e sfoderare una carnale e travolgente intensità. All’apparenza non ci sono controindicazioni, non manca nulla – luce, presenza viva e calorosa, epilogo in crescendo. Invece anche questo comportamento, che “deve” disorientare a tutti i costi, diventa una trappola, e il liquido sembra chiamato a interpretare un copione senza viverlo completamente. Ben inteso, si tratta di due vini difficili da dimenticare, meritevoli di chiudere le due degustazioni, ma la cui espressività è figlia più dell’annata che delle incredibili possibilità dei rispettivi luoghi. A più di dieci anni dalla nascita, alla luce degli assaggi avvenuti in questo arco di tempo, sento che il loro meglio è ancora nascosto da qualche parte. Si avverte l’esistenza di una rete di sottigliezze, capace addirittura di avvicinarne le anime, ma che resta ancora nell’oscurità, come se il suo sé sia rivolto altrove, mentre noi continuiamo ad assistere a una danza così sgargiante da obnubilare i sensi. Nella seconda sera, la commedia è stata quasi più avvincente: il Trebbiano di Valentini lascivo e preda di sentori marini, al contrario del Trebbiano di Pepe terroso e organico, dritto e indisponente. Tuttavia, accolte le sorprendenti esternazioni, il germe della complessità è ancora di là da venire e il libro degli eventi, come direbbe Wislawa Szymborska, resta aperto a metà, in attesa di ciò che potrà accadere.

 

                Elena

Giovedì 16 giugno 2022

Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe 1982

Dopo aver cominciato incontrando una bottiglia meno felice, la “giusta” percorre lo stesso cammino del campione della sera prima. Probabile che non abbia il medesimo magnetismo – non dimentico la suggestione di averlo già provato – in compenso la gradualità sottotraccia gli consente di sviluppare lo spettro delle sensazioni finali come un’ampia serie di sorgenti.

 

Montepulciano d’Abruzzo Edoardo e Francesco Valentini 1995

Sin dall’apertura della bottiglia è chiaro che siamo di fronte a un fuoriclasse in grado di riassumere ciò che si vuole da un vino (nero). L’odore della faccia del tappo a contatto del liquido consegna un’impressionante idea di densità e presenza, è difficile staccarsi. Al momento del servizio, il suono cadenzato del Montepulciano mentre scende nel calice combacia col colore, diverso dal campione della sera prima, perché compatto, vivo e comunque benevolo, pronto a scambiare amore. Annusarlo è come ritrovare una vecchia conoscenza, un’amica e un amico il cui odore è fondamentale per avere memoria di loro. Non si tratta solo del caffè, della foglia d’ulivo, dell’amarena più succosa, è la fusione corale che sale verso di noi e porta con sé l’anima del vino, proprio come la descrive Baudelaire, capace di colmare ogni desiderio. La mattina dopo, all’apertura della sede, mi sorprende il permanere di un effluvio che somiglia sempre più a un afflato del quale è impossibile non sentire la mancanza. Dopo un profumo così spettacolare, durevole, concentrato e comunicativo, il sapore riesce nell’impresa di coglierci impreparati. È chiara l’impalcatura con i suoi camminamenti solidi e le altezze vertiginose, all’interno di questo sistema che ambisce alla perfezione troviamo un giovane che sta diventando adulto, sganciato dai tormenti dell’adolescenza ma non ancora assorbito dal realismo della quotidianità lavorativa. Una persona creativa, un sognatore, che però non nutre nostalgia per la spensieratezza liceale, vive le passioni come conquiste e comincia a non lasciarle andare, le tiene strette, le osserva, quali di queste diverranno amori definitivi? A una maturità definita dalle forme compiute risponde un’energia prodigiosa, quell’armonia che supera ogni orizzonte, vibra e ci sopravviverà.

 

Francesco Paolo

 

Montepulciano d’Abruzzo Edoardo e Francesco Valentini 2006

Penso alla sera prima e mi dico, come reagirà questo vino che ha fatto emergere un’insicurezza tanto chiara quanto innocente. E invece dimostra che la replica arride ai vini di Valentini, li troviamo più pronti a muoversi e ad arrivare in fondo senza voltarsi indietro. Ciò che ho notato la sera prima non è scomparso, forse è stato celato dalle ali grandi del precedente, il 1995, che l’ha preso con sé e l’ha protetto dalle nostre aspettative.

 

Emidio

 

Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe 2004

Manca la riuscitissima 2007, allora si punta sull’annata che dalle schede del libro dedicato a Emidio, uscito nel 2014, emerge volitiva e per nulla intimorita dal confronto che l’aspetta, del resto deve chiudere la batteria dei rossi (neri) e non può fallire. Mi ricorda il ruolo del “closer”, il lanciatore che nel baseball viene schierato proprio per portare a casa la partita. Lui non può e non deve fare molti lanci, ma quelli che servono hanno il compito di spezzare le speranze degli avversari e far scattare la gioia dei compagni di squadra. Ecco, se penso a una parola esatta per questo Montepulciano di diciotto anni, questa è gioia, una dinamica combinazione di legami che non lasciano indietro nessun aspetto, il colore si giova dell’assistenza del profumo e, appena libero, offre la sua stagionata tonalità al cuore del sapore, dove la consistenza vellutata dei polifenoli copre ogni spazio. Al momento della deglutizione – non lo lasceremmo mai andare via – quando si attiva la persistenza ecco arrivare gli aromi a sostenere l’aspetto aereo della persistenza gustativa. Un movimento cronometrico, dal quale sguscia sempre un elemento di imprevedibilità, come se kairos, il tempo opportuno, a ogni giro provasse a rubare un secondo a chronos, il tempo inesorabile. Ciò dimostrerebbe l’evidenza degli universi paralleli? Forse, non sono in grado di rispondere, ma è certo che abbiamo vissuto la degustazione trasportati in una super simmetria. Una sinestesia dal tempo senza inizio.

 

                 Francesco Paolo

 

Trebbiano d’Abruzzo Edoardo e Francesco Valentini 1999

È stato il riscatto più eclatante della replica rispetto al primo evento. Tanto è apparso vuoto il ’99 di mercoledì 15, al punto da doverlo sostituire col ’98, quanto è risultato integro e munifico di contenuti il vino di giovedì sera. Il comportamento del 1999 è, dalla sua uscita, uno dei più spiazzanti. Ricordo che diversi colleghi di Valentini, in Abruzzo e nel resto d’Italia, lo consideravano inadatto ad affrontare l’affinamento in bottiglia. Colpiti da un’espressione avvolgente e immediata, concludevano che non valeva neanche il fratello di un anno più vecchio, quel 1998 a sua volta quasi compatito dagli stessi protagonisti dei vaticini. Difficile non dargli torto, del resto erano davvero poche le persone che avevano avuto la pazienza di osservare anno dopo anno l’evoluzione di Trebbiani arrivati a otto-dieci anni di vita (e più). Costoro avrebbero voluto la nota verace dell’odore, la famosa mortadella associata al brodo, e l’impronta essenziale della bocca sostenuta da un’acidità furiosa, tutto questo senza passare dal via! Intendo che la volevano subito, pronta dopo soli tre anni di vita. La creazione di quella stratificata complessità, della quale le note evocate poco sopra non sono altro che effetti superficiali, ha un’indolenza tutt’altro che esasperante, un lentissimo cambio di posizione di molecole che salgono, scendono, si fondono. Mi sembra di vederle, imprigionate nel vetro e quindi rassegnate a restare lì a lungo, decidere di eseguire bene il proprio compito, visto che farlo male avrebbe richiesto lo stesso sforzo, forse di più e senza alcuna gratificazione. Il 1999 è un altro vino armonico di queste due serate indimenticabili, e le sue cose più belle sono il lavoro nell’ombra e il tenere vivo un doppio scenario, a sua volta protagonista di un effetto surreale. Quello che affrontiamo per primo è un vino asciutto, combattivo, pronto a sporcarsi le mani col cibo più impegnativo, a tratti duro e riluttante alla gratificazione. A mano a mano che il calice si scalda, si fa avanti un’altra verità, una costruzione che vediamo sott’acqua, morbida, fluttuante, sappiamo cos’è, quando eravamo sopra l’avevamo toccata, ora invece ci sfugge. Non ci lascia insoddisfatti, anzi ci ritroviamo pieni delle sue attenzioni, solo che non riusciamo a vederle, a sentirle, bramiamo un apparato sensoriale finalmente degno di sintonizzarsi con la molteplicità custodita da un vino buono, interessante, magnetico e memorabile.

 

Rosa

 

Trebbiano d’Abruzzo Emidio Pepe 2009

Arrivare dopo il 1999 di Valentini è un’operazione disperata, di quelle senza ritorno. Ricordo quando un’altra annata del Trebbiano di Loreto Aprutino, credo la 1992, ridicolizzò il Clos du Mesnil di Krug dello stesso millesimo. Lo Champagne aveva provato a prendere possesso della bocca con la sua tentacolare combinazione di acidi e sali, a questa mossa il vino di Valentini propose il doppio scenario, così destabilizzante da far scomparire la persistenza del preziosissimo Grand Cru di Chardonnay. Eccolo il problema del Trebbiano di Pepe, chiamato dalla mia ingenuità ad aspettare la prova del più bravo, non sapendo cosa inventarsi. Mi sembra di vederlo, il 2009, impegnato a osservare l’interprete (o l’atleta) che lo precede per capire cosa far valere delle proprie qualità. Il vino, voluto e realizzato interamente da Sofia Pepe, sceglie la via giusta, sposta la contesa su un altro campo. Non ha la fatale duplicità dell’altro, così si fa strada con un’inaspettata raffinatezza, s’infila tra le profonde tracce lasciate dal Valentini nella persistenza e via via costituisce una nuova legge, la trasparenza a tutti i costi. E per un pezzo vive di questa brillante intuizione, esibisce il suo portamento fatto di magnanime carezze, però senza blandirci, un tentativo onestissimo, a un certo punto sostenuto da una luminosa freschezza. Ma proprio quando sembra passato il “pericolo”, dallo spessore della lingua, dalla sua intricata rete neurale, riemerge la struttura a maglie del Trebbiano di Valentini 1999 che prevale proprio nella persistenza, dove il Trebbiano di Pepe 2009 aveva colto il suo primo successo. Vivendoli distanti l’uno dall’altro, inframezzati da un altro assaggio o da un pezzo di pane o ancora da un po’ di tempo, il loro confronto, così tangibile pochi minuti prima, sembra non interessarli più, faticano a riconoscersi. È la magia del vino, se lo lasciamo fare continua a trasferirci in dimensioni altre, dove non vigono aspettative, dove non c’è ansia da prestazione, perché alla fine non c’è mai un perdente, a vincere è il benessere reale (e magari anche onirico) che non dovrebbe abbandonarci mai. Sui due Trebbiano 2010 vale il racconto del 15 giugno, nel quale c’è un accenno anche alla performance della sera dopo. Ci ripenso e sono sempre più convinto che anche il loro prendersi spazi in maniera euritmica dipende dalla grandezza dell’annata. Fortunate le persone che avranno la costanza, e le sostanze, per seguirne la sinusoidale evoluzione, magari godendosi un incontro ogni anno, per arrivare un giorno a rivedersi bambini, esattamente come accade al protagonista di Odissea dello spazio un attimo prima della scena finale.