01 Ago Sulla certificazione Vinnatur
Ho seguito la vicenda della certificazione Vinnatur sin dalla primavera quando, in coincidenza con la manifestazione di Villa Favorita, le aziende associate sono state chiamate a discutere e approvare il disciplinare. Ho qualche dubbio sull’efficacia dello strumento così com’è stato proposto, al di là dei limiti insiti in ciò che è permesso e ciò che è vietato. La certificazione è un mezzo importante, delicato e decisivo, credo si rischi di perdere la grande occasione di riunire le associazioni, i gruppi e i consorzi che hanno a cuore il vino naturale e concordare un documento comune. Si badi bene, tale possibile insuccesso non sarebbe da ascrivere solo a Vinnatur, ma coinvolgerebbe tutte le realtà vitivinicole italiane, associate o meno, che preferiscono far finta di nulla.
foto di sara bonessio, Georgia 2015, grazie a mauro lenci
Disciplinari e marchi diversi s’indeboliscono a vicenda, non importa che difendano un patrimonio comune. Immaginate l’acquirente di una bottiglia quando si ritrova un’etichetta dove non si capisce quali sono le indicazioni facoltative e quelle obbligatorie. Essere uniti permetterebbe un livello di contrattazione impensabile altrimenti.
Detto questo, vorrei riflettere in maniera organica sulla necessità di essere certificati, sulle possibilità di funzionamento e sul significato dell’essere associati intorno a un valore prezioso come quello della naturalità nell’agricoltura e nella produzione alimentare.
Non sono d’accordo con chi sostiene che la certificazione non serve e che, addirittura, possa rivelarsi dannosa per la sopravvivenza del vino naturale. L’attività di divulgazione del progetto “Porthos racconta” ci permette un punto di osservazione privilegiato sulla quotidianità dell’essere cittadini consumatori. Molte persone che si stanno avvicinando al vino sarebbero felici di poter distinguere un prodotto naturale in confronto a uno che non lo è, prima di aprire due bottiglie e assaggiarle; sebbene non sia scontato che per capire basti degustarle una volta. Non è sufficiente l’attività degli enotecari che illustrano e fanno provare la differenza, men che meno basta il lavoro di quei relatori che hanno scelto di servire nei propri corsi quasi soltanto vini naturali. C’è una parte di persone che vive nel Paese reale e non fa in tempo a seguire tutto, ciononostante va aiutata con tutti gli strumenti possibili. E la questione non riguarda solo l’Italia, ma contempla la percezione degli appassionati di altre nazioni disorientati da un movimento ramificato che disperde le sue energie nel dividersi invece di lavorare sui numerosi punti comuni. Ho la sensazione che molte aziende sottovalutino il potere di un marchio autorevole, non danno adeguato valore alla responsabilità verso un mercato che andrebbe fatto crescere. Il vino buono è già un prodotto di nicchia, perché richiede le attenzioni di persone che, per comprenderlo e apprezzarlo, sono disposte a dare qualcosa di sé. Porgere, anziché nascondere, evita il pericolo di renderlo inaccessibile.
La certificazione del vino naturale ha a che fare con il senso di appartenenza a una comunità, un insieme composto da diversi soggetti: le cantine, i consumatori e coloro che in modi differenti fanno da tramite. Sarebbe utile percepire tale legame per rendersi conto che, oltre a praticare un comportamento etico verso la natura e nella relazione tra questa e il proprio lavoro, è indispensabile non fermarsi ai propri confini aziendali e generare un approccio pedagogico che includa, prepari, promuova e difenda. La forza di un’associazione è proporzionale al valore del proprio obiettivo, che deve essere alto; la certificazione resta uno strumento che, al pari di altri, rende solide le fondamenta.
Uno degli aspetti cruciali da chiarire nel documento di Vinnatur è quale sarà l’ente controllore. Si fa riferimento a un’istituzione riconosciuta dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, null’altro. Inevitabile che diventi un punto di debolezza dell’intero impianto. Un consorzio che voglia certificare i propri associati non può delegare a un ente terzo, perché nessuno conosce meglio il lavoro di chi lo pratica. È il momento di tirarsi su le maniche e non aspettare che qualcun altro faccia ciò che è chiaramente il dovere di ogni associato: generare una dirigenza autorevole e poi eleggere una squadra di associati, da rinnovare ogni due anni, che si assuma la responsabilità di verificare i propri colleghi. Nel mondo, le più credibili associazioni di settore sono sorrette dallo sforzo degli associati che, in modo volontario, prestano la propria competenza per rafforzare la sostanza e l’immagine della comunità. È considerato un onore poter offrire ciò che si sa per gli altri, accrescere le conoscenze e metterle a disposizione di chi si sta formando. È un sacrificio che può costare la lontananza dalla propria attività, ma organizzandosi in modo razionale – e smettendola di lamentarsi – il prezzo non è così elevato e, anzi, può rivelare risorse altrimenti insondabili.
Vorrei ora ragionare su alcuni punti del disciplinare, premettendo che non ho la competenza per analizzare le ragioni scientifiche di ciascuna regola. Posso far valere la mia esperienza e, se riesco, mettere a disposizione una visione complessiva.
Dico subito che sono indiscutibili le pratiche vietate, dalla vigna all’imbottigliamento. Non ha senso alcun confronto con il protocollo europeo in materia di vino biologico, del quale si ritengono soddisfatti gli industriali e molti produttori che già si sentono “naturali” con una certificazione che dovrebbe imbarazzare prima di tutto coloro che l’hanno votata. Eppure, sarebbe stato importante inserire all’inizio una premessa chiarificatrice rispetto alle norme UE.
Certamente il regolamento Vinnatur è più severo di quelli di altre associazioni. Tuttavia, ho l’impressione che non vi sia una linea chiara, emerge un tentennamento che difficilmente troverà pace. È come se ci fossero posizioni sparse saldate da dichiarazioni d’intenti, come a voler accontentare convinzioni aprioristiche o, peggio, avallare situazioni, proprie di alcune cantine, alle quali non si vuole rinunciare. Si vorrebbe abbandonare la solforosa e, intanto, si permettono le filtrazioni e s’introduce l’utilizzo dei gas inerti per tenere il vino al riparo dall’aria. Si consente la modifica della temperatura, pratica che ha mostrato danni in abbondanza, e neanche s’indica in che modo praticarla. Non credo manchi il desiderio di far bene, temo si sia arrivati con troppa fretta a definire un concordato d’intenti che meriterebbe una riflessione profonda e un confronto più ampio. Angiolino Maule si è sempre distinto per una certa intraprendenza, è di sicuro tra i produttori il più impegnato ad accrescere la conoscenza propria e dei suoi colleghi di Vinnatur; allo stesso tempo, però, questa ricerca di verità scientifiche, che a tratti appare spasmodica, si è tradotta in un disciplinare ondivago e, per ora, poco autorevole.
Un segno importante, lo ripeto, sarà far conoscere chi avrà la responsabilità dei controlli. Impossibile non collegare la forza di una norma con l’attendibilità di chi ne verificherà l’applicazione. E giacché si parla di vigna, sento la mancanza di un’indicazione più netta a favore di scelte che nel dettaglio portino alle auspicate «resistenza, fertilità, biodiversità». Quasi si finge di non sapere che, per ora, la biodinamica è la “scelta” per condurre la propria terra a ospitare un sistema vivente. Questo, però, potrebbe essere il soggetto di un altro articolo, poiché sulla biodinamica applicata in modo integrale ci sono ormai evidenze scientifiche che ne testimoniano i benefici. Negli ultimi anni, troppo spesso, ogni persona che vi si affaccia la legge a modo suo, semplificandone il valore e ottenendone un surrogato. Un po’ com’è la furbizia per l’intelligenza, un surrogato.
foto di matteo gallello
Il rispetto verso donne e uomini che coltivano la terra e producono vino naturale m’impone di non entrare nello specifico di cosa è permesso dal regolamento, perché è materia di chi vive il lavoro in prima persona. Non mi basta aver collaborato per alcuni periodi con aziende naturali e convenzionali, aver partecipato a diverse vendemmie, aver ascoltato centinaia di racconti e cronache. Solo chi frequenta assiduamente un vigneto, chi conosce l’ambiente della cantina può affrontare la questione nel merito. Una cosa l’ho imparata: un luogo vivo che dona un’uva sana consente una libertà d’azione anche tra gli equilibri perigliosi delle piccole annate. Basta non credere che questa condizione si possa ottenere dopo solo pochi anni di attività agricola secondo le regole.