“Tremuoti” di altri tempi

In alcune città, furono tremende ed avverse circostanze a mettere in moto meccanismi virtuosi di scoperta – o riscoperta – di peculiari vocazioni economiche. È l’esempio di alcuni luoghi celebri nei quali tutt’oggi fiorisce, e da diversi secoli, l’arte ceramica.

Non è un caso: furono proprio le necessità della ricostruzione degli abitati, distrutti da tremende catastrofi naturali – disastrosa frana nella messinese Santo Stefano di Camastra, terremoti devastanti a Caltagirone e nei due beneventani borghi di Cerreto Sannita e San Lorenzello: tutti eventi verificatisi nell’ultimo scorcio del Seicento – a rilanciare, con vigoria straordinaria, l’attività delle botteghe: e davvero fa meraviglia quanto, in questi frangenti, di fronte a tragedia e rovina, la reazione dei sopravvissuti non sia stata di rassegnato scoramento e fatalistico abbandono, ma di rinnovata energia e di poderoso impulso a nuova intrapresa.
L’ingegno creativo si espresse con prodigiosa vitalità e segna alcune fra le migliori manifestazioni dello spirito barocco di cui era permeata, anche fra i ceti artigiani, la società del tempo.

NEW TOWN O RECUPERO DEL BORGO? DUE OTTIMI ESEMPI SANNITI
Qui si portano i casi dei due borghi del Sannio, assai prossimi fra loro: meno di tre chilometri dista, infatti, Cerreto da San Lorenzello. Entrambe, dunque, appartennero al feudo dei Carafa, entrambe, nel 1688, vennero sconvolte da un cataclisma, entrambe furono prontamente ricreate.
Sennonché, il modello ricostruttivo fu assai diverso: l’una, Cerreto, il conte Marzio Carafa la volle rifondare altrove, spostando l’insediamento abitativo qualche centinaia di metri dalle rovine; per l’altra, lasciò che rinascesse sulle tracce dell’antiche contrade, salvando quel che c’era da salvare e rifabbricando i vecchi edifici in nuovi, lì dove il crollo non concedeva alternative.

Cerreto Sannita

San Lorenzello


Non pare pure a voi che l’alternativa somigli e sperimenti le due opzioni in discussione oggi – dopo il terremoto sotto il Gran Sasso – se è meglio prospettare una new town, oppure no, è preferibile ripristinare l’antico borgo? La similitudine effettivamente c’è, ma non inganni: Carafa, pur volitivo e decisionista come personaggi dei tempi nostri, non si appassionò alla questione ma intuì la sensatezza d’un metodo diverso. Quale?
Prima espongo i casi e propongo una visita virtuale ai due bellissimi borghi; poi, se vi va, traiamo la morale.

5 GIUGNO 1688
Riferisce l’arcidiacono Magnati, nella sua relazione sul cataclisma tellurico che sconvolse la città nel 1688: “Cerreto, capo della Contea, nella quale si numeravano poco men che 8 mila abitanti, la metà di essi restò sepolta in quell’eccidio. In quel medesimo giorno appunto del 5 giugno e nel sentire ed avvertirsi nella prima scossa della terra la presero quasi per burla e per scherzo, nella seconda pensavano che dovesse incontanente cessare, e nella terza gridavano: non è già burla, e nel fuggire furono oppressi dalle pietre e sepolti dalle medesime, e ritrovarono dove meno sei credevano nel medesimo istante e la morte e la sepoltura”.
Una vera strage fu tra i religiosi: “Di 80 monache francescane ve ne perirono 59; il resto di esse tutte, sepolte nelle pietre, son rimaste storpie; dei padri conventuali, dei 12 che colà si ritrovavano in quel convento, soli due si salvarono (…) e morti 8 tra canonici e dignità, perita la maggior parte dei preti, frati e monache, essersi salvati i cappuccini, i seminaristi e la gente che rattrovasi pei lavori agricoli in campagna”.

GLOSSE ALLA RELAZIONE
DELL’ARCIDIACONO MAGNATI
Se almeno una glossa è permessa a queste note, io me ne concedo due.
Luogo primo, ci si burla dei pericoli troppo spesso, e di quelli che li segnalano, siano tecnici dilettanti siano cazzute studentesse, come s’è visto nei giorni scorsi. S’è detto del tecnico Giampaolo Giuliani ch’era ciarlatano e che ad ogni terremoto c’è qualcuno che s’alza e dice: l’avevo previsto.
Bene: diffidiamone.
Ma non bisognerebbe diffidare a maggior ragione di chi, interpellato per competenza (scientifica nonché, ben remunerata, pure istituzionale) insistentemente rassicura che la situazione è sotto controllo, salvo dichiarare che comunque un terremoto è imprevedibile?
Non sarebbe stato di buon senso e galileianamente corretto, insomma, verificare l’ipotesi Giuliani, fosse anche per dimostrarne una buona volta la strampalaggine (o, il cielo volesse, la validità: sarebbe un progresso, no?) e, intanto far venire le tende più vicino, preparare la ghiaia dove piantarle, provare le ‘exit strategy’ nelle abitazioni… Insomma attrezzarsi, visto che lo sciame sismico non scema ma perdura e s’intensifica?
Meglio prevenire un panico presunto o prevenire i danni probabili delle scosse? Forse che armare le scialuppe su una nave o imporre la cintura di sicurezza significa creare inutili e pericolosi allarmismi? Non significa, più semplicemente, mettersi nelle condizioni affinché, in caso infausto, sia ridotto il danno?

GLOSSA ALLA PRIMA GLOSSA:
PROPOSTA DI EPIGRAFE A FUTURO PROMEMORIA
No, scusate: io pianterei un monolite con epitaffio nel Ground Zero aquilano, nei pressi del Palazzo della Regione dove, il 31 marzo, s’era riunita la Commissione nazionale grandi rischi, che aveva prontamente rassicurato i cittadini: “Il terremoto rilascia energia un po’ alla volta e questo è favorevole”.
Nell’epigrafe pubblicherei, a futuro promemoria, due testi: quello integrale del comunicato diramato prima – e dico prima – della riunione, che suona così: «Su richiesta del Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, con l’obiettivo di fornire ai cittadini abruzzesi tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane è stata convocata domani, 31 marzo, all’Aquila, alle ore 18,30 presso la sede della Regione Abruzzo, una riunione degli esperti della Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi.
All’incontro, finalizzato all’analisi della frequente attività sismica registrata nella provincia dell’Aquila dall’inizio del 2009, parteciperanno, tra gli altri, il prof. Franco Barberi, presidente vicario della Commissione, il prof. Enzo Boschi, presidente dell’INGV, il prof. Gian Michele Calvi, il prof. Claudio Eva e il Vice Capo Dipartimento, prof. Bernardo De Bernardinis.
È utile precisare che non è possibile prevedere in alcun modo il verificarsi di un terremoto e che non c’è nessun allarme in corso da parte del Dipartimento della Protezione Civile, ma una continua attività di monitoraggio e di attenzione.
Secondo l’Ingv, ente preposto alla sorveglianza della sismicità del territorio nazionale, le scosse avvertite dalla popolazione in data odierna fanno parte di una tipica sequenza di terremoti, del tutto normale in aree sismiche come quella dell’aquilano che, negli ultimi mesi, ha registrato quasi 200 eventi, la maggior parte dei quali non avvertiti dalla popolazione».
A questo testo, aggiungerei le poche righe, ma scritte in oro, della relazione dell’Arcidiacono Magnati: “Nel sentire ed avvertirsi nella prima scossa della terra la presero quasi per burla e per scherzo, nella seconda pensavano che dovesse incontanente cessare, e nella terza gridavano: e nel fuggire furono oppressi dalle pietre e sepolti dalle medesime”.

GLOSSA NUMERO DUE
Secondo luogo: si dice che un tempo si costruiva meglio, che il Colosseo è ancora in piedi, et coetera. In parte è vero, ed in Abruzzo, in area da più millenni sismica, ci son perfino covili alti poco meno d’un trullo ed eretti alla stesso maniera, con pietre… che dico pietre! macigni, veri macigni, a secco: senza né cemento né armatura, secondo bruta tecnica forse neolitica, preistorica di certo. Questi tholos, dall’Abruzzo alla Sicilia, sono in piedi ancora malgrado vandalismi e abbandono. E, sissignori, malgrado più d’un tellurico moto si sia abbattuto su quei tellurici suoli.
Ci sono mura poligonali di uguale resistenza: ne ho viste di persona, impressionanti, fra Tornareccio e Bomba, nell’entroterra sopra l’adriatica Vasto.
Ci sono chiese, infine, e civici edifici che stanno lì, all’Aquila e nei paesi attorno, con pochi danni, magari ricevuti (vedi il caso della prefettura, a quanto sembra) per l’effetto domino di stabili instabili vicini.
Ma l’arcidiacono Magnati è teste sicuro che la strage fu eccidio e non perì solo la povera gente di casupole rabberciate, ma “monache e canonici e dignità”: cioè gente che non se la doveva passare poi tanto male quanto a un tetto sotto cui pregare o governare.
La differenza è che dagli errori si cercava d’imparare, mentre oggi che si sa bene cosa occorre fare, si concedono condoni e si prorogano eccezioni senza molte differenze fra i colori di (mal)governo. Poteva andare peggio? Vero. Verissimo. Ad Avezzano, cent’anni fa, le vittime furon più di trentamila. Ma con le tecnologie oggi acquisite, i nostri trecento morti d’oggi, francamente, possono sembrare pochi solo ai cinici ed agli sciocchi.

UNA CITTÀ PIÙ SUPERBA CHE PRIA?
Colpisce, alla prima occhiata panoramica, l’impianto urbanistico di Cerreto: della nuova Cerreto, appunto, che sul finire del Seicento Marzio Carafa volle immediatamente edificare dopo il violentissimo e devastante sisma: un razionale reticolo a scacchiera di strade spaziose, ornate dalle facciate solenni dei palazzi e dalla maestà barocca delle chiese. Il disegno si deve al regio ingegniero Giovan Battista Manni, forse ispirato al modello della città di Torino, e certamente agli antichi schemi romani di cardo e decumano, applicati tanto nella lontana città sabauda che si affacciava a nuovi fasti quanto nella stessa Campania Felix dei bei tempi andati.
È proprio il terrificante tremuoto del 1688 che può fare un po’ da filo conduttore per una visita al borgo, per individuare gli edifici e i monumenti del tutto nuovi e quelli ricostruiti dopo la catastrofe. Non risultano immagini della vecchia Cerreto, ma non si hanno motivi per credere che quella nuova possa essere figurata “più bella e più superba che pria”. Non più superba, ma più sicura, più funzionale. E con un forte senso di comunità, di corpo sociale che guarda avanti, che si organizza – o riorganizza – per darsi una prospettiva. Il barocco cerretese, come spesso nel Mezzogiorno, sembra testimoniare una reazione tenace a seguire una catastrofe: non dimentica il passato, ma disegna il futuro.
È l’esatta sensazione che si percepisce all’ingresso del paese, ove sorge la Cattedrale, dedicata alla SS. Trinità. Pur trovandosi a valle del nuovo centro abitato, con originali cupole maiolicate e ben due campanili sormontati da semicupole rivestite in riggiole giallo-verdi, pare dominare il borgo.
La stessa emozione procura anche la Collegiata di San Martino,l’unica Chiesa risalente sicuramente alla Cerreto medievale del X secolo. Distrutta dal terremoto, fu immediatamente riedificata. Più ampia della cattedrale, essa appare fastosa e adornata di magnifiche scalinate ricurve, opera del cerretese Antonio Di Lella. Vecchie radici, nuovi germogli: la memoria non è una mummia incartapecorita, ma una metamorfosi che trasforma anche le tragedie in forza (avrebbero detto Confucio o Mao) e bellezza (aggiungo modestamente io).

LA TINTA, (RI)FIORENTE INDUSTRIA PASTORALE
Cerro e Cese sono le contrade cerratesi fra le quali passa l’antichissima via pastorale che le greggi percorrevano fin dalla preistoria sannitica: cioè quando, spontaneamente o con pastori ancestrali, riparavano dalle calure estive delle Puglie verso i freschi pascoli abruzzesi e molisani. L’allevamento ovino, insomma, e l’industria e commercio di lane e tessuti, hanno radici assai remote. Cerreto medievale era importante terminale manifatturiero della industria della lana, e nel 1541 sembra si potessero contare nella contea fino a 200.000 pecore, 6.000 per famiglia.
Quasi un secolo e mezzo dopo, a seguito dell’esiziale sciagura, il solito Marzio Carafa – verso il quale non nascondo simpatia – decise di creare una tinta assai più grande del preesistente e devastato laboratorio per dipingere i tessuti: essa fu tra le attività più importanti per l’economia locale, che si confermava centro strategico della atavica industria e civiltà pastorale.
L’intelligente e rapida ricostruzione ebbe vita pochi decenni: non i nuovi terremoti, ai quali s’era imparato a por rimedio, ma le irrimediabili oppressioni e le violenze di meno lungimiranti feudatari che, anni dopo il Carafa, venenro in aspra lite coi ceti artigiani, incepparono le (ri)fiorenti industrie, che ineluttabilmente decaddero. Sicché, della nuova struttura oggi restano solo le rovine, fra i primi esempi di cattedrali nel deserto.

VA BELPENSIERO SU SGRAVI FISCALI
Ricapitolando: per Cerreto Sannita, capoluogo della sua Contea, il feudatario Marzio Carafa volle una new town; la più minuscola contrada di San Lorenzello, invece, la recuperò: di modo che, alle falde meridionali del Massiccio del Matese, il borgo appare davvero singolare: l’impianto urbanistico è prettamente medievale, e su di esso s’innestano felicemente le chiese ed i palazzi in stile barocco e rococò.
Tra i numerosi artigiani che si trasferirono qui, attratti dagli sgravi fiscali promossi dal sagace Marzio Carafa, va citato il nome di Antonio Giustiniano, discendente da una stirpe di maiolicai partenopei che, a Napoli, avevano casa (e bottega) in via Marinella. Egli fu chiamato nel Sannio da un parente, Niccolò Russo, ceramaio anche lui.
Il figlio di Antonio, Nicola, seguì prestissimo le orme paterne, lavorando tra la sua bottega, in San Lorenzello, e quella del Russo, in Cerreto. Appena ventenne, il ragazzo tornò donde il padre era venuto: a Napoli, in via Marinella. Buona scuola, personale attitudine e un ambiente stimolante generarono Belpensiero, come subito venne ribattezzato il giovane Giustiniano che, a soli due anni dal suo arrivo, era già artista affermato, fondatore di quella prestigiosa scuola di ceramiche Giustiniani che, in breve tempo, fu in grado di rivaleggiare con le porcellane di Capodimonte.
Testimonianza significativa della sua opera è però nella stessa San Lorenzello, presso la Congrega di Maria SS. della Sanità. L’edificio domina il paese dalle falde del Monterbano, col suo bel campanile a cupola ottagonale piastrellata con maioliche policrome di Cosma e Nicola Festa. Di origine francescana, la Congrega è particolarmente ricca di opere di ceramisti locali. Di Antonio Giustiniani, in particolare, sono il prezioso pannello sul portale dell’ingresso, in piastrelle maiolicate, e il pavimento del Presbiterio, che ricorda quello di San Petronio, in Bologna.

MORALE (ED IMMORALE) DELLA FAVOLA
Ma sì, una morale c’è. E pure una immorale.
Marzio Carafa fu un feudatario illuminato. Oggi molti vorrebbero essere feudatari, pochi danno segno d’essere illuminati. Meglio non rischiare: meglio non avere governanti decisionisti e volitivi. Sarà pure morale spiccia, ma l’immorale, in questo caso, è quel che è successo nei feudi politici molisani, per restare alla storia più recente: il modesto terremoto e il non fatale sterminio di innocenti di San Giuliano sono divenuti cinica occasione per fare scempio di una ben più vasta area, strage di un tessuto sociale ancora vitale, dilapidazione di fondi ben al di là di dove il sisma aveva realmente portato rovina. Su ciò altrove si è detto abbastanza e non è qui luogo d’aggiunger altro.
Morale più stringente è che del futuro di un borgo, d’una città e d’un intero territorio colpito da sciagura naturale è la stessa popolazione che deve decidere le sorti. L’idea di Silvio Berlusconi, d’una new town, non è di per sé bislacca. Potrebbe anzi essere una ragionevole ipotesi progettuale: c’è il buon esempio di Cerreto, c’è l’esempio pessimo di San Giuliano.
E con Vittorio Sgarbi, come la mettiamo? D’istinto m’è antipatico, ma d’istinto e di testa ha più ragione: recuperare un borgo, rimetterlo in piedi salvando la memoria dei luoghi che una comunità ha costruito nel corso di secoli e millenni, è senz’altro meglio che accettarne la tabula rasa.
Il vero merito di Marzio Carafa sta non nell’aver pianificato la new Cerreto né nell’aver recuperato la old San Lorenzello, ma nell’aver deciso l’una e l’altra cosa tenendo presente la storia, l’identità, la vitalità degli abitanti. Prima di affidare agli architetti un progetto urbanistico, ha costruito un progetto sociale a partire dall’umanità che si trovava davanti. Ha lavorato sulla speranza.
Cerreto e San Lorenzello sono ancora lì, tutto sommato alquanto piene di vita: godibili per chi ci abita e gustose per chi vuole trascorrervi un fine settimana, un lungo ponte. Al punto che, tratta la morale della favola…

ADESSO, A TAVOLA!
(INSOLITO FINALE A TARALLUCCI E VIRNO)
I tarallucci qui sono eccezionali, ma non chiamateli tarallucci: qui si chiamano m’scuott. Lisci o ritorti, semplici (acqua, lievito e farina, consigliati dai medici per le diete) o all’olio (olio locale, eccellente; il Comune è fra i soci fondatori di Città dell’Olio); ma anche alla sugna, al pepe, allo zucchero… Se ne celebra la sagra durante l’estate.
Niente da dire su tarallucci e vino: lo schietto vino del Monterbano.
Ma nel titolo ho scritto virno, con la r nel mezzo, che non è un errore. È semplicemente un fungo: l’ottimo prugnolo, altrove noto come fungo di San Giorgio. Però qui lo chiamano virno; che ci debbo fare? Anche lui ha la sua gran sagra, nel mese di maggio. Ed è ingrediente base della cucina cerretana, peraltro ricca di carni ovine e bovine grazie ai vasti pascoli d’altura dove gli armenti sono ancora oggi allevati bradi e possono nutrirsi di saporose erbe aromatiche appenniniche.
Ma torniamo al virno, fungo curioso. Primo, perché cresce nelle vernere,larghi cerchi d’erba nera conosciuti pure come cerchi delle streghe; secondo, perché emanano un vago sentore spermatico! Le vernere sarebbero, in altre parole, la traccia lasciata da innominabili pratiche sessuali di depravate fattucchiere. Sia come sia, nella buona stagione sono in molti ad andare a caccia di questa che non al naso, bensì al palato risulta sopraffina ghiottoneria.
Perché mi dilungo su questa gastronomica faccenda? Perché penso che, in quel fatale giugno del 1688, gli scampati al terribile sisma non solo dovettero arrangiarsi per sopravvivere ma, anche, cercare distrazione dalla distruzione che li attorniava. Caccia e raccolta, in poche parole: vecchie risorse. Raccolta di virni, appunto, e caccia di lumache, gustose e proteiche bestiole assurte a icona di quella saggezza slow necessaria anche – e soprattutto – in tempi di catastrofi.