Tremuoti e terremoti

Il godibilissimo pezzo di Radaelli, che, con dovizia di documentazione storico-artistica, contribuisce a gettare luce su un’altra delle mille facce in ombra di quella che fu la Campania Felix, suscita in me, nel contempo, una reazione lievemente allarmata che provo ad argomentare.

Primo perché, per quelli della mia generazione e di quelle più prossime che provengono da questa parte d’Italia, il terremoto scuote ancora la testa e le ossa, quale indelebile spartiacque dell’esistenza di tutti noi.
Secondo perchè la ricostruzione frettolosa, sciatta ed irrispettosa, quando non criminale, dipinta come una grande e irripetibile opportunità, rappresenta una ferita ancora aperta e sanguinante nelle carni di questa terra che davvero non ne aveva bisogno.
Perciò si può affermare, penso a ragion veduta, che il confronto con gli eventi del 1688 e le sue conseguenze, seppur stimolante, non sia purtroppo proponibile.
E per un cumulo di ragioni.
Preliminarmente il solo termine new town mi provoca cospicui conati di vomito.
C’è poi da dire che ciò distingue gli scenari attuali da quelli evocati nella ricostruzione del tremuoto del 1688 è proprio la mancanza del principe illuminato, capace di leggere con lungimiranza le esigenze di un territorio e comprendere gli errori da evitare per non determinarne la morte, in quanto, sempre memore delle proprie necessità e del proprio tornaconto, la prosperità del suo feudo coincideva con la prosperità di se medesimo.
Ma non basta. Al giorno d’oggi, duole sottolinearlo, difettano anche le professionalità, segnatamente gli urbanisti capaci di pensare un tessuto urbano come un organismo che cresca in armonia col contesto e con i suoi abitanti e non come un mostro informe, un cancro che cresce ammorbando progressivamente un territorio e portandolo a morte.
Certo gli esempi virtuosi non mancano: anche Noto venne rasa al suolo dal terremoto del 1693 e la sua ricostruzione integrale in diversa posizione diede origine a quel gioiello del barocco siciliano che è la città come oggi ancora ci appare.
Ma non si intravedono all’orizzonte né la figura del Principe di Camastra, rappresentante a Noto del viceré spagnolo, e, men che meno, del sommo architetto Rosario Gagliardi, artefice massimo della ricostruzione.
Al contrario, gli esempi recenti conducono tutti in direzione opposta.
Nel territorio colpito dal sisma dell’80 (cosiddetto dell’Irpinia, ma che, in realtà, colpì gli interi territori delle province di Avellino, Salerno e Potenza e, in misura minore, la restante parte dei territori regionali di Campania e Basilicata), le ricostruzioni fuori sito dei centri abitati completamente distrutti (e sono stati tanti) gridano ancora vendetta, mentre i pochi esempi apprezzabili di interventi nel complesso virtuosi sono quelli delle ricostruzioni in sito, col recupero dell’esistente e l’integrazione del nuovo nel tessuto urbano preesistente (vedi il caso di Valva, in provincia di Salerno).
Quindi se vogliamo finire il lavoro iniziato dal sisma, costruiamo nuove città e lasciamo che venga impunemente uccisa anche l’anima di un territorio già ferito a morte, facendone spegnere la storia e la memoria.

“Non c’è futuro senza memoria”.