Progetto, Sviluppo e Trasferimento di Sistemi Innovativi di produzione di Vini senza Allergeni - Porthos Edizioni

Vino senza solfiti – Lasciamo fare alla natura

Questo è lo slogan del “Progetto, Sviluppo e Trasferimento di Sistemi Innovativi di produzione di Vini senza Allergeni”, tenutosi lo scorso 18 giugno presso Palazzo Antonelli a Roma.
Seguo da tempo i tentativi di proporre sistemi per evitare la solforosa nell’elaborazione e nella confezione del vino. Nel settembre 2012 sono stato al Sana di Bologna. Nel maggio 2013 ho avuto l’opportunità di assistere alla presentazione del Wine Research Team di Riccardo Cotarella all’AIS di Roma. Durante la conferenza stampa, che precedeva l’assaggio dei vini, non sono state elargite spiegazioni sufficienti per capire come funziona il processo che dovrebbe portare ad azzerare l’uso della solforosa.
Più chiara è stata l’esposizione del progetto guidato da Marco Esti, professore associato in Enologia e Tecniche enzimatiche per l’industria alimentare presso l’Università della Tuscia (sempre quella che segue le ricerche di Cotarella).
I comunicati stampa del convegno segnalano che il progetto di sperimentazione è reso possibile da “un finanziamento comunitario (misura 124 PSR Regione Lazio)”. Così è stato presentato l’incontro:

Tre nuovi vini senza solfiti in provincia di Roma, frutto di una sperimentazione che ha coinvolto l’Università della Tuscia attraverso un finanziamento della Regione Lazio. Sono il Macchia Sacra, fiano in purezza della cantina Castello di Torre in Pietra, il 496  Frascati Doc (70% malvasia di Candia e 30% trebbiano toscano) dell’azienda biologica De Sanctis di Frascati e il Don Franco, un rosso montepulciano e sangiovese della cooperativa Capodarco, di Grottaferrata. Il progetto dell’associazione ProBio è cofinanziato con fondi comunitari al 60% dell’investimento con circa 62mila euro.
Le tre cantine, già in possesso da anni della certificazione biologica, si sono impegnate in questa sperimentazione per cercare di avere un profilo organolettico dei loro primi vini senza allergeni, analizzandone la qualità e l’interesse dei consumatori, attraverso un progetto dell’associazione ProBio, che può fare da apripista a tante altre aziende, associate e non. 
Sono già in commercio e con una buona risposta dei consumatori i tre vini delle annate 2014, delle cantine Capodarco e De Sanctis, che ne hanno prodotte 2mila bottiglie, e Castello di Torre in Pietra con 4mila bottiglie.

Il convegno è stato moderato da Fabio Turchetti e introdotto dall’agronomo Leandro Dominicis. Gli interventi di seguito riportati sono di Pier Francesco Lisi, giornalista-enologo-comunicatore, del professor Esti e dei tre produttori che hanno partecipato al progetto.
Abbiamo lavorato sodo per rendere la lettura del parlato dei protagonisti fruibile e scorrevole.

Progetto, Sviluppo e Trasferimento di Sistemi Innovativi di produzione di Vini senza Allergeni - Porthos Edizioni

Pier Francesco Lisi – giornalista, enologo, comunicatore
Inizio con una rapida premessa: bisogna avere un approccio non fondamentalista e inquadrare i solfiti in un discorso più ampio che riguarda la sanità dell’alimento vino. Mi permetto di riportare una frase di Paracelso, uno dei padri della chimica moderna: Tutto è veleno. Nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.
Analizziamo l’uso dei solfiti. Non è una trovata dell’industria moderna, l’uso dello zolfo in cantina risale ai greci e ai romani anche se dalla fine dell’800 si è diffuso su larga scala e si è creata una problematica dal punto di vista salutistico. Ma i produttori e gli enologi non sono folli! Se usano l’anidride solforosa, un motivo ci sarà: è un antisettico, antiossidante, antiossidasico, permette il controllo della malolattica, protegge ed esalta l’aroma del vino e ha un ampio spettro d’azione.
Si può utilizzare in varie fasi: sulle uve, prima e dopo la fermentazione, e all’imbottigliamento. La chimica di solforosa, solfiti e composti dello zolfo è complessa, sono molecole molto piccole. Ci vuole una grande competenza dal punto di vista biochimico e microbiologico perché si possa mantenere al minimo la quantità complessiva di solfiti e, allo stesso tempo, elevare la protezione del nostro vino. La solforosa è un composto “socievole”, va d’accordo con molti elementi del vino, formando composti stabili e meno stabili. Ne parlerà dopo il professor Esti.
Quando è stata approvata, nel 2012, la normativa europea sulla vinificazione bio, la critica principale riguardava l’uso dell’SO₂. L’Italia, come al solito, è stata incapace di decidere e indirizzare. Quindi il contenuto di solfiti ammesso si è attestato su livelli più alti rispetto a quelli seguiti dai nostri produttori che invece, da anni, seguono disciplinari di vinificazione bio stabiliti da organismi di controllo privati molto più restrittivi. Tuttavia l’abbassamento del 30% di solfiti, rispetto al vino convenzionale, è utile per la salute: essi, infatti, sono tossici, anche se in misura variabile a seconda di fattori come dosaggio, sesso, ipersensibilità personale, età, peso. Esiste un piccola fascia di persone allergica ai solfiti la cui assunzione comporta il rischio di una reazione immunitaria. Molto più diffusa è l’ipersensibilità. La mia esperienza di divulgazione e didattica nei corsi di conoscenza e degustazione dei vini “Biodegustando”, mi ha mostrato che la fascia di sensibilità è più ampia di quanto si possa immaginare.
Vi ricordo che i solfiti sono tossici anche per chi li manipola e rientrano nella normativa degli allergeni, inoltre non sono contenuti solo nel vino (dov’è obbligatorio riportarli in etichetta se superano i 10 mg/l). Negli altri alimenti è possibile nascondersi dietro alcune misteriose sigle: dobbiamo ricordarci che E220 introduce forme diverse di solfiti presenti in una serie lunghissima di alimenti: noci in guscio, mele disidratate, succo di limone, puntarelle imbustate, pane, crackers, biscotti, alcuni tipo di birre, molluschi, conserve, patate surgelate, patatine fritte in busta… Il vino non è l’alimento che ne contiene di più, basta valutarne il contenuto nell’uva passa e nelle albicocche secche: provate a consumarne un po’ e vedete quale reazione provocano. Un altro caso lampante riguarda i gamberi. Il gambero non è rosso o meglio, lo è per un quarto d’ora dopo essere stato pescato, poi cambia colore. Un crostaceo trattato con i solfiti fa prima a marcire che a imbrunirsi.
I vini senza solfiti ormai sono una nicchia di mercato, non una rarità. Ne esistono anche da agricoltura convenzionale ma, innanzitutto, devono essere buoni. Non credo che i consumatori di oggi accetterebbero, come accadeva venticinque anni fa, di consumare vini biologici scadenti con la scusa della tutela ambientale e della salute. Sappiamo che si possono fare ottimi vini biologici e possiamo fare ottimi vini senza solfiti. Sicuramente sono più delicati, risentono dell’annata, che è una cosa positiva. Ci saranno annate migliori e peggiori, bisogna accettarlo.
In degustazione c’è il Biancodarco, il primo Frascati Superiore senza solfiti. Ricordo bene la 2012, una vendemmia mitica di cui conservo ancora una bottiglia, è un’annata di grande longevità.

Biancodarco 2014 Frascati Superiore senza solfiti Agricoltura Capodarco - Porthos Edizioni

A questo punto cito due affermazioni di due mostri sacri del vino cosiddetto naturale: “Fare vini senza solforosa è come fare un salume senza sale, è impossibile”, lo dice Gravner, il mago dei vini affinati nelle anfore di terracotta. Nicolas Joly, in una recente lezione in Spagna, è arrivato a sostenere una cosa che dal punto di vista chimico è una sciocchezza: è necessario distinguere tra i solfiti che provengono dallo zolfo di miniera e quelli derivati dal petrolio.
Io penso che ai fini pratici non cambi nulla, come non cambia nulla se i solfiti provengono dalla fermentazione.
Scritte come “Senza solfiti aggiunti”, “Solo solfiti naturali” non dicono molto, siamo ai limiti dell’ingannevole. Vi ricordo la questione della tossicità: i vini bio sono più sani, nel nostro progetto sono state evitate anche sostanze di derivazione animale, come caseine e proteine dell’uovo. Inoltre se una sera beviamo un bicchiere in più di questi prodotti, il mattino seguente non avremo alcun sintomo e poi, attraverso questi vini, possiamo sperimentare profili gustativi diversi.

Marco Esti – professore associato in Enologia e Tecniche enzimatiche per l’industria alimentare presso l’Università della Tuscia
La fase del progetto, quest’anno, prevede un coinvolgimento più ampio del territorio di Roma. L’Azienda Capodarco, con il Biancodarco, ha spianato una strada sul mercato trovando molto interesse da parte dei consumatori.
Farò riferimento più volte al concetto di enologia varietale perché anticipa il principio secondo cui le tecnologie e i processi di vinificazione sono impostati in base alla singola realtà aziendale. Si tratta di un approccio tecnologico funzionale non solo all’organizzazione dell’azienda ma anche alle peculiarità delle materie prime. La solforosa semplifica la vita di cantina ed è la ragione per la quale è stata sempre considerata insostituibile. Il vino è il risultato di una lunga serie di variabili di natura biologica e microbica e l’SO₂ svolge una serie di funzioni utili, la più tangibile si riscontra nell’effetto sensoriale: legandonsi ad alcuni composti che contribuiscono ad anticipare un’evoluzione eccessiva del vino, ne attenua l’impatto olfattivo e ne conserva più à lungo la freschezza.
Cercherò di far capire la ragione per cui ci sono momenti in cui l’SO₂, indipendentemente dall’approccio tecnologico adottato, può non essere utilizzata.
Nella fase iniziale della vinificazione in bianco, quando ammostiamo le uve, abbiamo un elevatissimo rischio di ossidazione. Appena inizia la fermentazione alcolica e lo sviluppo di CO₂ dall’attività dei lieviti, il mosto-vino si protegge in modo naturale. Ha una capacità altissima di consumare l’ossigeno, quindi anche gli eventuali rimontaggi indispensabili a due-tre giorni dall’inizio della fermentazione non determinano alcun tipo di alterazione di carattere ossidativo. A metà fermentazione lo stato di ossidoriduzione è molto basso, poi man mano che l’alcolica finisce, il vino torna a uno stato intermedio. Indipendentemente dalla scelta di usare la solforosa, non abbiamo bisogno di protezione dall’ossidazione.
Il rischio, di tipo microbiologico, dipende dalla capacità delle specie indigene e delle specie esogene (gli starter) di riuscire a colonizzare l’ambiente. In questa competizione, i Saccharomyces sono i lieviti ideali per far compiere la fermentazione alcolica e, con la loro dominanza, tutti gli altri microrganismi vengono mantenuti in una condizione di latenza, non producono composti indesiderati. Ovviamente rimangono in agguato e quando il nostro lievito avrà portato a compimento la fermentazione, diventa tutto più rischioso.
Nel caso della fermentazione in rosso l’unico elemento aggiuntivo rispetto a quanto descritto, dal punto di vista dell’ossidazione, è l’ulteriore calo dello stato di ossidoriduzione dovuto alla malolattica indotta. Dunque fermentazione alcolica e malolattica, ci proteggono dallo stato di ossidazione.
Le aree di rischio microbiologico sono immediatamente prima dell’inizio della fermentazione alcolica, oppure subito dopo il completamento della malolattica.
Se voglio entrare, analiticamente, nel merito del non uso di solforosa, devo conoscere la fase di massimizzazione dell’uno e dell’altro fattore di stabilità e il momento in cui le condizioni del processo si riducono. L’instabilità microbiologica al momento della vendemmia fino al momento del consumo è molto alta nelle fasi iniziali, diventa media nelle fasi di affinamento e si riduce nella fase di imbottigliamento.
Ovviamente per limitare l’uso di SO₂ in vinificazione, l’approccio deve essere rigoroso perché si sia in grado di gestire il processo. Oppure si può lasciare che le cose avvengano per caso, come facevano i nostri nonni.
La molecola con cui si lega più stabilmente la frazione di SO₂ utile al nostro sistema è l’acetaldeide. Se ci vogliamo cimentare con questa esperienza bisogna far sì che l’acetaldeide sia più contenuta possibile. Quindi il principio base quando si utilizza l’SO₂ in un approccio moderno, rispettoso del consumatore è massimizzare la quota di solforosa libera.
Quali sono le regole generali da rispettare? Cose che già conosciamo da un approccio razionale e di buon senso: condizioni igieniche, sanità delle uve, tempestività di lavorazione in fase di ammostatura (ora capiamo perché bisogna essere veloci, è quella la fase di maggiore esposizione al rischio microbiologico e ossidativo), fasi biologiche controllate (se innesco le fermentazioni alcolica e malolattica, ho la garanzia che partano e si concludano in successione), stretto controllo delle temperature (tutti i fenomeni di alterazione microbiologica e biochimica, di carattere enzimatico, sono accelerate dalle alte temperature).
E poi, ovviamente, il ricorso ai sistemi aggiuntivi: utilizzo di gas inerti, tannino, glutatione, acido citrico.
Senza andare nel dettaglio degli elementi importati, arriviamo alla premessa dell’ultima vendemmia: a parte le condizioni finanziarie limitanti imposte dalle amministrazioni, l’andamento stagionale è stato terribile. Avevamo a che fare con un’uva più critica, meno ben disposta a questo tipo di trasformazione.
L’altro elemento fondamentale, ispiratore di questo approccio e citato all’inizio, è usare un’enologia varietale, una tecnologica che tenga conto delle dotazioni meccaniche e organizzativa di ciascuna azienda.
Sappiamo e abbiamo visto che il sistema è complesso, le sue esigenze sono molteplici, cambiano in continuazione e pensare di intervenire con un solo approccio equivale a non sapere a cosa si va incontro.

Cominciamo con l’Igp Lazio Rosso Capodarco, il Don Franco. Si tratta di uve sangiovese e montepulciano, vendemmiate il 9 ottobre 2014. Abbiamo utilizzato una macerazione ‘soft’ (tenendo conto delle condizioni delle uve) con fermentazione alcolica e malolattica compiute in successione a temperature controllate con inoculo di lieviti e batteri selezionati. Date le basse temperature imposte, la fermentazione alcolica è durata 13 giorni, mentre in molte realtà si completa in molto meno. L’approccio enologico è stato di ambiente redox con gas regolato. Cosa vorrà dire?
Un sistema brevettato da Ghidi, chiamato Serbatoio Onda, consente tramite sistemi combinati, di utilizzare gas tecnici e, a fine malolattica, di creare una condizione di riparo dall’ossidazione mediante l’impiego di azoto. L’aspetto più interessante del Serbatoio Onda è la tecnica utilizzata per movimentare il liquido. Di fatto non abbiamo un rimescolamento delle parti solide, si muove solo il liquido inferiore al cappello, senza l’ausilio di pompe.
L’imbottigliamento è avvenuto a cinque mesi dalla vendemmia e le bottiglie prodotte sono un numero esiguo ma di particolare interesse.
Parlavamo di estrazione ‘soft’, una breve macerazione, indispensabile per limitare la componente amara e fecciosa che spiccava particolarmente in questa annata. La solforosa endogena, prodotta dai lieviti durante le prime fasi di fermentazione, arrivava a 12mg/l per poi aumentare nella fase più tumultuosa del fenomeno, dopodiché si è attestata ed è rimasta sui 10 mg; l’azienda, infatti, ha potuto omettere la presenza di solfiti. Anche l’aldeide acetica è prodotta dai lieviti nelle prime fasi della fermentazione alcolica. In questo caso si è giunti a un livello di 30 mg e poi, come accade per l’acido acetico, l’aldeide viene rimetabolizzata e ritrasformata nel corso delle fasi successive. L’acetico è rimasto contenuto nel corso della fermentazione alcolica grazie ai lieviti selezionati, nella fase di affinamento è cresciuto lievemente.
I polifenoli totali sono aumentati molto durante la macerazione, per poi diminuire naturalmente in fase di affinamento. La laccasi è un importante indicatore dello stato sanitario delle uve ma è anche un elemento di veridicità per vinificare in assenza di SO₂ perché è un catalizzatore potentissimo dei fenomeni di ossidazione.

Passiamo a De Sanctis. Il responsabile dell’azienda aveva deciso di vinificare delle uve neutre: malvasia di Candia e trebbiano toscano, uve che non hanno potenzialità di composti varietali nel corso della fermentazione alcolica e poi dell’affinamento. In questo caso non c’era un pool di composti aromatici da proteggere. Dunque è stato necessario il ricorso all’abbattimento dei composti fenolici e all’iperossigenazione abbinata a flottazione (insufflazione di gas). Anche in questo caso le temperature della fermentazione – durata 27 giorni – sono state mantenute basse, 13°C con inoculo di lieviti selezionati. Dal punto di vista enologico si tratta di un approccio sottrattivo combinato a un ambiente riducente in acciaio. L’imbottigliamento è avvenuto il 20 dicembre, 1000 bottiglie prodotte di questo DOC Frascati. La laccasi in questo caso ha valori bassi, merito dei vignaioli che hanno colto il momento giusto per vendemmiare.

496 Solfiti Free 2014 Frascati D.O.C. De Sanctis Azienda Biologica - Porthos Edizioni

Arriviamo a Castello di Torre In Pietra. In questo caso l’approccio è differente perché si tratta di fiano in purezza e dovevamo preservare un pool di precursori interessanti non solo nelle fasi iniziali di ammostatura e vinificazione ma anche durante la conservazione in bottiglia. Dovevamo fare in modo che tutto, dai polifenoli ai composti aromatici, fosse preservato dal primo momento e abbiamo effettuato una sfecciatura statica del mosto. Abbiamo messo i lieviti a dura prova, perché potessero esprimere al massimo le loro capacità di trasformare quei precursori aromatici in molecole odorose. La fermentazione è durata 41 giorni a 10°C, 4000 bottiglie, imbottigliate a 4 mesi dalla vendemmia.
I profili di degustazioni non ve li anticipo, li scoprirete voi nell’assaggio.
Quali sono i risultati del progetto? Innanzitutto si è creata una rete di aziende che hanno un obiettivo comune, non solo tecnico-produttivo ma anche di mercato: un ampliamento dell’offerta, una differenziazione produttiva. I vini laziali hanno bisogno di un rilancio. Il controllo della fermentazione malolattica nei bianchi, nonostante l’assenza di solforosa, è stato possibile grazie al basso pH dei vini e alla qualità iniziale delle uve e al contenimento della biogenesi della solforosa endogena. Infine siamo riusciti ad avere prodotti senza alcuna nota di ossidazione a cinque mesi dall’imbottigliamento.

Macchia Sacra Solfiti Free 2014 Bianco I.G.T. Lazio - Cantina Castello Torre in Pietra - Porthos Edizioni

Salvatore Stingo – Capodarco (Grottaferrata)
ProBio ha promosso questo progetto. L’associazione nasce dall’idea di Capodarco e dalla nostra concezione più ampia di agricoltura. Cerchiamo di collaborare, di trovare strade e sinergie perché è utile a tutti portare avanti l’attenzione all’ambiente e alla persona. È il caso della scelta biologica.
ProBio ha messo insieme alcuni produttori (tra cui Giangirolami, Carpineti, Casal Mattia, Riserva della Cascina) e ha proposto questo progetto alla Regione. Devo ringraziare il professor Esti perché i tempi tecnici non corrispondevano ai tempi della natura: stavamo vendemmiando e il progetto non era stato ancora approvato ma ci siamo comunque buttati. Ringrazio le aziende Antonelli e De Sanctis, oggi non è semplice collaborare su cose che comportano un rischio perché quando nella botte non metti solforosa non sai mai come va a finire… Bisogna crederci, non solo per fare un prodotto vendibile ma anche per continuare un progetto utile.

Luigi De Sanctis – Azienda De Sanctis (Frascati)
Non vorrei venissimo scambiati per “i primi della classe” o gli snob che si mettono a fare il vino senza solfiti. C’è un legame forte con Capodarco e poi… il “nuovo acquisto” Antonelli, azienda di grande prestigio… tutto questo è dettato dallo spirito di compartecipazione.
Direi che l’elemento fondamentale è la presenza di Marco Esti che, nonostante abbia sfiorato temi impegnativi, li ha resi comprensibili. Aver lavorato con lui ci dà lustro. Continuamo a stare insieme, nel Lazio c’è bisogno di svestirsi delle proprie individualità.

Filippo Antonelli – Castello di Torre in Pietra (Fiumicino)
A noi ha fatto piacere salire su questo progetto in corsa. È sempre interessante sperimentare, non so quale sarà il punto di arrivo e non è detto che giungeremo a fare un vino senza solfiti, magari faremo le stesse considerazioni di Gravner. Sappiamo che in agricoltura le sperimentazioni sono difficili per le variabili dal territorio, al clima, alle tecniche e vanno ripetute per tanti anni prima di giungere alle conclusioni.

Non si è parlato della vigna, ma del resto l’aspetto agricolo non è il loro core business. Eppure dal confronto con diversi vignaioli che hanno quasi azzerato l’uso della solforosa, è emerso che la capacità della vigna di proteggersi autonomamente, quindi il suo stato vitale, genera frutti altrettanto dotati che, a loro volta, donano un mosto e un vino con un’integrità talmente elevata da non porsi il problema delle fermentazioni spontanee e del dialogo con l’aria; in altre parole nessun terrore per la presenza di lieviti non-Saccharomyces e batteri.
L’assaggio dei primi risultati derivati dal progetto, come in altre occasioni, è stato deludente.
Per evitare l’uso di solfiti, infatti, bisogna stabilizzare il vino in un modo davvero invadente. E si sente: i vini in degustazione rimangono vittime dei tecnicismi ai quali sono stati esposti sin dalla loro nascita. L’assenza di solfiti non può continuare a essere cavallo di battaglia per un vino “sano e buono” così come l’aumentare delle persone allergiche o ipersensibili non deve essere uno scudo dietro al quale ripararsi.

Riporto un episodio di cui sono stato testimone divertito durante l’assaggio successivo al convegno, nel giardino di Palazzo Antonelli.
Un signore che non aveva partecipato alla presentazione e che sembrava capitato lì per caso, dopo aver assaggiato un po’ di tutto, si rivolge con tono deluso a uno dei produttori:
– Ma questi vini sono tutti uguali! Non riesco a sentire le differenze che dovrebbero esserci, dato che sono territori e uve diverse!
E il produttore:
– Evidentemente ha un palato poco allenato.
Ribatte il signore:
– Ma guardi che quando assaggio i vini dei Feudi di San Gregorio, le sento le differenze tra Falanghina, Fiano e Greco. Qui no!