Dal decimo capitolo de Gli Ignoranti La gaffe - Porthos Edizioni

La sottiletta e la visione

Ciao Sandro,
ti scrivo per scusarmi per le mie assenze alle ultime due lezioni. Ho parlato con Matteo e mi ha comunicato che posso recuperarle a novembre, peggio per voi che vi ritroverete questa faccia anche il prossimo inverno.
Tra un allettamento e l’altro, però, ho avuto modo di sperimentare un momento visionario. Un istante di consapevolezza assoluta legata al vino e, se mi concedi un paio di minuti, vorrei condividerlo con te, anche perché mi è tornato in mente istintivamente l’aneddoto della sottiletta* che ci hai raccontato al corso.

Dal decimo capitolo de Gli Ignoranti La gaffe - Porthos Edizioni
Dal decimo capitolo de Gli Ignoranti “La gaffe”, pag. 41

Il fine settimana scorso sono stato al Vinitaly e, incuriosito dallo strombazzamento mediatico di cui era stata oggetto, ho partecipato alla master-class sui vini australiani al padiglione internazionali. Dopo la prima sessione, noiosa, di “Wines by Geoff Hardy”, eccoci al clou: i vini di Molly Dooker. Otto calici firmati Robert Parker, otto vini da guida, rivista e maglietta in cotone, compreso il leggendario (?) Carnival of Love Shiraz (99/100 e bacio accademico).
Sarà che sono uno storico delle religioni fottutamente ancorato al diffusionismo del mio maestro Brelich, e al suo principio di contagio delle idee, sarà che sono immerso nella lettura de “L’invenzione della gioia”, o sarà che tutto quanto detto a lezione lo sto digerendo lentamente, mescolandolo con le mie maledette nozioni sommelieristiche, e sono in fase “liquido primordiale” (come quel Cannonau di Mamoiada che abbiamo bevuto), fatto sta che ho iniziato ad avvicinarmi con molta cautela a quelle soluzioni idroalcoliche che avevo davanti.

Tralasciando il primo (un Verdelho), la successiva carrellata di rossi è stata tremenda: un Cabernet Sauvignon, un blend (Merlot, Cabernet, Shiraz), altri due Cabernet, uno Shiraz, un altro blend (Cabernet, Shiraz) e in chiusura un altro blend (Cabernet, Shiraz). A metà ero perso. Avevo mollato. Dentro di me si era creato un corto circuito. Vedevo le facce soddisfatte di tutti e non capivo. Annusavo e non sentivo niente, solo frutti rossi sparati con la fionda nel mio naso. E allora mi sono detto: ricomincio!
Ho ripreso il secondo vino e… cazzo, era uguale al quinto, ma anche al secondo, al quarto, al terzo. Che non capissi le sfumature? Probabile, doveva essere così. Che fare? Aspettare il gran finale mi è sembrata la cosa giusta.
Si alza Molly e comincia a parlare del suo lavoro in vigna, dello stress che sottopone alle piante facendole quasi morire e poi rinascere per quattro mesi di fila, il tutto per avere quello che per lei è il parametro con cui vanno giudicati i suoi vini: «l’intensità del frutto». Una scala da 65% al 100% di fruttosità (a prescindere dal terreno, dall’annata, dal tipo stesso di uva!). Tutto testato, tutto brevettato. Comprare per credere. Uno stupro della vigna misurabile in bocca.
Ecco, in questo momento mi è venuta la nausea. Vorrei alzarmi e andarmene, ma non lo faccio. Aspetto il Carnival. Versano il liquido nel bicchiere e mi viene al naso lo stesso odore di prima. Mentre Molly agita la bottiglia come una Coca Cola per togliere l’azoto («Noi non usiamo solfiti»), ho la sensazione di trovarmi a un concorso di bellezza per bambine: di quelli che fanno negli Stati Uniti. Questi vini, come le bamboline stelle e strisce: truccati, imparruccati, costretti a essere tutti uguali, tutti perfetti, a comportarsi sempre allo stesso modo, salutare con la mano smaltata, profumare di rosa. Infilati nei loro costumi rosso rubino, un’ora dopo erano ancora lì, intatti e muti. Senza una goccia di sudore. Identici all’immagine di se stessi che Molly aveva creato. Mi sono sentito un necrofago.  
Sono uscito e, con una mia amica, sono andato da Dettori, un produttore che lei conosceva per via di Borghi Autentici. Ci ha offerto tutto il panorama dei suoi Cannonau, servendoli in relazione alla vecchiaia delle vigne. All’ultimo assaggio mi sono commosso. Pensavo a quello sciroppo parkeriano e mi sono commosso di fronte alla fragilità complessa di quel Cannonau da vigne di centovent’anni; alla sua personalità decadente, alla sua sottile presenza, piena di cose da raccontare. Ho sentito una sorta di malinconia, un senso di finitezza struggente. Mentre bevevo mi sono venuti in mente due ricordi: “Gabriel’s Oboe” ed io e i miei genitori sul divano di casa insieme, la sera tardi.
Ecco, la mia sottiletta è stata questa. Volevo condividerla con te, per quello che può valere.

P.S. Ho riassaggiato il Trebbiano di Pepe. Ancora non lo afferro, ma credo di aver visto la ruota della bici.

Un saluto,
Boris

*La sottiletta
Alle persone che frequentano il corso di conoscenza e degustazione del vino racconto un aneddoto personale utile a far capire l’importanza dell’annusare, sempre e comunque, qualsiasi cosa, in ogni momento. Ero molto giovane, un giorno arrivai a casa affamato e, aperto il frigo, ingurgitai quasi senza scartarle una decina di sottilette di una celebre marca. Una specie di apnea, tanto che, al primo respiro utile, arrivò inaspettata una zaffata di letame, un odore forte e pesante. Ed era già troppo tardi, quel “cibo” era già oltre l’esofago. Attraverso la ben nota corrispondenza naso-bocca, ero impregnato di una puzza insopportabile; non era il profumo di letame da stalla ben tenuta, con i sentori di erba, di fiori, la base ideale per il preparato 500, si trattava di merda del peggiore degli orinatoi, una latrina degna del racconto di Susskind quando descrive il sudiciume della Parigi settecentesca.
Senza offrire una morale, incoraggio alunne e alunni a usare l’olfatto per godere ma anche per vigilare, così da mitigare l’effetto delle inevitabili brutte esperienze.