28 Dic 10 agosto – Il vento errante di Calitri
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Mi porto l′ultimo pezzo di notte che è già una parte di giorno salendo sul treno che torna verso la Capitale. Ho barattato i respiri della mia vita con i respiri di un luogo e per un pò, forse per sempre, quel luogo e quella mia vita avranno un respiro comune e si troveranno di tanto in tanto a ricordarsi e sentirsi vicini.
Un sonno di alba, lento fino alla stazione di Roma e da lì proseguire per Napoli lungo il litorale.
Una volta sceso mi metto alla ricerca della fermata dell’autobus per Foggia.
Mi avvicino a un uomo che sta spazzando una parte del portico appena fuori la stazione di Napoli Porta Garibaldi e gli chiedo se può aiutarmi. Mi indica un punto dove stanno in linea una decina di africani assieme alle loro immense sporte, alle loro mercanzie in attesa di andare e vendere e vivere. Un altro uomo vicino alla fermata dice che ora si possono acquistare i biglietti per il prossimo autobus diretto a Foggia, ecco, laggiù, dove stanno quei fabbricati. Percorro cinquanta metri di suono metropolitano tra macchine e persone, taxi e motorini. Al mio ritorno il marciapiedi accanto alla fermata ora è più affollato. E quando arriva il bus c′è un attimo di agitazione tra gli uomini dalle enormi borse e i viaggiatori italiani che li invitano a rispettare gli spazi. Finalmente si parte, non c′è un posto vuoto e sotto è rimasto un africano che non è riuscito a salire e che guarda con fatalità il nostro allontanarsi. Lo seguo fin che posso dal finestrino. Lui si mette il proprio peso sulla spalla e scompare dentro la stazione. Avviso Pierluigi che sono riuscito a prendere la corsa di mezzogiorno e ci diamo appuntamento a Lacedonia per le 13:30. L′Italia di oggi è straniera. Di italiani qui seduti ce ne sono ben pochi e se cerco la realtà che scorre fuori tra i campi trovo sudore che cola dalle fronti scure fatte di dura carne nera.
L′autobus inizia a fermarsi dove è stabilito e qualche africano scende e si porta la grande borsa appresso seguendo una via che lo porta al mercato o in un punto dove allestire un banchetto improvvisato.
Il paesaggio si è fatto collinare. Le terre lisce dopo la recente raccolta di grano e cereali. È un piacevole ondeggiare di campagna.
All′ora dovuta arrivo a Lacedonia.
Vedo un fuoristrada alla fermata e quando scendo mi viene incontro Fabio, il figlio di Pierluigi e Nerina. Ci stringiamo la mano e ci presentiamo, poi porto i bagagli sull′auto e saliamo verso Calitri.
Insieme a Fabio, la sua compagna, Bea, da Milano sono venuti alcuni
giorni qui in Campania a trovare i genitori. Mentre arriviamo al paese parliamo di noi. Le vigne e la casa stanno a qualche chilometro dal paese che ancora non vedo perché rispetto alla strada rimane più lontano, nascosto tra le colline. Imbocchiamo una strada sterrata che costeggia una terra scura appena lavorata e dove immagino fino a poco fa stavano le piante di grano. A livello della strada un giovane vigneto appena piantato, più in alto altre piante di vite, le uniche che ho avuto modo di vedere lungo il tragitto. Passiamo accanto alla casa della madre di Pierluigi e ancora pochi metri raggiungiamo casa Zampaglione. L′aria è mossa dal vento e il tempo sembra che stia cambiando.

In casa il tavolo attende che si consumi il pranzo e splende di promettenti colori e profumi. Saluto Pierluigi e Nerina e ci accomodiamo.
Anche la famiglia di una delle figlie ha raggiunto Calitri per passare un pò di tempo con i genitori e capisco che mi trovo in un giorno di riunione familiare e questo mi fa sentire veramente accolto nell′intimo spazio di una casa e di chi ci vive. Passano le pietanze e i bicchieri si riempiono del colore delle spighe mature, il Don Chisciotte.
È un tempo lieto di famiglia e di un luogo appena raggiunto che mette l′animo curioso e attento. Sapore di cibo d′agosto, verdure cresciute nell′orto, rosso pomodoro maturo e bellezza di un vino ostinato che cresce sui pendii tra venti e piante di grano in un suolo caldo di vulcano.

Nel primo pomeriggio sotto le nuvole bluastre mi incammino insieme a Nerina verso il vigneto oltre i settecento metri sul mare. Calpestiamo la terra che nera e mietuta.

Lassù un albero di pero che annuncia le piante a filare di Fiano. Tutt′intorno la campagna di saliscendi, un bosco ancora più in alto e in lontananza le sagome delle pale eoliche. Entriamo in un filare ordinato dove stanno maturando i pochi grappoli dell′uva che ora è verde.
Nerina mi parla del suo lavoro passato a Napoli e dell′incontro con Pierluigi.
Scendendo passiamo nel campo di pomodori.
Questi sono giorni della lavorazione del pomodoro, poi andiamo a vedere a che punto sono con la preparazione.
Vicino la vigna appena piantata di Fiano. Le piccole piante che già han messo foglie e sottili tralci.

Se vuoi andiamo insieme che dobbiamo fare un commissione a Calitri così vedi il paese.
Dalla parte delle pale eoliche il cielo è grigio di pioggia, i tuoni lontani e il vento che porta aria bagnata.
Il temporale sta girando da qualche giorno ma qui da noi ancora non ha piovuto.
Scendiamo le curve dolci finché appare in lontananza l′abitato di Calitri. Colori vecchi e case messe insieme, vicine come a scaldarsi dalle folate di vento e dalla pioggia veloce di un temporale. Un paese dalla doppia faccia, quella moderna e irragionevole della disarmonia e quella sofferta e storica della vecchiaia. Entrambe raggiunte allo stesso modo dall′acqua che cade grossa. Una sosta dal riparatore di scarpe, i suoi strumenti usati e buoni. Un volto esperto e due mani che sanno accostarsi al cuoio per raddrizzarne la vita.
Si torna in campagna, il temporale ci segue e finalmente si ferma con noi e con noi scende, ognuno a modo suo benefico.
Oggi è San Lorenzo. Una cena in casa di mamma Zampaglione per festeggiare il nipote Lorenzo.
Pasta alla siciliana e patate del
contadino, gualanocapo, nel dialetto del posto. Patate e peperoncini, un sapore semplice e deciso.

Attorno al tavolo una famiglia e i suoi affluenti, una sera rinfrescata sull′ampio terrazzo di casa e le stelle da qualche parte a cadere.

Prima di spegnere la luce punto la sveglia per le cinque meno venti e respiro gli ultimi fantasmi di aria in un pensiero di alba e di intimo incontro con il pianeta.
Accanto al letto i vestiti e le scarpe marroni di terre calpestate e la mia attrezzatura e il cavalletto con nei piedi le scarpe sporche delle stesse terre.
Mi sveglio nel buio e aspetto di accendere la luce. Qualche minuto e mi abituo a ciò che è tenuo, quasi impalpabile. Dalla finestra un grigiore bluastro e le stelle. Bevo un sorso di acqua e mi vesto, mi carico del necessario e guardo in alto.

Sulla cima del colle si intravede
uno spazio più scuro, un albero che dev′essere il pero e un aggrumarsi di nuvole là dietro. Procedo entrando con i piedi nel nero terreno e cammino come staccato da un mondo che conosco. Man mano che mi avvicino al vigneto ne percepisco la docilità e il suo essere senza difese. Soltanto il pero parrebbe stargli innanzi in segno di protezione e tra i suoi rami il conforto e la compagnia di canti e di voli. Per quanto breve e semplice sia stato l′arrivo sulla vetta mi sento riempito da una forte emozione, forse che il viaggio e le attese e gli incontri di alba in alba vanno sommandosi e nel piccolo spazio, nella piccolezza di un niente si schiudono energie sopite, le seconde onde di chi stremato si accorge che il corpo ancora procede senza chiedere nulla.

Lassù all′estremità di un filare la luce che cambia tra le foglie scure e i grappoli acerbi e le distese dei campi e
il movimento del cielo e dell′ammasso di nubi che a stento trattiene una forza solare di un rosso impaziente, un susseguirsi circolare di linee che scandiscono un tempo e un vento.

Resto fermo e registro qualche attimo di suono dell′oggi e dell′ora poi mi sposto e giro intorno al vigneto e guardo le prospettive e le pale che affondano gli orizzonti e riemergono e non si fermano mai.

Il vigneto nuovo, in basso, è appena raggiunto dai primi raggi del sole così la terra e il giallo che rimane nelle spighe tagliate. Poi è un caffè e un incontro di esseri umani, le prime parole vibrate dalle corde di un undici agosto. In mattinata andiamo a vedere il lavoro dei pomodori, la scelta, il pentolone sul fuoco e i barattoli pronti.
Angela e un′amica stanno togliendo parti di buccia e Nunzio controlla la cottura. Mi faccio dare un coltello e mi metto con le donne al lavoro.
Ci guardiamo e parliamo della mia provenienza e del luogo raggiunto.

Nunzio si aggiunge e inizia a parlare di campagna e di allevamento di vitelli. Che ormai più nessuno li tiene e pochi lavorano la terra, la tradizione, non sarà altro che storia e il cibo verrà solo dalle mani frettolose e sterili dell′industria, cibo di falsa bellezza e asettico e privo di sostanza.
Dove abito io hanno costruito un pilone dell′alta tensione proprio a pochi passi dal terrazzo di casa. Qui sembra che tutto debba passare senza rispetto di terra o di uomo.
Torniamo in silenzio nel gesto del lavoro, guardo i volti delle donne, le loro dita, il rosso di un′estate matura.

Passiamo in cantina e assieme a genitori e figli assaggiamo il Fiano dell′ultima vendemmia. Dentro, il battito stanco della terra mosso dal vento nervoso, un senso diritto di discesa.
Di ritorno in casa ci sediamo o restiamo in piedi nel terrazzo con gli occhi verso le punte dei colli. Il vigneto ora gode di una piena luce solare e il pero forse può concedersi un riposo dopo la notte di veglia.

Finito pranzo il cielo si riveste di nubi.
Da sotto casa gli alberi prendono a muoversi più veloci e più lontani. Sembra che anche questo pomeriggio debba cadere la pioggia. Mi avvicino alle due galline e ai due galli liberi di andare e guardo, forse per un′ultima volta, il vigneto su in alto e lui mi pare così lontano da ciò che è uomo o donna o vento o natura. Già, mi dico, lui era lì ed era lì da sempre in attesa di un risveglio o di risvegliare qualcosa.

Nerina e Pierluigi sono pronti sul trattore, li raggiungo e porto con me le macchine e saliamo al vigneto.
La luce se ne sta andando, chiedo di raccontarmi una parte di vita. Ascolto la voce seria e didattica di Pierluigi che sa prendersi improvvisi e inattesi spazi di leggero umorismo; e quella ruvida e trasognata di Nerina che partecipa e completa il racconto.

Mentre scendiamo sento di aver vissuto uno stacco da tutto, come un sonno che separa la notte dal giorno, il sogno da ciò che si puoi toccare con le mani. Torniamo per l′ultima cena da vivere assieme, attorno al tavolo, io e la famiglia e fuori il vento che mai si ferma e che muove con l′indifferenza della natura le cose che incontra.
