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8 luglio – Mario e Giulia, la duerta e de duan

Pensate, caro signore, al mondo che portate in voi, e chiamate questo pensare come volete; sia ricordo della propria infanzia o desiderio del proprio futuro, solo ponete attenzione a quello che sorge in voi, e levatelo sopra tutto quello che osservate intorno a voi. Il vostro più intimo accadere è degno di tutto il vostro amore, a esso voi dovete in qualche maniera lavorare e non perdere troppo tempo e animo a chiarire la vostra posizione di fronte agli uomini.

                                                                      R. M. Rilke

Ed è nella città degli uomini che è trascorsa la notte, là dove le strade sono ora vuote di gente e calde e umide di un sole e di un’aria imprigionati tra gli asfalti e le case e le luci dei lampioni ancora accesi. Anche nella città si attende il nuovo giorno. È un’attesa silenziosa, di qualcosa che comunque ha da capitare in ogni caso. Un’abitudine che ci si porta addosso senza quasi sentirla.

È lasciando la città, che a poco a poco il risveglio si stende e partecipa alla vita delle cose che sono attorno. È restando all’aperto e camminando o correndo o pedalando verso una terra ancora campagna che il respiro si apre come natura e può respirare quell’alba che sale dal buio e promette giorno. 

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E si sta a guardarlo il sole che nasce, senza più fretta e senza certezza.
Lo si attende nei colori sfumati che lo annunciano e lo si prende e lo si tiene come forza da portare nelle mani e nei muscoli del corpo e nel respiro irregolare della fatica.     
Giulia l’ho conosciuta alla fiera di Navelli, tra le distese di campi e appennini aquilani. L’ho guardata che stava in piedi dietro ai suoi vini accanto alla madre. Poche parole di preambolo che sembravano timidezza e poi gli assaggi, le prove di vasca della vendemmia 2014. Ho sentito, mentre bevevo, che quella voce apparteneva a quei vini e che a loro si appoggiava e diventava forte e decisa e la mia curiosità ha voluto vedere e conoscere cosa c’era dietro quel mondo. 
Ora Giulia ha le mani sul volante.        
Asti è ormai alle spalle e i fiumi e le terre del Monferrato si stanno schiarendo di luce.

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San Martino Alfieri. E da lì verso la strada per la frazione di Firano. La casa di famiglia, la cantina, le vigne, l’orto. Lasciamo la macchina spenta nei pressi dell’orto e passeggiamo lungo i filari. Giulia mi parla di loro con la stessa voce nascosta che le avevo sentito a Navelli. Le parole paiono lontane nelle pause lunghe di silenzio. Ascolto questo fluire morbido e misurato come fosse un cenno che indica senza affermare e senza spiegare. Scendiamo verso l’avvallamento seguendo le linee della vegetazione e passiamo attraverso la duerta, la porta che si apre tra le viti in un valico continuo.
In terra le tracce circolari di un animale meccanico che è passato e ha voluto lasciare un segno di perfezione e di armonia. 

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Mio padre si diverte quando ha in mano il cingolato e gira su sé stesso come fosse un bambino.
Torniamo verso la casa e beviamo un caffè con Margherita e Mario in attesa del lavoro della giornata.
Nel cortile raccogliamo un paio di zappe e scendiamo la strada grigia che sovrasta la parte di vigna piantata a Nebbiolo due anni passati.
Indossiamo le scarpe e camminiamo verso i filari portandoci l’acqua, i cappelli di paglia per il sole, la zappa.

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Sono nove filari, una quindicina di piccole viti per linea e attorno a ciascuna abbassiamo la zappa e scalziamo la terra e le erbe che sono cresciute nel tempo. Dopo tre filari beviamo dell’acqua e guardiamo gli orizzonti.

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Là c’è Govone, il suo castello. Dall’altra parte ci sarebbero le montagne ma oggi il cielo è troppo velato per vederle.
Pare di stare in un luogo isolato, senza persone intorno eppure Giulia mi dice che sente gli occhi degli uomini e delle donne che vivono nelle case vicine e si sente protetta.
Riprendiamo il lavoro, altri tre filari, un sorso d’acqua e gli ultimi tre ancora.
Ora quel piccolo pezzo di vigna appare più bello e le piante, liberate dalle erbe, possono respirare con più intensità.

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Nel cortile di casa ci togliamo le scarpe marroni di terra e giriamo la leva dell’acqua. Con la gomma in mano laviamo via la sabbia dai piedi e beviamo e ci bagniamo i capelli.
Margherita ha preparato un ragù di verdure per il piatto di riso.

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Mangiamo al tavolo grande della sala, il Nebbiolo si porta via la fatica con semplicità ancora acerba e verde.

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Mario sale le scale per guadagnarsi il riposo, Margherita riassetta la cucina e noi ci sediamo all’ombra del portico nel cortile dove l’aria è più fresca.
Guardando il cancello di casa, Giulia mi parla del suo piacere di accogliere e di lasciarsi conoscere e di portare le persone in vigneto. Poi, non ricordo, arriviamo a parlare del grappolo e dell’uva raccolta alla vendemmia.
Anche lei deve conoscere la vigna in tutte le sue parti e ascoltarla e tenerle dietro. 
Perché un grappolo devo metterlo in una botte di legno? Mica me lo chiede lui! 
E proseguiamo con la vinificazione e il passaggio generazionale, l’armonia e il contrasto con chi ha lavorato la terra prima di lei e che tutt’oggi l’aiuta con le mani e il sudore. 
L’altro giorno mio padre mi ha detto che il fine settimana sono andati a Vinadio a messa e a prendere l’acqua. Mi ha detto anche che in vigneto non c’è stato come a dirmi in modo leggero che lui pian piano sta mollando per lasciare Giulia da sola.
Vedo nel suo volto una fragilità e una determinazione che muovono insieme come venissero da un’unica terra, una espressione alla ricerca di un senso.
Andiamo ora che devo aprire le bottiglie per due svizzeri che vengono in visita per una degustazione.
Quando arrivano, camminiamo per il vigneto. Io faccio qualche foto mentre Giulia parla del territorio e delle uve.
Poi in una saletta assaggiamo le Barbere. Le Amandole 2010, fermentata in acciaio e al riposo un anno in barrique. Intensità di ciliegia. Le Rose 2008, acciaio e botte grande. Fine e profonda. Latipica 2013, acciaio. Immediata e fresca spremuta di vino con profumi di uva di vendemmia, dei tre vini è quello più suo, dove il padre le ha lasciato un pezzo di strada. Giulia cerca il dialogo con i vicini di confine, li ascolta, sorride e dice la sua con gesti e timbro marziali. 

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Stasera a letto presto che domani tiriamo i fili nella vigna accanto a dove abbiamo zappato. 
Bene, cercherò di fare il mio meglio.

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Lasciamo Firano per tornare in città e reincontrare la notte.
Dalla porta, nel buio, sento rumori d chi è sveglio e che sembra chiamarmi.
Guardo l’ora e mi accorgo che la sveglia è fallita. Succede così quando si scorda di caricarla.
Nel corridoio Giulia è lì pronta che mi aspetta e mentre usciamo e saliamo sull’auto le spiego il disguido.
Il sole sorge dalle colline proprio mentre passiamo sul ponte, ci fermiamo per uno sguardo da fermi che diventa anche foto.

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Una volta a Firano facciamo prima un giro nella vigna. Ne approfitto per registrare una parte di vissuto in mezzo alle viti più giovani che nemmeno hanno compiuto l’anno. Alla fine dei filari, sulla nostra destra, un vecchio ciliegio selvatico.  

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Nel cortile di casa, Mario sta preparando la bobina di filo metallico da legare tra i pali. Beviamo un caffè e lo aiutiamo nell’azione. Poi tutti e tre saliamo in carrozza, il motore si accende e a passo di trattore raggiungiamo la vigna del Nebbiolo.
Mario sistema la bobina sull’attrezzo da lui costruito, Giulia si mette a segnare sui pali il livello a cui deve tendersi il filo, io porto il filo lungo tutto il filare e lo avvolgo attorno all’ultimo palo mentre Mario, fermo all’inizio della fila lo tira e lo avvolge al suo palo.

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Poi lo fissiamo sui pali di dentro e passiamo al filare successivo. Così per tutta la vigna. Giulia è ora lontana, mi lascia lo spazio per parlare col padre ed io lo ascolto nella sua voce felice di raccontarsi.
Dentro la voce, un passato di azioni e di lavoro quotidiano e un piacere sincero di condivisione.

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È quasi la mezza, beviamo dell’acqua guardando la vigna ora più ordinata e infine saliamo sul trattore.
Nel tragitto verso casa la figlia attorciglia i capelli del padre formando due piccoli cornetti. Accanto alla fronte tra i capelli grigi una macchia di verde bluastro, un segno portato sul capo di un trattamento di rame.
È come se il tempo fermasse il divenire delle due generazioni, le avvicinasse per un attimo e dal sorriso di un padre compiaciuto spuntassero gli occhi pure sorridenti di un futuro naturale.

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Un attimo dove la vita sembra uscire dagli argini.                               
Nel cortile di casa, Mario mi porta nella vecchia cantina. 
Sto cercando di ripulirla, vorrei metterci della sabbia per terra e grattare via le pareti. Qui ci tengo le vecchie bottiglie, il vino di quando c’era ancora mio padre a lavorare la campagna.
È una bellezza ascoltare la sua voce che racconta la Storia.
Salendo vado con Giulia nella cantina di adesso. Assaggiamo le vasche del 2014. L’Arneis per la prima volta fermentato sulle bucce con i suoi lieviti. 

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Sta fermentando. Ha ricominciato pian piano. 
Un leggero residuo di zucchero ma è un Arneis fatto di pelle e di ossa, con i difetti e i pregi di un corpo che è identità, con un’anima calda.    
La Bonarda Piemontese, un sorso che si scioglie fresco e solleticante e che attende il cibo. La vecchia e la giovane Barbera entrambe veraci, in felice armonia di alcol ed esuberante acidità e materia calcarea. Usciamo dalla cantina con il sorriso fresco e buono, con la voglia di mangiare e le scarpe piene di sabbia della vigna. Ci mettiamo scalzi e prendiamo la gomma dell’acqua. Anche Mario ci segue nell’intento e sorrido di più guardandolo fare quello che ha fatto la figlia.                    
Prima di entrare mi fermo a toccare le rose piantate e curate da una donna dal nome di fiore.

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A tavola Margherita ha preparato tutto.
Sediamo e mangiamo augurandoci salute. Aperta sta una bottiglia con il volto paterno.

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È Barbera e Bonarda assieme. Fisso i due volti che mi stanno davanti, quello disegnato e quello reale, poi mi giro e guardo quell’altro e penso al domani, a cosa ci sarà de duan, davanti, così come dicono i piemontesi, a quando la terra avrà la voce e le mani di Giulia. 

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