
14 Mag 8 maggio – de Fermo, fato e risveglio
Le sette, il mare se ne sta tranquillo, sul marciapiedi che costeggia i bar e gli stabilimenti balneari corrono probabili e improbabili corridori solitari o in coppia.
Stefano mi aiuta a caricare le cose in auto e partiamo verso le colline.
Oggi si imbottiglia. Tutto bene? Non ti hanno creato problemi le cozze crude di ieri?
No, no, tutto bene. Cosa imbottigliamo?
Montepulciano.
Dopo una quarantina di minuti siamo a trecento metri sopra il mare. In alto la neve della Maiella e del monte Camicia, attorno, piccoli colli verdi e alberati. Loreto Aprutino.

Qui è sempre stata una questione di agricoltura. Sono terre che hanno conosciuto il lavoro incessante di uomini e donne.
Tra un campo e l’altro, vecchie costruzioni di pietra, la pietra che riposa sotto la terra di questi luoghi.
Il sogno di mia moglie… mettere apposto questa casa e venirci a stare con i figli. Sui registri della proprietà figura come casa “Finocchio” ed era usata dai contadini fino alla metà del ’900.
La prima volta che vidi la donna che sarebbe divenuta mia moglie stavo leggendo “Abelardo e Eloisa” .
Le chiesi come si chiamava e lei rispose “Eloisa” .
Poi scoprì che la famiglia possedeva delle terre coltivate a ulivo, grano e vigneto. Vidi quelle terre, ci camminai e ci camminai con senso di riscoperta.
Iniziai a conoscere la vigna dal fattore che abitava la parte ancora in buono stato della casa settecentesca della famiglia de Fermo.
L’ultima vendemmia che era entrata in quella casa risaliva agli anni cinquanta quando Carlino de Fermo chiuse la porta della cantina e se ne andò via.
Un giorno decisi di provare tutte le chiavi che erano appese all’interno di un piccolo sportello.
Ero sicuro che qualcosa ci sarebbe ancora stato.
Finalmente una chiave si mise a girare nella serratura del portone. Dentro, la prima cosa che vidi fu una Campagnola e dietro delle botti, alcune rotte altre intere.
Sul braccio di Stefano i segni di un’emozione che si rinnova ad ogni ricordo, pelle d’oca.
Ho sentito che dovevo far qualcosa. Che qualcosa mi chiamava per essere risvegliato. Era mio dovere dare un seguito alla Storia di uomini e donne che erano passati e che avevano lasciato un destino.
Lo guardo mentre cammina nel campo di favino cresciuto fino alla sua vita.
Quel destino è stato preso sul serio, lo si vede da come cresce la vigna e il grano e le spighe del Senatore.
Andiamo adesso che Matteo e Marco ci aspettano per cominciare.
E la vedo quella cantina che dopo un letargo di mezzo secolo ha ritrovato le luci che illuminano botti e vasche in cemento, e mani di uomo che portano e prendono e visitatori curiosi che assaggiano ciò che è atto a divenire, e ancora attese e sorrisi e imprecazioni e odore di vino.
La botte di Montepulciano 2013 è pronta per essere messa in bottiglia. Stefano, Marco e Matteo controllano le ultime cose e si comincia il lavoro.
Le bottiglie si riempiono a due a due, poi il tappo e infine il riposo verticale, dritto.
Tra una pausa e l’altra, aspettando che la pompa peristaltica accompagni con delicatezza il vino nell’imbottigliatrice, assaggiamo.
Il primo sorso è qualcosa in movimento, una natura che messa in moto mostra la propria elasticità muscolare, dinamica.
Col passare del tempo, un tempo breve, il vino si rimette assieme, un corpo solido e importante sorretto da fragranze di acidità e complesso.
Ancora è presto ma lui già si fa vedere per quello che potrebbe essere e batte armonico nel palato la sua intravista melodia.
È uno scorrere di fluidità. Le bottiglie si allineano mentre la botte si svuota.
Marco controlla il livello del liquido. Le sue parole di accento duro e a me quasi incomprensibile, i suoi lineamenti netti, il portamento e lo sguardo, come fossero portatori di un mondo e di un modo, un fare contadino, antichità.

Gli ultimi tappi, le ultime bottiglie, poco più di duemila alla fine e tutte intere.
Il respiro leggero dopo aver imbottigliato un’annata e la voglia di assaggiare gli altri vini per non farli sentire gelosi di non essere Montepulciano d’Abruzzo.
Allora versiamo dalle botti qualche lacrima di Cerasuolo d’Abruzzo, di Chardonnay, di Pecorino della vendemmia passata.
Il Cerasuolo entra dentro con la sua fresca e leggera riduzione e una densa atmosfera che sembra salire dalle carni rosate e affumicate di un salmone circondato da bucce d’agrume.
Il Pecorino non vede l’ora si farsi avanti con la sua spinta di onda di mare, intensa e ricca di vita.
Dei tre vini lo Chardonnay appare più sulle sue. Il suo corpo mostra una struttura complessa che deve ancora sciogliere braccia e gambe. Rannicchiato, in attesa di un tempo d’espressione diverso sussurra un canto intonato come a schiarirsi la voce prima dell’esibizione.
Torniamo in mezzo alla vigna, camminiamo tra gli ulivi e la luce assopita del giorno.
Stefano mi racconta altre storie della famiglia e della terra dove ci troviamo.
Si ferma dove vede un germoglio cresciuto troppo in basso e lo toglie dalla vite poi riprende a raccontare.
Quando cammino per queste terre mi sento anello di una catena fatta da uomini e donne che erano qui prima di me. Non so chi verrà dopo ma per ora sento la solidità e la sicurezza di stare qui a far crescere le cose, a risvegliare una casa disabitata da anni, a ridestare una parte di mondo dove altri potranno far vita.
Sulla s.s. 81 poche auto, qualche bicicletta che sale verso Ascoli, le ultime luci riflettono le bianche vette della Maiella.
Senti Stefano, domani vorrei fare una ripresa all’alba, mi piacerebbe stare qui e dormire sopra la cantina.
Sei sicuro?
Sì, sarà anche un modo per esplorare gli spazi addormentati e nascosti.
Bene, nella stanza vicino alla terrazza c’è un letto. Ci vediamo domattina, carichiamo le cose e andiamo a Navelli.
Sì, sono curioso di vederlo questo paese e di sentire l’aria di montagna.
Il sole è tramontato quando comincio a aprire le porte di spazi sconosciuti.
Accanto alla casa, le stanze che servono da magazzino e da ricovero per trattori e mezzi agricoli.
Salendo le scale incontro un portone di ferro. Dentro spazi vuoti e cassette di legno con la scritta Carlino de Fermo. Qui doveva essere il posto dove appassivano le uve.
Torno al centro del cortile e guardo la casa davanti a me.
Un senso di solidità e fermezza come a intendere che le cose sono state fatte così per restarci lungo gli anni, le vite, i terremoti, le morti.
Dentro ogni stanza nasconde un segreto.
Una seconda pelle.
Un passare del tempo.
Affacciato al terrazzo attendo il domani guardando le stelle. Non c’è paura di essere solo in un luogo, basta toccare la pietra del muro, il suo vecchio e sbiadito colore e sentire la terra da dove tutto proviene, ascoltare la voce dell’aria, prender per mano la vita e la morte.