Baldo Cappellano

E’’ morto Baldo Cappellano. Da almeno una settimana le sue condizioni erano peggiorate, al culmine di una lunga malattia.

Quando muore un amico, il mio pensiero va sempre alle persone che rimangono. Forse perché, come tanti altri, non considero la morte una perdita. I ricordi sono materiale attivo e presente, al punto da non percepire una soluzione di continuità tra il prima e il dopo. Per questo amo i cimiteri, ma non riesco ad andare ai funerali.

Nel dolore dei parenti sento una disperazione alla quale vorrei porre rimedio, soprattutto quando le attenzioni verso l’’evento si sono attenuate e per loro si apre il vuoto della quotidianità.

Sono quindi vicinissimo ad Augusto e a sua madre e ci rimarrò il più a lungo possibile.

Ho conosciuto Baldo alla fine degli anni ottanta, quando Arcigola si stava imponendo come il maggiore riferimento critico sui vini piemontesi. Era un periodo interlocutorio, Petrini stava valutando la nuova tendenza dei Barolo e Barbaresco più facili, allo stesso tempo non riusciva a mollare figure come Bartolo Mascarello che in degustazione cieca faticavano sovrastati dalla morbidezza e dalla frutta di Altare e Scavino. Carlin diceva che i “tre bicchieri” erano anche una questione «geopolitica», dunque non una semplice media numerica; per questo mi spedì a fare le schede dei “tradizionalisti”, e tra questi era annoverato proprio Cappellano, con la raccomandazione di imparare qualcosa.

Di Baldo avevo sentito parlare soprattutto da Elio Altare: i due si erano scambiati un paio di lettere attraverso un giornale albese. Con uno stile semplice e immediato, il vignaiolo dell’’Annunziata di La Morra sosteneva un’’interpretazione più breve e leggera della macerazione, perché avrebbe consentito al Nebbiolo una migliore espressività, evitando inutili durezze e oscure visceralità proprie di vini che non avevano, secondo lui, più nessuna attualità. L’’uomo di Serralunga, che aveva vissuto la prima parte della sua vita in Africa ed era quindi arrivato al Barolo attraverso una strada molto diversa, ne faceva una questione di radici culturali che non potevano essere abbandonate a se stesse, ma andavano custodite e coltivate come fossero un patrimonio materiale, attivo; scriveva con la consapevolezza di chi conosceva la storia e la letteratura dei vini albesi, convinto che il Barolo “nuovo” fosse una strada pericolosa.

Elio, che aveva sofferto l’’ottusa e sterile consuetudine paterna, non voleva sentir parlare di radici, se non di quelle dei suoi vigneti. Baldo, erede di un nome storico, stava già percorrendo un cammino a ritroso che lo avrebbe portato a piantare un Nebbiolo su piede franco.

A quel tempo frequentavo moltissimo Altare e la sua famiglia, un’’amicizia che sento ancora molto forte seppure ci si vede di meno. I suoi vini mi emozionavano, ciononostante non riuscivo a vedere il confronto tra innovatori e tradizionalisti come una reale contrapposizione, visto che amavo le imprevedibilità di Rinaldi e Giacosa e credevo in una possibile coabitazione stilistica. Quando lo dissi a Cappellano, pochi minuti dopo esserci incontrati davanti alla cantina, mi fece un sorriso sognante (chi lo ha conosciuto sa di cosa parlo) senza commentare. Dopodiché non parlammo più di vino. Mi raccontò dei suoi avi e della sua adolescenza in Africa, del suo lavoro prima di tornare in Italia e dell’’impianto di nuovi vigneti sottolineando, con encomiabile autoironia, il suo sentirsi “estraneo” alla Langa, soprattutto per le relazioni che gli apparivano ogni volta una montagna da scalare. Ricordo che andai via perplesso, pensando che non sarei mai riuscito ad “afferrare” un uomo così.

Qualche anno dopo, al principio dell’’esperienza porthosiana, tornai da Baldo e scoprii che ricordava con simpatia quella mattina d’’agosto dell’’ottantanove. E io, che temevo di dover ricominciare tutto da capo, mi ritrovai in una condizione di tale insperata familiarità da percepirne, ancora oggi, intatto il calore.

Un paio d’’anni fa Cappellano, del quale tutti sapevano l’’avversione a guide, classifiche e premi, espresse il desiderio di essere premiato da Uampi, il personaggio di fantasia che ha campeggiato nella pagina finale di alcuni numeri della nostra rivista.

Un altro abbraccio, dunque, Baldo, e il desiderio di stringere la tua mano nella quale, dice Augusto, ci sono le cicatrici di una vita gustata fino in fondo.