19 Lug Domenico Clerico
«Facciamo un pezzo di pane insieme?»
Sono le 19 di un pomeriggio d’agosto, è il 1992, abbiamo appena finito il giro della piccola cantina e Domenico c’invita a cena. «Aspetta che chiamo anche un ragazzo che sta venendo su bene, si chiama Matteo… Matteo Correggia, proprio un bravo ragazzo». Sono passati 25 anni da quella strana estate – l’autunno sarebbe stato ancora più complesso e infame – ma la voce di Domenico è intatta, vibra dentro di me con quel tono alto diventato presto proverbiale. Quel giorno nacque un’amicizia con lui e con la moglie Giuliana, la quale lo assisteva in tutto, fin nei lavori più impegnativi e pesanti, e sarebbero passati tanti «pezzi di pane» consumati a cena in tutti i ristoranti delle Langhe – solo una volta mi è riuscito di pagare, con uno stratagemma, altrimenti era impossibile mettere mano al portafoglio o avvicinarsi alla cassa. La frequentazione di Clerico e di altri vignaioli come Giorgio Rivetti, Elio Altare, Guido Fantino, Elio Grasso, Marco Parusso, Enrico Scavino, Stefano Conterno, Silvio Grasso, Luigi Scavino, Mauro Molino e Renato Corino mi ha permesso di comprendere fino in fondo il desiderio di modernità e di rivalsa che accompagnò il mondiale risveglio d’interesse verso Barolo e Barbaresco, per primi, fenomeno che coinvolse anche altre zone della provincia di Cuneo, come i Roeri, e tanta parte dell’astigiano e del Monferrato. C’erano anche i Migliorini di Rocche dei Manzoni che, pur non essendo vignaioli né langhetti, erano stati integrati alla perfezione. L’entusiasmo di Domenico, il suo desiderio di vita e di leggerezza veniva da lontano, da quando, lavorando i campi, non aveva vissuto né infanzia né adolescenza e, come altri, era diventato adulto molto presto. Se non si comprende questo non si riesce a capire la modalità esuberante e la generosità un po’ sbrasona del gruppo che a lungo è stato identificato come “Langa in”, dal nome di uno spazio che si era ritagliato al Vinitaly nel padiglione del Piemonte.
Se ci si ferma ai diradamenti feroci, alle barrique, alle brevi macerazioni con fermentazioni nel rovere nuovo e ai roto-maceratori, non si coglierà mai il senso delle loro scelte e il disegno completo e collettivo. Il perché si sono sentiti depositari della verità da contrapporre alla tradizione dei vari Cappellano, Rinaldi, Mascarello, Giacosa, ecc. La loro reazione era dovuta al senso di frustrazione e al dolore di vedere il frutto del proprio lavoro pagato il meno possibile da mediatori e commercianti con pochi scrupoli. Ecco spiegata l’umanità di Clerico, il suo vivere il presente senza lamentarsi, ma anzi l’essere animato dalla voglia di aiutare e di risolvere i problemi degli altri. Aveva accolto il benessere come un dono da condividere.
A un certo punto non sono tornato più così spesso nelle Langhe, anzi mi sono concesso lunghe pause per occuparmi d’altro, così l’amicizia con Domenico e Giuliana e alcuni del gruppo non è stata coltivata dal frequentarsi, eppure con loro due in particolare sento un legame fortissimo. Deve essere ancora quel pomeriggio dell’agosto del ’92, del quale ricordo ancora la luce e il colore verde acceso dei campi, quasi fosse primavera.
L’infogliarsi dell’albero è un getto di parole. Così le gemme sono versi e i fiori passaggi di una retorica splendente. Un discorrere tutto abbarbicato, come un amante ossessivo, alla ripetizione. Questo fantasma di un’architettura perfetta da offrire alla rugiada della notte.
Antonio Prete, da Prosodia della Natura, Feltrinelli Editore, Milano, 1993.