06 Lug Il tempo delle ginestre
Dopo Bronte si entra nel versante nord e il paesaggio assume gradualmente le sembianze di un alpeggio. Un verde scintillante prende il sopravvento, arrivano vigneti ad alberello, ferule giganti, mandorli, pinete. Anche il vulcano pare adeguarsi, abbandona l’aspetto di bel tenebroso e assume le sembianze placide di un gatto sornione. Forse non per niente, oltre a due anime, ha anche due nomi propri, Etna e Mongibello. Vicino al binario un uomo solitario conduce una vacca al pascolo.
Randazzo, a quasi ottocento metri, è capolinea. Sotto la torre del fascinoso Castello Svevo si cambia treno “al volo” per iniziare la discesa lungo il versante nord fino a rivedere il mar Jonio a Riposto, dopo aver completato il giro del vulcano. A Randazzo le vigne a controspalliera si alternano a quelle ad alberello. Passopisciaro, frazione di Castiglione, due file di case lungo la Statale 120, un solo bar, davanti alla vecchia casa dell’Anas che aspetta paziente un restauro, e due macellerie, di cui una con tre elle nell’insegna, quasi a ribadire la forza della tradizione norcina e la prossimità dei Nebrodi con i loro suini eletti. All’uscita dal paese, prima del borgo di Solicchiata, c’è l’edificio chiaro della casa di Ettore Majorana, “villa bianca” la chiamano.
L’etimo del paese richiama il Passo delle Sciare, ed è ancora ben visibile in diverse zone il passaggio della lava della famosa eruzione del 1981, che dopo avere travolto vigne strade e ferrovia si arrestò, magnanima, sulla sponda meridionale del fiume Alcantara. Passopisciaro oggi è uno degli epicentri di quel piccolo miracolo che sta diventando il vino dell’Etna, sempre di più sotto la luce dei riflettori, tanto che all’annuale, affollatissima, rassegna Contrade dell’Etna che si è tenuta alla fine di aprile nella cantina Graci dei fratelli Aiello, i produttori presenti erano oltre ottanta. Una cifra esorbitante se si pensa che solo venti anni fa le etichette etnee si potevano contare sulle dita di una sola mano. In quegli anni le luci erano puntate su altre zone della Sicilia che era vista come la “nuova California”, mentre l’Etna oggi sta vivendo una fortuna che si può definire “borgognona”. I prezzi delle uve e dei vini lievitano, le bottiglie non bastano, oltre al fatto che sono ormai diversi i produttori che vinificano e imbottigliano separatamente i cru delle varie contrade, consapevoli che sulle falde del vulcano le differenze di altitudine, esposizione e suolo sono così marcate da generare vini sensibilmente diversi. Quota mille, improvvida esclusa dal disciplinare della DOC Etna, è la frontiera già conquistata dalla viticoltura etnea. Lungo questa strada meravigliosa circondata da ginestre ciclopiche, vecchie e stupende terrazze vitate sono state recuperate o nuovi impianti fitti sono stati realizzati.
Manca ancora una mappa delle vigne, anche soltanto del versante nord, tuttavia in una terra in cui i capisaldi della storia sono scanditi dalle eruzioni vulcaniche che hanno lasciato segni indelebili e stravolto l’architettura del suolo, gli strumenti che possono aiutare a orientarsi sono le mappe delle eruzioni (molto bella quella curata dal vulcanologo Stefano Branca). Tuttavia la chiave di lettura più efficace dell’attrattivo terroir etneo è la danza degli opposti, la vita che gioca con la morte, il nero della lava con i colori vividi della natura: il rosso acceso dei papaveri nel tripudio di verde, la malva e il punto di giallo dorato perfetto della ginestra tra quello più scuro dell’alastro e più chiaro dei fiori del finocchio selvatico.
Non è un caso che i rossi più riusciti sono quelli in cui i profumi cupi e decadenti di pietra vulcanica dialogano con quelli fanciulleschi, vivissimi di frutti rossi aspri. Un dialogo fervido che si può ritrovare in molti vini del 2014, millesimo felice per il comprensorio etneo che ha portato in dote tensione e maturità. Una compiutezza che ho trovato nei vini profondi di un outsider sensibile come Eduardo Torres Acosta, in quelli di tenacissime donne etnee come Alice Bonaccorsi e Chiara Vigo (Fattorie Romeo del Castello) oltre che nei classici del maestro Salvo Foti o in quelli dai nei cru estremi di Graci. Un gioco infine che mi sembra di ritrovare nelle parole, oltre che nei vini, di Frank Cornelissen, fiammingo misterioso dal sorriso disordinato e rigore giapponese, che a quarant’anni di età si è ritirato in questi luoghi “per fare un vino e per morire”.
Arrivare sull’Etna senz’auto è possibile; farlo con i servizi della Ferrovia Circumetnea (FCE), è un’avventura meravigliosa. Tuttavia muoversi in tempi ragionevoli tra le varie contrade, visitare vigne, cantine e villaggi affidandosi solo alle proprie gambe o ai mezzi è un’impresa biblica. Quindi devo ringraziare una serie di amici che hanno atteso e gentilmente scarrozzato me e il mio immancabile contubernale Paolo Merlini, o ci hanno addirittura prestato la propria automobile permettendoci di godere della natura del vulcano fino all’ultima stilla di luce del tramonto. In particolare Dario Piluso, Antonio D’Amico, Gianluca Torrisi, Walter Speller, Patricia Tóth.