Il vino e la civiltà delle parole

Da dove nasce la necessità di descrivere il vino? E’ cambiato il modo di raccontarlo?
Una riflessione sull’uso della lingua italiana in un pezzo pubblicato dal sito della Treccani.
Un articolo scritto dal nostro direttore per l’Enciclopedia Treccani.

La ricchezza della lingua italiana offre ai critici di qualsiasi disciplina l’opportunità di non ripetersi e di evitare il ricorso esasperato a tecnicismi e a neologismi che, sempre più spesso,
allontanano lettrici e ascoltatori.

Paolo Monelli, da un’intervista radiofonica del 1961

I “Cataloghi di etichette” Bolaffi


Mi occupo di vino da ormai trent’anni e ho sempre sognato di scrivere questo pezzo. Credo che l’amore per il liquido odoroso sia nato grazie alla lettura delle descrizioni di Veronelli. A sedici anni il mio interesse non poteva essere sensoriale, avevo appena cominciato a bere (pochissimo) e il vino appariva come una bevanda “impegnativa”. Erano i tempi dei Cataloghi di etichette dell’editore Bolaffi – ai quali sarei tornato qualche anno dopo – dove le immaginifiche schede redatte dal maestro di via Sudorno fondevano i tratti del vino a quelli del produttore. Il libro a cui ero più affezionato è La Grande Cucina del maître d’hotel e celebre gastronomo Luigi Carnacina, il quale aveva affidato a Veronelli la cura di tutta la parte enologica. I vini, organizzati per regioni, avevano sia le informazioni sul disciplinare di produzione (zone, resa, invecchiamento minimo, etc.) sia la descrizione organolettica dell’autore: questa superava la banale espressione imposta dal legislatore «caratteristico, vinoso, armonico» e riportava i fondamentali tratti somatici a cui ogni appassionato poteva rivolgersi per comprendere, ad esempio, la vera identità di un Barolo: «nobile colore rosso granato, brillante; dopo 6-7 anni se ne spoglia per assumere riflessi giallognoli aranciati; ricco bouquet di viola, di goudron (catrame), liquirizia e più accentuato di rosa appassita; sapore asciutto austero, vellutato, corpo pieno, grasso, armonico, stoffa sostenuta ed elegante, eccellente». Se gli aspetti cromatici e odorosi consegnano un profilo legato all’intimo rapporto tra il vitigno Nebbiolo e il suo territorio di maggiore vocazione, i termini usati per la descrizione gustativa sono un editoriale su come “deve” essere il Barolo: austero sta per duro, tannico, e Veronelli chiariva che solo i veri amatori potevano “meritarsi” tale forma di aristocratica severità; armonico non va confuso con equilibrato, come accade nella pubblicistica e nelle normative, ma intende una ricchezza di vibrazioni, proprio come nella musica dove l’armonia ha una funzione dinamica; la stoffa sostenuta spiega lo sviluppo e lo spessore del liquido quando si distende sulla lingua; eccellente denota la precisione del linguaggio, infatti non indica solo la superiorità storica del Barolo ma mette in luce la capacità del vino di imprimersi nella nostra memoria emotiva come nessun altro è in grado di fare.

Accostamento del vino al cibo


Veronelli aveva approfondito un’altra pratica fino ad allora marginale: spiegare l’accostamento del vino al cibo, una nobilissima forma di servizio della tavola. Lavorava sulle sensazioni di entrambi i soggetti facendo emergere contrasti e assonanze, in modo che il risultato fosse una bocca pronta a ricevere di nuovo la benefica coincidenza tra un boccone e un sorso; lo definiva «un matrimonio d’amore».
L’Italia vanta lussuosi cronisti del vino già nell’antichità, Cibrario e Sante Lancerio su tutti, ma il Novecento è il secolo della scoperta di un linguaggio enogastronomico. Paolo Monelli è stato il grande e coraggioso innovatore, indimenticabile la sua descrizione del Barolo sul Ghiottone Errante, dalla quale spicca «la capacità di prender possesso del palato». Mario Soldati contava su una profonda finezza narrativa, una terminologia senza tempo e per questo sempre attuale, come dimostra un passaggio de “Un sorso di Gattinara” da Vino al vino: «Un sorso, a fior di labbro, sulla punta delle labbra. Isolarsi, intanto, concentrarsi, restare immobili, lasciare che il sapore salga al cervello, lo spirito si faccia spirito e si possa, tranquillamente, pensarlo. Un sorso: ma neppure il più piccolo sospetto di sapore zuccherino: un asciutto, un amaro tutto amaro, di un amaro gradevolissimo. Un sorso di Gattinara. Purché vero, s’intende. Non chiedo di più».

Veronelli, il vero fuoriclasse


Ma il vero fuoriclasse è stato Luigi Veronelli. A lui il merito di aver fondato la convenzione dialettica professionale, a cui tutti, dalla metà del Novecento in poi, si sono ispirati per raccontare il vino ai clienti di enoteche e ristoranti o ai lettori di libri, guide e riviste. Non a caso l’Associazione Italiana Sommelier, prima di limitarsi alla freddezza descrittiva propria del linguaggio degli enotecnici, considerava Veronelli il vero punto di riferimento, almeno fino a quando su «Il Vino», mensile dell’associazione, non scrisse la parola “sperma” per commentare il gusto di uno Champagne Vintage Krug 1976. Ricordo la rivolta degli enotecnici, ai quali non piaceva l’idea che il vino «non fosse solo vino», come invece avevo sempre pensato. Veronelli fu culturalmente emarginato dall’AIS perché la sua libertà di linguaggio impediva di poter impostare e diffondere un sistema descrittivo stabile e rassicurante, fatto di “abbastanza” e “poco” per definire le sfumature; un sistema che non permetteva in una scheda la coincidenza di “fresco” e “caldo”. Tale sterile pragmatismo, che impedisce, ancora oggi, di riconoscere la differenza tra due vini leggendone le schede, si basava su una falsa distinzione, quella tra una valutazione “tecnica” e una di “puro piacere”, come se il vino potesse vivere così, diviso. Non a caso proprio tra gli anni ottanta e novanta si diffusero una pletora di vini tecnicamente impeccabili ma incapaci di fornire la minima emozione. Un’ulteriore prova che il linguaggio della degustazione influenza l’identità e la fisionomia della produzione, come del resto confermò il periodo successivo.

Oltre la gabbia del codice unico


Molti di noi provarono a percorrere altre strade, la miniera veronelliana aspettava di essere scavata per aprire altre vene, in modo da superare il limite, la gabbia, di un codice unico e trasformarlo finalmente in un linguaggio di respiro universale. C’erano tutte le possibilità per attuare questo ambizioso progetto, quando la critica enologica mondiale fu colta dalla mania del voto, attraverso numeri e/o simboli, generando la conseguente catastrofe del premio. La consuetudine britannica di associare un voto alla scheda aveva il merito di tenere in equilibrio, anche graficamente, i due punti di vista; la tensione globale verso una comunicazione sempre più elementare spostò l’attenzione verso il punteggio, svuotando di contenuti la descrizione. Americani, tedeschi, anche i francesi e gli stessi inglesi non si sottrassero a questa modalità, perseguendo un altro obiettivo deleterio, quello di fornire alla persona consumatore, e così anche al produttore, un protocollo espressivo di riferimento, trasformato ben presto in modello qualitativo assoluto. Gli italiani non furono da meno: incapaci, ancora una volta, di sviluppare una visione propria, restarono succubi di modelli altrui, ossequiati con la scusa dell’universalità, ma in realtà con il fine di cavalcare l’onda buona e di non perdere il business immediato. La seconda parte degli anni novanta e questo scorcio d’inizio secolo sono stati desolanti dal punto di vista del nostro linguaggio del vino.

Critica o pubblicità?


Le bottiglie in circolazione si sono decuplicate e la critica ha inseguito il miraggio di assaggiare tutto, descrivere, classificare, premiare, si è persa nella miriade di etichette e ha contribuito all’abbandono del vino sfuso, mancando però nel principio fondante della sua attività: essere davvero controparte della produzione e segnalare al lettore l’appiattimento espressivo a cui il vino è andato incontro. Le schede sono diventate omaggi, strumenti per gestire il consenso, la produzione è inserzionista della stampa di settore, equilibrismi diplomatici in cui il pensiero dell’autore emerge solo attraverso il punteggio. Anni di reale conflitto di interessi tra il critico che diventa consulente del produttore, redige una guida e, addirittura, lo premia. Quale credibilità etica e linguistica dare a questi fenomeni?

«Porthos» e il linguaggio del vino (autentico)


Quando ho fondato «Porthos» non è stato difficile recuperare le istanze dei maestri, che non badavano a punteggi e premi, e lavorare per estendere il linguaggio del vino. Coincidenza ha voluto che nel panorama enologico europeo sia sorto il movimento della produzione naturale, capace finalmente di restituire al vino, all’annata e al territorio, la centralità nel pensiero e nell’azione produttiva.
È necessario, quanto salutare, sia ripensare la descrizione di queste bottiglie, dotate di un’imprevedibilità quasi dimenticata, sia riformare l’assaggio e i suoi tempi. La lentezza di alcuni campioni, la profonda oscurità dei loro profumi, capaci di svegliarsi con “puntuale” irregolarità. La componente tattile, del tutto ignorata dagli schemi degustativi, che segnala se il vino partecipa al suo sviluppo nella nostra bocca. Quest’ultima è una delle grandi novità offerte dal recupero di un vino più autentico e spontaneo; i campioni convenzionali, ottenuti da un comportamento orientato dalla chimica nel vigneto e dalla biotecnologia in cantina, appaiono immobili, vuoti, estranei proprio mentre scorrono sulla nostra lingua; è flagrante il confronto con quelli stratificati e dinamici che scaturiscono da una viticoltura viva e sana.
Sono molti i temi che sento ancora in sospeso. Rendere in altro modo la parola “vino”. E poi chiedere al lettore di porsi delle domande. Al di là delle mere logiche di marketing, cosa consegnano i critici e i giornalisti del vino? Solo un asettico resoconto di quello che hanno sentito, oppure manifestano il loro concetto di vita, la visione del mondo? Come è possibile, quando si redige una scheda e ormai si conosce il nome del produttore, mantenere la medesima distanza che c’era al momento dell’assaggio del vino? I campioni si sentono alla cieca, le schede si scrivono dopo. È giusto essere così distaccati, oppure la personalità del produttore, ciò che sappiamo sulle sue vicende di lavoro e di vita, devono influenzare il contenuto di una recensione? 
Nello scrivere questo pezzo, la mia è una posizione in evidente conflitto di interessi, perché vivo divulgando l’argomento, ma prevalgono l’amore per il linguaggio del vino e il desiderio di raccontare, per questo non ho mai pensato di delegare a un numero, a un simbolo o a un premio, ciò che penso di un sorso.