25 Mar La lettera di Giacomo Lippi, febbraio 2020
Caro Sandro,
ti scrivo perché il tuo “pezzo sui topi” mi ha fatto molto riflettere sulle posizioni velleitarie che spesso animano i progetti di vino naturale, Val Di Buri in primis.
Sembra che chi si getta in un’avventura come questa, si trovi a un bivio esistenziale, chiamato a una scelta di vita da cui dipende la salvazione del mondo! Tutto assume una valenza rivoluzionaria e cristologica e le coordinate entro cui si muove questa comunicazione sono quelle del conflitto e del sacrificio!
Ti scrivo in un momento di pausa dalla potatura, tra una luna calante e l’altra. Sto imparando che in viticoltura ce ne sono molti di questi momenti di attesa, anzi, in attesa. In attesa di potare, appunto, di vendemmiare, di trattare, di legare e così via. Si è sempre in attesa di (fare) qualcosa; anche se, nel frattempo, si sta già facendo dell’altro, di pari importanza e utilità.
Un anno fa, ci insediavamo in Valdibure da vignaioli, ma senza esserlo! Con molta arroganza e poche competenze. L’estirpazione in Sant’Alessio di un vigneto a bordo strada – una presenza antica e consueta, letteralmente sradicata, da un giorno all’altro, e trasportata chissà dove – ci obbligava, nella logica di cui sopra, a essere in prima linea, contro un nemico talmente onnipresente e ingombrante, da essere ormai incorporeo, metafisico, fantasmatico. Una dichiarazione di guerra unilaterale, da guerrilleros che occupano la terra per uno scopo più alto: fare della vigna un avamposto di civiltà naturale contro la barbarie agro-industriale che avvelena la piana di Pistoia – per inciso, nessun vivaio lo ha fin qui rimpiazzato e dubito avverrà mai, ma in quel momento era troppa l’indignazione partigiana e ci serviva un capro espiatorio che alimentasse un alibi ad agire.
In un momento, trovavamo applicato e giustificato tutto l’armamentario della comunicazione del vignaiolo artigiano-artista-naturale.
Non paghi, noi – gli ultimi arrivati – sbattevamo in faccia a tutti che eravamo migliori di loro perché il nostro progetto coincideva con la nostra vita; perché, quel progetto, che si scriveva viticultura naturale, andava, invece, letto come Lotta e Resistenza, parole importanti, del cui (ab)uso, nell’ultimo anno, mi sono quasi sempre pentito, a volte vergognato. Quasi quanto della parola naturale, che non sopporto più di leggere nemmeno sull’etichetta dell’acqua minerale.
Il peccato originale del produttore di vino (naturale) non è quello di NON avere una prospettiva politica degna di questo nome, bensì quello di poterselo permettere! E non mi riferisco all’ecologismo-ambientalismo di cui spesso è un campione (a parole). Incredibilmente, gli viene riconosciuto un attestato etico che lo pone al di là del bene e del male. Si eleva come un novello Zarathustra sulla sua montagna-azienda, certo di essere (in)seguito da adepti-clienti-appassionati in visita, a beneficio dei quali celebra la propria eucarestia, alternando la dottrina moralistica dei soliti divieti (niente chiarifica, niente filtrazioni, bassi dosaggi di SO2…) col ristoro del vino dalla botte (liturgia della parola e liturgia eucaristica in piena regola). E tutto questo, senza avvertire minimamente il peso o il disagio della responsabilità storica che il vino dovrebbe avere nei confronti dell’agricoltura tutta, data la visibilità, la centralità, il privilegio, la sopravvalutazione di cui esso – e, con lui, i territori vitivinicoli – gode da sempre agli occhi del mondo.
Si visita una vigna con la sacralità e la contrizione di un Getsemani e vi si ascoltano, incantati, tutte le variazioni possibili sul medesimo Vangelo agricolo (inerbimento, luna, preparati naturali, pochissimo rame…), perché non si fa lo stesso con un campo di patate o di cavolo nero?
Siamo partiti cercando qualche filare per farci il vino per casa e abbiamo scoperto un mondo in estinzione fatto di piccoli appezzamenti vitati residuali, da proteggere, salvare, preservare. Per cui lottare. Con cui resistere. Con cui definirci. Entusiasmo. Poi…
A questo è subentrato, quasi da subito, il disincanto della consuetudine: consuetudine del racconto, consuetudine del lavoro. Soprattutto quello della vigna, dove tutto tende – checché se ne dica – a un solo fine: allestire un’uva che sia vinificabile. In fondo in fondo, al vignaiolo, naturale o no, importa solo questo.
Quando il mezzo diventa il fine, la terra, a cui ridare dignità e decoro, (ri)acquista valore solo in funzione di qualcosa che le sta sopra; e se quel qualcosa può produrre. Questo si cela sotto la maschera della viticoltura naturale: la terra, identificata solo e soltanto nel/col vigneto, con la sua sopravvalutazione, il suo dominio, l’enfasi fissista che gli attribuiamo, su cui basiamo un marketing logoro, fatto di espressioni e parole vuote. Tra tutte, quelle che mal sopporto sono anche le più vecchie: rispetto per la pianta e terroir. Della prima mi manda in bestia l’operazione di antropomorfizzazione e il narcisismo violento che equipara uomo-cane-albero, come se al cane-albero gli fregasse qualcosa di vedersi estesi quei diritti umani del tutto ignorati per più di mezza popolazione mondiale. Ma la dignità dell’uomo non interessa a nessuno.
Nell’ultimo anno, ho visto i nostri vini insospettire e/o incuriosire, perché prodotti in un «luogo non vocato», come Pistoia; oppure, al contrario, ricevere apprezzamenti e lusinghe proprio per questo. Ecco, comunque sia, il medesimo pregiudizio: il pistoiese è un luogo non vocato alla viticoltura. Come dar torto a questa affermazione?
A parte il versante del Montalbano, ancora abbastanza vitato – ma col conto alla rovescia all’estinzione – e poche realtà produttive a nord-est, la viticoltura pistoiese è di una totale inconsistenza. Quella “di qualità” inesistente e/o per niente percepita come tale. Ma non è sempre stato così!
Fino ai primi del Novecento, il vigneto pistoiese era tra i più estesi di Toscana, con larga diffusione di varietà e cloni locali. In collina, ulivi e viti consociati dominavano economia e paesaggio agricolo. In città, gli “orti”, ovvero i vivai ortofrutticoli, propagavano e innestavano alberi da frutto e barbatelle. È a partire dagli anni cinquanta che la rapacità industriale, con cui si è colonizzata la fertile piana tra Pistoia e Prato, ha creato una sorta di gorgo che ha fagocitato la terra e trascinato nella risacca dell’oblio l’agricoltura collinare, svuotandola della componente umana e riducendola a un luogo bello e vuoto, senza nessuno a lavorarvi.
Anche l’abbandono delle campagne ha avuto nel pistoiese uno svolgimento originale e peculiare. È vero che, con la fine della mezzadria, i poderi che producevano cereali, ortaggi, frutta, vino di pianura ecc. si sono svuotati e sono stati lasciati a completare un paesaggio di rovina – come dappertutto in Toscana – a favore del ricovero cittadino nei nuovi quartieri/dormitori situati a ovest, a sud e a nord-est di Pistoia. Il fenomeno è proseguito con gli anni settanta e fino agli ultimi scampoli di urbanizzazione di fine anni ottanta. Ma è pur vero che la terra non è rimasta vuota e incolta come nel resto della regione, in attesa di quel miracolo vitivinicolo che qui non c’è stato. Essa è stata riconvertita, da subito, al vivaismo ornamentale di matrice proto-industriale che oggi la possiede interamente.
Pur non essendo, perciò, toccate fisicamente dalla presenza del vivaio, le colline a nord di Pistoia ne sono state ugualmente impattate dalla prossimità, perdendo interesse e manodopera e lasciando prosperare una nuova e ipocrita forma di incolto: una illusione di coltivazione chiamato uliveto familiare, dal quale deriva il pessimo “olio per casa” che tutti, da queste parti, consumiamo con poco gusto e molto orgoglio.
La viticoltura ha avuto qui un passato – ahimè, remoto – illustre e di storia plurimillenaria: Artimino e Caput Sana sono a un tiro di schioppo e anche il versante appenninico, dove viviamo noi, denuncia nei suoi profili a ciglioni quel riassetto agricolo (consociato) settecentesco di colonizzazione dei territori marginali, voluto dai Lorena. Anzi, i primi documenti che, attorno all’anno mille, nominano “la villa di Bagio” – dove viviamo e vogliamo produrre – riferiscono di trasferimenti alla Chiesa di terra vignata! Così come, i toponimi che circondano il paese narrano una storia che non è fatta solo di carbone, castagno e olivo (la “vignaccia”, il “vignone”, la “vigna del prete”…). Il presente vede però trionfare un’economia centralizzata e totalizzante, fatta di una monocoltura assoluta, quasi totalmente gestita in vasetto e a colpi di pesticidi e diserbanti, che genera un PIL agricolo vertiginoso, amministrato monopolisticamente da un cartello di tre gruppi.
La viticoltura del versante a sud, invece, vive tuttora una lenta agonia iniziata negli anni novanta, a causa del venir meno delle basi stesse della propria economia, fatta di prodotto da consumare sfuso e incapace com’è – salvo poche eccezioni – di riconvertirsi alla bottiglia. L’anno nuovo ha visto l’ennesima particella estirpata: era la prima di cui mi ero interessato, invano, un anno fa. Se è vero che «dove c’è vigna c’è civiltà», allora hic sunt leones e il destino delle vigne a Sant’Alessio è quello di sparire senza lasciare traccia di sé. E questo, non a causa del leviatano vivaistico, ma della nequizia dell’uomo e dell’arroganza che gli viene dalla proprietà.
Tra i pochi appezzamenti vignati superstiti – e che sono tutti degli anni settanta – i più grandi, alti e belli sono lasciati all’incolto e alla morte: una vigna abbandonata e morente assume le forme e la consistenza di una piaga, nel paesaggio e nella coscienza!
Per anni ho ritenuto che piantare una vigna fosse un male. Pensavo ai paesaggi viticoli che mi sono più familiari (Langa, Chianti, Montalcino) e a come l’intensità vitata li abbia desertificati; e la pressione degli ungulati li abbia resi concentrazionari, circondati come sono di recinzioni e chiusure, senza le quali, sembra non esserci più una viticoltura! E tutto, per un’agricoltura non di necessità, bensì edonistica. A maggior ragione, quindi, un vigneto preesistente coincide con un imperativo morale, un richiamo permanente alla custodia e alla operosità. È proprio questo che, quotidianamente e con una circolarità perfetta, rinnova il furore e l’entusiasmo iniziali, che ci fa sentire in prima linea, a lottare e resistere per qualcosa di più che un bicchiere di vino.
Dopo la vigna e la cantina, la nostra terza attività è, perciò, il girovagare per la valle in caccia di un filare, supplicando perché rimanga in piedi. Oppure selezionare con la fantasia i luoghi più adatti dove piantare del Sangiovese e dare così un esempio di virtù, che solo noi riconosciamo come tale. Se è una guerra, siamo da soli a combatterla. Anzi, più che soli siamo isolati e, forse, stiamo perdendo! Ma, a questo punto, non saprei cos’altro fare!
Ti saluto con l’affetto di sempre, anche da parte di Marina.
Giacomo