frontespizio Garoglio

“La Nuova Enologia” di Pier Giovanni Garoglio, riflessioni e spunti, 55 anni dopo

a cura di sandro sangiorgi

Sono ormai numerosi gli articoli dedicati al “gusto di topo,” vogliamo offrire un piccolo approfondimento avvalendoci di alcuni brani tratti dal libro di Pier Giovanni Garoglio stampato nel 1965 e fornito a uso didattico nelle scuole di Enologia. A suggerirci questa rilettura è l’amico Francesco Ferreri, al quale abbiamo chiesto anche di aggiungere delle considerazioni attuali e specifiche del suo territorio, Pantelleria.
Nel volume dello scienziato fiorentino – non sappiamo con quanta consapevolezza sperimentale – s’intravede l’importanza del concetto di “epigenetica”; Garoglio probabilmente non lo aveva frequentato in modo diretto, tuttavia la sua opera, soprattutto dagli anni cinquanta in poi, è pervasa dalla raccomandazione di non dimenticare il contesto ambientale se si vuole studiare la disciplina microbiologica e trarne un’utilità applicata.

frontespizio Garoglio

 

Un altro esempio che testimonia il suo sforzo nel non dettare regole assolute è nella definizione “gusto di orina di topo”, visto che contiene diverse gradazioni e non sempre coincide con la sensazione di salame rancido al quale noi la colleghiamo. Il professor Garoglio cita alcuni scienziati che hanno scritto la storia dell’enologia moderna, sia dal lato propriamente botanico, come Hermann Müller-Thurgau, sia da quello microbiologico, come Hugo Schanderl, anch’egli botanico ma che ha applicato la sua ricerca proprio al mondo dei lieviti e dei batteri.
Nei brani del professor Garoglio si fa riferimento al redossipontenziale, detto anche rH, che è il potenziale di riduzione e/o ossidazione del vino, in altre parole si potrebbe definire come la sensibilità del liquido alla riduzione, quindi al riparo dall’aria, o all’ossidazione, quindi all’esposizione all’aria.

Sui vini con “gusto di topo” o Mäusegeschmack (pagine 603 e 604)
«I vini talvolta assumono sapore e odore che ricorda quello dell’orina di topo, ed ha un retrogusto ripugnante percepibile nella parte posteriore della lingua. Esso dipenderebbe, secondo il Ribereau-Gayon, dall’acetamide (che si trova nell’orina di topo). Secondo il Müller-Thurgau e l’Osterwalder, il Bacterium Mannitopoeum, attaccando il fruttosio, sarebbe la causa di questo difetto, producendo anche acido acetico. Solo i carboni attivi possono eliminare in parte questi odori. L’azione del Bacterium si eliminerebbe mediante filtrazione sterile. Secondo Schanderl1, questa alterazione si produrrebbe invece quando vi è un’elevazione del potenziale di ossido-riduzione. Il prodotto che altera il gusto del vino sarebbe elaborato dai lieviti, sebbene la sua natura non sia però conosciuta ancora esattamente. Basterebbe abbassare il potenziale di ossido-riduzione perché l’alterazione scompaia.
«Queste esperienze trovano riscontro in ancor più recenti ricerche del Florenzano (1952) il quale ha potuto riscontrare che, variando il potenziale di ossido-riduzione in vini affetti da questa alterazione, il difetto può intensificarsi o scomparire del tutto indipendentemente dall’azione di batteri mannitici, i quali, pertanto, non si debbono ritenere responsabili del difetto stesso».

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1Schanderl nelle sue ricerche è così pervenuto alla dimostrazione che la malattia dell’odore di topo non è di origine batterica, bensì è un fatto chimico-fisico, in stretta relazione col redossipontenziale del vino. 
Tra le prove più significative che convalidano tale tesi, si possono ricordare le seguenti:
1) Vini in natura “odoranti di topo” presentano sempre alti valori dell’rH (redossipontenziale da 21 a 25).
2) L’odore di topo può essere prodotto sperimentalmente a volontà su vini normali non troppo vecchi con l’innalzamento del redossipotenziale mediante acqua ossigenata o permanganato di potassio, e può essere di nuovo allontanato in seguito all’abbassamento del valore dell’rH.
Siccome per mezzo dell’innalzamento del potenziale di ossidoriduzione non si può determinare la comparsa dell’”odore di topo” nei mosti se essi non sono fermentati, si può ritenere valida l’ipotesi che la sostanza madre determinante l’odore di topo sia un prodotto del ricambio del lievito che, per addizione di ossigeno o per deidrogenazione, è trasformato nella sgradevole sostanza che determina l’odore di topo. 
La stessa sostanza si può ritrovare anche nel pane lievitato, cotto da poco, nelle paste di lievito e nella fermentazione degli scarti delle patate e delle paste d’amido.
La sostanza che determina l’odore del topo ha un punto di ebollizione leggermente più alto dell’alcole etilico e passa quindi nel distillato del vino, accumulandosi in maggior quantità nei prodotti intermedi e di coda della distillazione. Per questi motivi i vini odoranti di topo non sono nemmeno adatti alla distilleria.

Copertina Garoglio

Sulle alterazioni microbiologiche di un vino (pagine 616-617 e 643)
[…]
«Ciò premesso, si ammette che i batteri del vino debbano essere classificatipa in due grandi gruppi a seconda che siano capaci di decomporre l’acido tartarico e la glicerina o che ne siano incapaci, qualunque sia l’acidità presente. […]
«Ne risulta che uno stesso batterio può provocare trasformazioni diverse a seconda della composizione del vino, ed inversamente batteri diversi possono in certi vini produrre la medesima trasformazione. […]
«Tutti i vini contengono sicuramente batteri, ma l’aggiunta di anidride solforosa, prima o dopo la fermentazione, anche in dosi molto piccole, quali quelle immesse nella abituale solforazione e mezzo di micce nei fusti, basta ad impedirne il loro sviluppo se non ad ucciderne le cellule. […]
«L’azione dei batteri nei vini, quando si effettua sull’acido malico con diminuzione dell’acidità, conduce più spesso ad un miglioramento della qualità, talvolta molto importante. Non è detto perciò che l’azione dei batteri nel vino sia del tutto nociva. In molti casi è difficile distinguere i batteri utili dai batteri dannosi. Tutti possono essere utili o dannosi, a seconda delle condizioni che abbiamo sommariamente discusse. […]
«Un’osservazione di carattere generale e di un certo interesse a proposito delle malattie dei vini è quella che riguarda la possibilità che, in un certo stadio particolare di modifiche microbiologiche, i vini, anziché essere danneggiati dalla coesistenza di una fermentazione parassitaria accanto alla fermentazione alcolica, possano migliorare anziché peggiorare nel complesso certe qualità organolettiche. Così è stato riscontrato talvolta che in certi vini che pure sono tendenzialmente attaccati dal girato per caratteri e microflora batterica presente, qualche tempo prima che questa malattia possa svilupparsi, presentano caratteri di finezza e di qualità speciali. Ciò può meravigliare per il fatto che, magari poco tempo dopo, il vino attaccato dalla malattia può divenire addirittura imbevibile. Se attraverso un qualunque artificio, la potenziale malattia può arrestarsi all’inizio, si può non solo non avere un deprezzamento del vino, ma talvolta perfino un miglioramento. Queste osservazioni sono per altro puramente indicative per giustificare certe determinate anomalie. Non vanno prese, naturalmente, alla lettera in quanto è bene che il cantiniere non si culli in queste ottimistiche considerazioni, sperando che il miracolo possa avere luogo di frequente».

A Pantelleria
Con lo Zibibbo siamo abituati a vinificare con pH e acidità che spesso sono simili, intorno a 4, e microbiologicamente diventa difficile gestire in tranquillità le fermentazioni spontanee. Lavorando con i Passiti questi valori appaiono normali, ma quando si fa un bianco secco da uve aromatiche i risultati rischiano di diventare grotteschi. Un minimo di volatile aiuta ad avere freschezza e a veicolare le note terpeniche, ma se presente in modo eccessivo i vini appaiono corti in bocca e amari. Se le uve sono sane, questo acido acetico non si sviluppa a opera dei lieviti, ma spesso arriva da fermentazioni eterolattiche che partono alla fine della fermentazione alcolica, o nelle fasi finali di quest’ultima, e lavorano sui pentosi e altre sostanze. Se da un lato aumenta la volatile, sullo Zibibbo si assiste a un ampliamento del profilo aromatico: mentuccia, scorze di agrumi, lime, albicocca sciroppata, canfora, rosmarino. Ma arrivano anche le tipiche puzze da batteri: la buccia di salame, il rancido. Le reintegra, le fa sue, ma bisogna seguirlo, con travasi, colmature e pulizia in cantina.

vigneto San Vito

Considerazioni attuali sugli strumenti per osservare e guidare le trasformazioni microbiologiche
Il freddo: in cantina aiuta molto a rallentare le attività microbiologiche, ma le piccole aziende non sempre ne hanno la possibilità. Fondamentale l’uso di piccoli recipienti per evitare alte temperature in fermentazione.
I travasi: la separazione della feccia grossolana il prima possibile allontana gran parte dei microrganismi che in questo modo non hanno la possibilità di moltiplicarsi ulteriormente e abbondare. Anche i continui bâtonnage della feccia fine che rimane, durante l’inverno, potrebbero riequilibrare il pH complessivo del liquido, sempre più alto in prossimità della feccia.
Le sostanze azotate: evitare l’eccessiva presenza di amminoacidi quaternari. Per questo è fondamentale la gestione del vigneto, misurando l’impiego dei concimi e dei sovesci e, soprattutto, adeguandolo alle reali necessità del terreno e non facendo un’applicazione a prescindere pensando che esista una sola vitalità e un solo azoto.
Una fermentazione vitale e regolare evita che rimangano zuccheri residui nel vino. Qualche collega ipotizza di limitare il problema con l’uso del pied de cuve, in modo da avere un lievito molto attivo sin dall’inizio, così da non permettere ai batteri di avanzare durante qualche rallentamento delle fermentazioni alcoliche. Da alcune ricerche sudafricane risulta invece indispensabile l’azione dei lieviti apiculati nelle prime fasi di fermentazione, in modo da occupare spazi che potrebbero essere presi da altri microrganismi tipo i Brettanomyces.
La solforosa: dopo la fermentazione alcolica o malolattica, un minimo di solfiti aggiunti (5-8 g/hl di metabisolfito di potassio) aiutano a tenere sotto controllo i batteri. Con pH alti la solforosa si combina quasi completamente e l’ossidazione dei solfiti porterà alla formazione dei solfati che, insieme alla presenza di K+ (ione potassio), aumenteranno la ricchezza e la persistenza del sapore.
I tannini di galla, detti anche gallici, sono quelli ceduti dal legno delle botti: sono importanti la forma e il materiale del contenitore. Lo stesso vino vinificato in acciaio e in botte usata appare diverso. Nel primo caso potrebbero comparire nel liquido intorbidimenti non omogenei chiamati onde sericee o nuvole di Ottavi (ondes soyeuses del Pasteur), mentre in botte sembra che l’azione del tannino inibisca lo sviluppo di batteriosi, nonostante il vino sia ancora sulla feccia grossolana. La stessa cosa vale se si usano parte dei raspi, nei rossi come nei bianchi.

Considerazioni attuali sul gusto di topo
Quando è solo gusto di orina di topo, e non vi sono alterazioni batteriche, la comparsa del difetto è condizionata dal potenziale ossido-riduttivo: come il pH esprime l’attività acida o alcalina di una soluzione, l’attività riduttrice o ossidante di una soluzione è indicata dall’rH. Per i vini nelle normali condizioni di conservazione, i valori dell’rH oscillano fra 18 e 20. Il potenziale del vino conservato in bottiglie ermeticamente chiuse e coricate arriva, nel termine di 3-4 mesi, al potenziale limite di rH 10. Questo spiegherebbe perché il gusto di topo potrebbe scomparire durante l’affinamento in bottiglia e ricomparire a bottiglia stappata, aumentando sempre di più nel corso delle ore successive. Interessantissima l’ipotesi del Garoglio secondo la quale la sostanza madre determinante l’odore di topo sia un prodotto del ricambio del lievito che, per addizione di ossigeno o per deidrogenazione, è trasformato nella sgradevole sostanza che determina l’odore di topo. Nel vino, nelle fasi iniziali appare in bocca con il gusto di castagna secca e il sapore amarognolo, complice magari anche l’acetaldeide non ancora legata ad altre sostanze a formare acetali o emiacetali, responsabili del tipico bouquet da invecchiamento.