Miniature di Novembre 2006

Carbone bagnato
Mentre stiamo chiudendo questa corposa news letter ci giunge una notizia.
I produttori friulani presenti al Castello di Merano, nella manifestazione dedicata ai vini naturali svoltasi il giorno prima dell’inizio del wine festival, stanno ricevendo la visita del nucleo ispettivo per la repressione delle frodi alimentari. Gli agenti arrivano forniti del volume di presentazione dell’evento con annesso elenco delle cantine partecipanti. Dalle prime notizie pare che stiano verificando che sull’etichetta non ci siano scritte informazioni “scorrette”, tipo vino naturale, vino vero o informazioni similari; ma, già che ci sono, non stanno risparmiando un’occhiatina al resto.
Siamo sinceramente orgogliosi della prontezza e della premura con cui gli ufficiali del servizio si impegnano alla ricerca delle aziende che non rispettano la legge. Allo stesso modo ci rende felici sapere che il mondo del vino, nel quale finora ha regnato un’omertà di stampo mafioso, ha finalmente deciso di denunciare le cantine e produttori che mettono in pericolo la salute di noi consumatori.

Comoda mineralità
Se negli anni settanta e ottanta andava di moda la freschezza e i novanta hanno portato in dote frutto e materia, oggi lo sport preferito dei critici, degli osservatori e dei consumatori improvvisati redattori di schede è cercare la mineralità. Il vigoroso richiamo alla terra ha avuto il suo effetto, anche perché sono pochi i vini che possono permettersi un proprio frutto, non generato in modo sintetico da interventi biotecnologici. Il punto è che non sono molti neanche i vini in grado di poter esprimere una cristallina mineralità, visto che ciò che sentiamo in un profumo è, in gran parte, di origine fermentativa (secondaria). Infatti, condividendo gli assaggi con amici, conoscenti, alunni e colleghi mi sono accorto che consideriamo minerali alcuni sentori riferibili alla cantina in cui il vino è stato prodotto. Ciò non significa che non vi siano accenni direttamente legati al suolo, al sottosuolo e al luogo – non va sottovalutata la questione climatica – ma ho la sensazione che la vena minerale la vogliamo sentire a tutti i costi, ci rassicura, ci fa pensare che il magico e misterioso passaggio dalla terra al frutto sia veramente riuscito. Giovanna Morganti mi raccontava di Giulio Gambelli, consulente di Manetti di Montevertine, che riusciva a sentire le terre del Chianti attraverso i vini a base di Sangiovese e Canaiolo: un gran talento di degustatore ma soprattutto un fine conoscitore del proprio territorio che non si sarebbe mai improvvisato ricercatore della mineralità di Serralunga o di La Morra.

Il rovere? Facile capro espiatorio
L’avevamo detto qualche anno fa che ci saremmo ritrovati a difendere i vini che sapevano di legno. O meglio, sentivamo di dover invitare le persone a non lasciarsi irretire dalle cicliche tendenze “oggi tutto legno e domani chissà…”. Le numerose degustazioni presenti su Porthos 26 mettono in luce che la questione non è “troppo legno” ma “vini non adatti” o “sostanze diverse che lasciano in eredità il gusto del rovere”. Va da sé dunque che la corretta maturazione in barrique, tonneaux, sigari e pieces dipende dalla qualità della materia che ospita il liquido, da cui l’altissima probabilità che scaturiscano vini eccezionali, se le uve lo erano. E’ sciocco pensare che un vino sia “naturale” perché non matura nel rovere nuovo, oppure che la “modernità” sia solo il passaggio in barrique. E’ sempre più difficile avere botti fatte con doghe ben stagionate, ma è possibile: lo dimostrano quei vini che dopo qualche minuto di bicchiere mostrano di aver assimilato la maturazione.
La persona consumatore oggi vorrebbe tutti i vini in cemento, domani in vetro e dopo in plastica fino a tornare all’acciaio e al rovere tra qualche decennio. Il produttore eviti di farsi prendere la mano: anni di lavoro e sperimentazione sulla maturazione del vino sono più importanti di una tendenza stagionale.

La quotidianità delle bollicine
L’articolo dedicato alla Franciacorta mette in luce un’annosa questione che riguarda tutte le zone spumantistiche del mondo. Dare una dimensione più continua al consumo per non ridurlo all’ambito festaiolo e della celebrazione. I vari consorzi, dal Cava a quello che tutela la Champagne passando per il Trento e il Cremant d’Alsace, si domandano come convincere le persone ad affezionarsi alle bollicine, ben consapevoli che non esiste una sola risposta e che il marketing dei grandi gruppi è al lavoro da tempo per magnetizzare la pubblica attenzione tutto l’anno. Non sono un esperto di questioni promozionali e commerciali, anche se mi appassionano, in queste brevi righe vorrei lasciare un paio di riflessioni che riguardano la fisionomia dei prodotti e la loro storia.
E’ noto che gli spumanti vengono concepiti in modo diverso dal vino, con meno imprevedibilità e un più forte tentativo di produrre affezione. Questo particolare fa pensare che il primo passo per ottenere la continuità sia mantenere stabile il gusto delle bottiglie. Il resto, si dice (e si vede), lo fa la pubblicità. Ciò che viene clamorosamente sottovalutato, pensando che la qualità sia l’ultimo degli aspetti di un prodotto di massa, è il farlo bene. La storia delle grandi marche dimostra il contrario, come se la massa critica riuscisse in uno slancio discriminatorio, ai più impercettibile, per determinare il successo di una tipologia. La statura del prodotto è il primo passo verso la costruzione di una tradizione.
Infine è bene ricordarsi che il consumo celebrativo e festaiolo da cui gli spumantisti vorrebbero affrancarsi – e ne avrebbero ben donde visto che le bollicine sono perfette per il cibo – da loro è stato creato! Lo scorso anno ho avuto la fortuna di visitare a Trento una mostra di pubblicità spumantistica di ogni epoca. Ebbene, era ammirevole oltre che godibilissimo lo sforzo per convincere a bere bollicine nelle feste e in ogni occasione celebrativa. Ora andrà fatto un lavoro simile per la quotidianità, sapendo che la concorrenza è totale e che il tempo aiuterà la persona consumatore a scegliere anche lo spumante. Se sarà buono.

Ascolti e visioni
Ascoltando la radio e guardando la televisione ci si accorge sempre più che il palinsesto generalista non ha più il senso del consumatore. I programmi nascono per acchiappare ascolti, di rado ciò coincide con dei contenuti non troppo superficiali, quasi sempre si tratta di contenitori vuoti. Un altro fenomeno crescente è la generazione delle proposte legate al mercato degli inserzionisti. Si dice «sta tirando il tema enogastronomico, vediamo quanti soldi possono arrivare e per attrarre i clienti facciamo un programma a posta». Inevitabile che non vi siano spontaneità, progetto culturale, vero divertimento, quando la nascita di un programma avviene in modo opposto a come dovrebbe. Di solito si dovrebbero capire quali gli argomenti e i loro interpreti, strutturare l’idea di partenza e, solo allora, cercare i soldi per realizzarla. Il vino e il cibo meriterebbero trasmissioni radiofoniche e televisive di alto profilo, capaci di raccontare la pienezza dei temi con la leggiadra bellezza che li contraddistinguono. Ciò che ascoltiamo e vediamo è noioso, falsamente ironico e fatalmente condizionato dai finanziatori. Senza alcuna eccezione.

La triste storia
La storia economica di Gambero Rosso Holding insegna che, talvolta, è proprio il modello di business a essere sbagliato.
Fidare nelle attività editoriali e negli eventi per mantenere una struttura così imponente è stato azzardato. Spettacolarizzare la cucina e il vino non basta, o perlomeno non è sufficiente a equilibrare gli investimenti fatti.
Però viene da chiedersi: se i vini li portavano i produttori e tutti pagavano il biglietto, cosa è successo? Poca gente? Margini bassi? Il costo del lavoro incide troppo?
E non basta neppure la pubblicità, non bastano le operazioni straordinarie, insomma, è proprio l’idea che non regge?
La ridda di voci che si susseguono sulla stampa ha qualcosa di comico.
Stupisce che, nel piccolo mondo del vino, nessuno si interroghi pubblicamente e seriamente sulla vicenda.
La questione, infatti, è posta in termini sorprendenti: vendono o non vendono? E a chi vendono?
Forse sarebbe meglio interrogarsi su chi può essere interessato a comprare, perché, da che mondo è mondo, chi vende un’azienda in perdita ha poco da pretendere, a parte le chiacchiere sulle grandi potenzialità etc etc.
Se lo facciamo noi, viste le note vicende legali, sembriamo vendicativi e gretti, ma la questione non è proprio secondaria, meriterebbe l’attenzione di tutto il mondo che gravita intorno al vino e al cibo.
Intanto l’affronteremo con un articolo su uno dei prossimi Porthos.