No Barrique, no Berlusconi

Il brano che segue trae origine dalle parole regalateci da Bartolo Mascarello nel 2002.

Io che sono nato qui nel vino… Comincia con parole che non sono mie, questo racconto di una chiacchierata primaverile, nel martedì in cui l’Italia, dopo vent’anni, si ferma per lo sciopero generale. Saremmo dovuti venire qua il giorno dopo, ma in fondo ha un senso esserci proprio oggi, che il paese è fermo e riflette.

Il paese, ovviamente, è Barolo, che a dire il vero proprio fermo non è. Buyers e appassionati, in rapida successione, suonano alle porte delle cantine, salutano, comprano e lesti tornano a casa, leggeri nel cuore e nel portafoglio. Noi invece resteremo per un pò, è tempo di ascoltare.
Stavolta siamo puntuali, addirittura tre minuti in anticipo. Un quarto d’ora prima si chiacchierava, Acetone ed io, con un romano inarrestabile, commerciale nel sangue e nella carne, che ci raccontava di quando batteva i marciapiedi, vendendo vino nei tempi cupi. Visti da vicino, sembravamo una metafora della Langa d’oggidì: calabro, genovese e romano che discettano di barolo, mentre l’impiegata piemontese mesce con discrezione.

Qui invece le metafore si spengono, come il motore di Brunilda nella piazza deserta, per non disturbare. Pochi metri ed ecco la porta di casa: suoniamo timidamente, aprono e ci fanno entrare, è un buon inizio. Facciamo un pò d’anticamera, com’è giusto, il nostro uomo sta parlando di politica con un ospite, è tempo d’elezioni, si scende in campo e ci si schiera, anche qui in Langa.
Nel frattempo ci guardiamo in giro, siamo nel soggiorno biblioteca. Ala intellettuale dei barolisti, dicono. E ti credo, guarda che scaffali: tutte le annate de Il Caffè, risme di Quaderni Piacentini, poi Togliatti, Longo, Marx, Liberovici, Marcuse, il più a destra è Giorgio Bocca, e ancora testi d’estetica, quella vera, e di etica. Ma non è uno show-room, le costole dei libri raccontano le mani che li hanno aperti, gli occhi che li hanno consumati, non soltanto il piumino per la polvere o il tocco distratto del visitatore.
L’attesa è breve, neanche il tempo di sfogliare qualcosa, che c’introducono nello studio, lindo e luminoso. Oltre la scrivania, un vecchio col cappello e gli occhiali: il signor Bartolo Mascarello.
Si esita a volte a dire e scrivere “vecchio”, preferendo di solito eufemismi ipocriti e gentili, di quelli che trasformano un universo concentrazionario in una residenza protetta, ma non è giornata per piroette verbali, la parola vecchio ha un significato preciso, è la nostra ansia giovanilistica a darle una sfumatura negativa, quasi da insulto, che qui è fuori luogo, fuori tempo, fuori gioco.
In principio era l’etichetta, spunto di una piccola polemica contro un colonnista inossidabile, che talvolta indigna e talvolta persino fa sorridere, ma qui, nella stanza luminosa, quelle parole sembrano lontane e sfocate, la polemica ancora più piccola, tanto che mi viene quasi da ringraziarla, quella livida penna, per avermi spinto fin qui. E allora parliamo subito della famosa etichetta, che tanto subbuglio ha portato nel piccolo mondo del vino. Non sono certo il primo a chiedere come sia andata, temo persino di annoiare, di costringere l’interlocutore all’ennesima ripetizione, ma la vecchiaia insegna la pazienza, ed il signor Mascarello con me ne ha, per questo comincia a raccontare, semplicemente.

Dell’incidente, della malattia, non parliamo per nulla, ma è qui, presente, non ci lascia un attimo, marca quel futuro che, come dice lui, è già dietro le spalle. Il distacco dalla vigna e dalla cantina – eccolo, il male che si defila e poi riappare – crea un vuoto doloroso, che le etichette, per quanto possono, provano a riempire. E’ così che quel tempo vuoto, di chi, da un giorno all’altro, è passato dalla vigna alla scrivania, si anima dei segni delle matite, di colori accesi, di paesaggi infantili e lievi, densi di simboli e richiami, tesi a rileggere anni e momenti di una vita piena.
Si respira un’aria quasi proustiana, ma ci pensa il marketing a riportarci a terra, perché le etichette da passatempo diventano cadeaux, una ogni sei bottiglie, e funzionano da subito, i clienti ne fanno collezione. Coi tedeschi, in particolare, è una piccola rivincita, erano loro a farlo correre durante la guerra, col mitra puntato dietro la schiena, ora si dannano per un’etichetta, comprano e supplicano quella per la moglie, la zia, la nonna. Guardo le matite colorate sulla scrivania, è come pensavo, le mandano i tedeschi, per gratitudine e simpatia.
Dopo anni pieni di colline fatate e damigiane volanti, coccinelle e belle donne, macchine per cucire ed autoritratti, disegnare è diventato via via più faticoso, così il segno si affina, la parola sostituisce colori e paesaggi, senza tradire la mente e l’idea.

L’etichetta incriminata nasce anche per gioco, ironica e leggera, ma a leggerla e basta sembra un proclama: no barrique, no berlusconi. Vediamola, chiedo, ed ecco che da una busta esce una colorata risma di etichette; le dita sottili sfogliano lentamente, fino a trovare quella che reca, in alto a destra, una piccola foto: indovinate di chi.
La persianina sulla foto? Così uno quando è stufo di vederlo la tira giù. Meglio del telecomando. Qui dentro non ci troverete né barrique né Berlusconi, ecco il messaggio semplice, una sorta di bugiardino alla rovescia, che riporta fedelmente le indicazioni per l’uso.
L’Enoteca Marchisio, ad Alba, la espose in piena campagna elettorale ed il caso deflagrò, grazie all’occhio vigile di certi baldi militanti. Ed arrivarono i carabinieri, con i pennacchi e con le armi, per arrestare una bottiglia, rea di non essere negli appositi spazi. Il problema non sta nell’etichetta, tanto è vero che a Predazzo le enoteche espongono bottiglie col faccione di Mussolini – per nostalgici che neanche le stappano – e nessuno dice niente, né sul vino, né sull’etichetta.
Il problema vero sta negli appositi spazi, regolamentati per legge, così da tracciare il confine tra la propaganda e l’opinione, che passa proprio da lì, pare. Il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i carabinieri, ma chissà che spasso il verbale del maresciallo, roba che manco De Sica e la Bersagliera. Infatti, come ha riconosciuto anche il suddetto maresciallo, bottiglia e cartelloni non vanno d’accordo, salvo improbabili acrobazie da carpentiere. Incidente chiuso, cortesi lettere di scuse, finisce insomma a tarallucci o giù di lì, ed ognuno la pensa come prima.
Mentre ascoltiamo il racconto, appare una bottiglia del vino di Stalin, come dice l’etichetta. E’ un lambruscaccio dei tempi di Guareschi, con tanto di fioretta, come ci fa notare Maria Teresa, la figlia onnipresente. “Non è buono come non era buono lui….” , sentenzia il padre.
E allora la querelle su destra e sinistra? Il teorema della barrique di destra come il nemico Berlusconi eccetera eccetera? La piccola polemica del sentenziante colonnista si sgonfia e si schianta nella sua pochezza, l’articolista ha scritto e pontificato, ma non ha neppure telefonato per informarsi, chissà se avrà chiesto in giro, al bar in piazza, ma no, scommetto che lui già sa, a che gli serve sapere che qui si parla di etica, quella vera, e di costume, che non è un bikini né un tanga. Il contrapporsi al conformismo imperante, rifugiarsi nell’ironia con la leggerezza dei saggi, lontano universi dalla facilità e dall’obbedienza, rifiutare il trucco e la bugia trionfanti, in politica e nel vino, nella vita, insomma: tutto questo può sembrare una chiave di lettura che supera l’intenzione dell’autore. Lo so persino io che il fruitore dell’opera interagisce con l’opera stessa, la interpreta e l’arricchisce talvolta di nuovi significati, ma come suonano vuote le semplificazioni da sapientino, le schematizzazioni banali e manichee, buone per le copertine patinate e nulla più, per non dire degli inviti a non disturbare il manovratore, a fare vino senza sconfinare, ché il panettiere deve fare il suo mestiere, sennò il giornalista mette tutti in riga, con qualche colonna ben piazzata dall’alto del suo caregùn.

Già, i giornalisti. Difficile il rapporto coi giornalisti enoici, come dice lui (sono io a leggere l’ironia del termine, che associo a “non eroici”? Quien sabe), scrivono quello che vogliono, tagliano, cuciono e non fanno i vignaioli, non ne sanno nulla.
Nella migliore delle ipotesi tacciono oppure omettono, come quella tapina che lo intervistò a proposito di un controverso provvedimento della UE sugli OGM e la vite. La risposta del Bartolo era chiara: se i rappresentanti italiani hanno avallato questo (il provvedimento sugli OGM e la vite) non li riconosco più come tali. Il servizio, per quanto ovvio, non riportò quella frase, per la quale la troupe si era avventurata sino a Barolo.
E non gli va meglio con i grandi nomi, enoici pure loro, a cominciare da quello che anni fa, compilando una guida, per un vino suo ed uno di Giacomo Conterno scomodò niente meno che il letame. Questa al Bartolo ancora non va giù, specie se scritta da chi, con la modica spesa di un francobollo e lo sforzo di ricerca di un questionario, pretende di conoscere un’azienda e soprattutto di giudicarla. Il passo è breve, secondo logica: chi autorizza i nuovi Soloni a giudicare? Chi sono costoro per giudicare il lavoro di un’azienda? Chi giudica i giudici?
Una volta c’erano i professori, si sapeva chi erano ed avevano un’autorità riconosciuta; oggi ci sono i giornalisti enoici, sedicenti esperti… E sottolinea sedicenti, il Bartolo, ma stavolta l’ironia si legge anche negli occhi.
Un altro passetto e siamo alle guide dei vini, che escono tutti gli anni, almeno fossero biennali, invece no, ogni anno arrivano inesorabili, peggio del Natale. Lo dice chi non ha mai risposto docilmente ai fischi che facevano da Brà, eppure sa quanto sia difficile rinunciare alle guide, molti si dibattono fra l’esserci ed il non esserci, perché se è vero che i premi moltiplicano il venduto, è così che i produttori si conformano alle guide, aderendo alla loro filosofia e diventando sudditi di esse e del mercato. Del resto, in Francia è lo stesso, classifiche, punti e premi, in un’esaltazione gridata del competere e vincere, che al Bartolo non sembra piacere per nulla.
Il vantaggio delle guide è che costano poco, per quei pochi soldi ti evitano l’attesa, lo sforzo, la riflessione, mentre andrebbero usate per quello che sono: un elenco, un indirizzario, non una scorciatoia per la conoscenza, che ha bisogno di tempo, di pazienza, di umiltà.
La barrique, guarda caso, accorcia i tempi, la gente stappa e non riflette, sbicchiera e non riflette, non attende, non ha pazienza, corre e va veloce, Dio sa dove, se c’è.
Si vende il barolo come la birra, dice lui con amarezza, ed io penso al paradosso del wine bar, che dovrebbe celebrare il santo invece di bruciarlo sulla pira, quella del consumo veloce ed immediato, versane un altro, oste.
Una volta era diverso, il Barolo si vendeva in damigiane, quelle che ora io vedo volare sulle etichette, come leggiadre mongolfiere, e che lui, da giovane, faceva volare dal camion. Al ristorante Il Cambio di Torino, la damigiana di barolo Mascarello arrivava con un sacchetto di etichette, ci pensava il cantiniere del locale ad imbottigliare, sulla fiducia. C’era anche qualche truffatore, ovvio, e dai ricordi del Bartolo spunta un genovese: Acetone ed io abbozziamo un sorrisetto, sto per dire che è acqua passata, ma sarebbe peggio, parliamo d’altro, anzi no.
Oggi si vende tutto in bottiglia, in damigiana ci finiscono solo barbera e dolcetto, del Barolo invece si fanno selezioni, riserve ed accidenti vari. Veronelli ha indicato la strada, afferma il Bartolo, una volta c’era un solo barolo, non quello di serie a e quello di serie b, coi cru alla francese. Persino il termine cru abbiamo dovuto importare, da noi non esisteva. Guardatevi le bottiglie di vent’anni fa e capirete.
Fosse facile, io non ho tanta memoria né cotanto vissuto in cui guardare, ma Acetone trasale e chiede: chi conosce il vino che si faceva dieci anni fa? Chi sa definire e riconoscere la tipicità e la specificità, ad esempio del Barolo? I ragazzi che oggi scoprono il vino sono circondati da sciroppi da competizione, asfalti liquidi, concentrati di furbizia ed altre nefandezze, e sono portati a credere che quelli odierni siano i paradigmi, senza conoscere la storia. Vero è che, secondo il poeta, la storia non è maestra di nulla che ci riguardi, ma Acetone la pensa diversamente: certo barolo d’oggi sta al barolo di ieri come la nutella sta al cioccolato, sentenzia sicuro. La nutella piace e guarda caso la fanno ad Alba, dico io, riflettiamoci.
Una volta era diverso, una volta fare barolo era fatica, oggi è bìsness.
Parole dette con un fondo d’amarezza, suonano severe, sanno di rimpianto per il passato e per la giovinezza, ma anche di giudizio morale sul presente, dall’alto monte della vecchiaia, nella chiara luce della stanza che ci ospita.
Sono lontani, per fortuna, i tempi della miseria del mezzadro, che di suo aveva solo le mani. Se il raccolto andava male, il padrone si salvava, il mezzadro no. La grandine portava all’emigrazione, dalla Langa verso Genova, la Francia, l’Argentina, oggi no, la Langa è ricca ed ha bisogno di braccia, serbe, macedoni, albanesi, purchessia.
Tuttavia, come ognun sa, c’è differenza tra sviluppo e progresso: “I nostri padri non avevano ruspe e trattori, certo, ma ci hanno lasciato un territorio integro. E noi?” Pensate al Moscato, per carità. Una storia come tante in Italia, un prodotto di punta, tanto di punta che sfonda, col beneplacito di tutti, vignaioli, commercianti, politici e chi sa chi altri. Le vigne arrivano fino alla strada, manca solo che innestino i paracarri, un’unica gran vite dal fondo valle fin su, in cima alle colline, passando per il Belbo, che quasi quasi …. Quando poi il mercato ha detto stop, come il Big Ben di Enzo Tortora, ecco l’intervento statale, a salvare posti di lavoro e vendemmie inutili.
Il piccolo produttore non può fare moscato, la tecnologia costa, ma ora non è facile neppure l’espianto, mentre il mercato continua ad autoregolarsi, cioè a punire. Ci arriveremo anche a Barolo? Nebbiolo sui terrazzi, nei vasi e nelle vasche da bagno? Si scrive bisness, si legge assalto al territorio, ed ha i colori birulò del capannone che accoglie i visitatori a Barolo, la famigerata cantina Terre da Vino, incubo del cugino Beppe. In casa ci sono ancora i cartelli dalla manifestazione, quattro gatti arrabbiati che hanno fatto notizia, da quando il barolo, nel bene e nel male, fa notizia. Eppure il sindaco ha firmato i documenti e le autorizzazioni per quella cantina, ed il sindaco non si elegge da solo, vuol dire che ai barolesi piace così, viva la democrazia. Così la famigerata cantina, da Moriondo Torinese, che nessuno sa dove sia, arriva a Barolo e s’ingentilisce i lombi; come dice Pablita, se la ricuce, s’inventa un albero genealogico di antenati illustri, da santificare nel capannone a strisce, dall’inconfondibile stile aeroportuale. La necessità del consenso ed il consenso per necessità, sono le contraddizioni della politica, in Toscana non è diverso, ironizza il Bartolo.

Il vino non è solo vino, per questo parliamo anche di libri e di coccinelle, un altro dei temi che ricorrono sovente sulle etichette.
Oggi le stagioni non si capiscono, viviamo di piogge e di grandi siccità, le farfalle non ci sono più, grazie ai pesticidi, le coccinelle, invece, sono tornate e si mangiano le uova degli acari, regolandone la presenza sulle foglie di vite. Ci sono voluti pochi mesi per liberarsene, tante grazie alla Bayer per averle sterminate coi suoi prodotti. Interrotti i trattamenti e trascorsi alcuni anni, riecco le coccinelle. Adesso in vigna siamo di nuovo all’antico, solo lo zolfo per l’oidio ed il solfato di rame contro la peronospora, con buona pace della Bayer.
I libri invece si leggevano in vigna, così come quelle riviste, e da vecchio, lo diciamo tutti, ci sarà il tempo per rileggere con calma, senza l’assillo del lavoro urgente, del tempo che manca, della giornata che finisce.
Conoscere, conoscere. Un uomo curioso, lo attira la fotografia digitale, che un bancario volonteroso ha usato per eternare le etichette, sempre loro; vorrebbe una spiegazione e noi gliela diamo, come possiamo. Alla fine è contento e ringrazia, prima di congedarci.
Umiltà, fatica, attesa: la dimensione morale del lavoro. Anche questo potremmo imparare dai vecchi, se non fosse che rompono le scatole col loro parlare del passato, una volta questo, una volta quello, e basta con questo una volta, lo dice persino lui, raccontando dei dialoghi con il padre. Ma il ruolo dei vecchi è anche questo, in un mondo che ne disconosce l’esperienza, sottraendole valore con la sua iperdinamicità. Se tutto cambia in fretta, ciò che sanno i vecchi è inutile quanto e più di loro, per noi che non li sappiamo ascoltare e soprattutto non li vogliamo tra i piedi. Così facendo, non ci ricorderanno come la vita sia sempre la stessa, come non s’inventa mai nulla, come non sia solo dei giovani la voglia di sognare, quella che ci fa dimenticare che la vita è fatta solo di giornate ad aspettare, dentro e fuori delle stanze luminose.

Prima di andar via, facciamo un giro nella cantina sotto casa, accompagnati da Maria Teresa, la figlia e continuatrice del lavoro in azienda. Donna custode, guardiana della tradizione, si è trovata in età già adulta a ricoprire un ruolo difficile; mi ricorda altri giovani di questa Langa, ebbra di gloria e di denaro, ma anche tenace e severa. Responsabilità su spalle piccole ma certo non fragili, studiava lingue a Torino, tutto un altro percorso, dice sorridendo, adesso pratichi a Barolo, dico io, coi tedeschi, sempre loro, che vogliono il Rabatt.
Meglio comunque dei coetanei locali, veri anatomisti del vino, a cena con loro non si beve mai, si scompongono i vini nelle loro qualità, ma sotto sotto si cercano i difetti. “Si girano ‘sti bicchieri… e basta, che palle.”
Maria Teresa non ci stupisce con aromi di viola e cacao, sentori di liquirizia e lontananze d’abete, in fondo è solo vino, il nonno lo faceva così, papà lo faceva così e adesso tocca a lei, che ama stare in vigna, dove non ci sono clienti questuanti, né telefoni né fax, solo lei e l’enologo, un giovane che non è stato facile trovare. In un caso ha telefonato la mamma del candidato, che evidentemente aveva di meglio da fare, beato lui: c’è forse da lavorare in campagna? Figuriamoci, allora no… Già, il vino si fa anche in campagna, senza camice bianco e provette, ma chi lo dice a queste povere mamme, che hanno fatto studiare i bambinoni per rinchiuderli nelle cantine cromate di qualche californiano verace?
Siamo ai saluti, è la fine della visita e del giro in cantina, quando ammutolisco davanti ad un altro scaffale: centinaia di magnum miei coetanei, impilati con ordine, si affinano quieti, un velo di polvere la sola etichetta. Arrivederci, ragazzi.