Nostalgia, ma di futuro

Non è vero che la storia dell’essere umano è un percorso continuo verso il miglioramento. Credo piuttosto che il progresso avvenga a strappi, che l’uomo proceda tentoni alternando periodi di sviluppo ad altri di decadenza. È difficile argomentare senza dilungarsi in approfondimenti sociologici ma ho soltanto una sensazione: vorrei esser nato vent’anni prima.

È un’opinione tutt’altro che desueta: Woody Allen ci ha fatto un film poco tempo fa (Midnight in Paris) e capita spesso di sentir dire che, banalmente, si stava meglio una volta alludendo a un generico periodo del passato quando il protagonista era un giovane nel pieno delle sue passioni. Ma una volta, quando? La mia non è una sommaria proiezione verso il passato. Intendo proprio gli anni sessanta e settanta.

Certo, buona parte di coloro i quali hanno vissuto in quel periodo potrebbe elencarne numerosi contrasti: l’autoritarismo clerico-borghese, gli anni di piombo e le crisi petrolifere dei settanta, le tensioni tra occidente e blocco sovietico. Ne convengo. Problemi ce ne sono in ogni epoca e ognuna contiene opportunità e conflitti, sono consapevole che leggere il passato alla luce di un presente difficile possa portare a travisare. Tengo presente, inoltre, che tra i giovani contestatori di allora dilagava una sorta di caricaturale conformismo rivoluzionario.

Tuttavia possiamo ritrovare il fermento di quegli anni nei sommovimenti sociali, molti dei quali partiti dal basso e nell’assottigliamento delle differenze tra ricchi e poveri, grazie anche ai risultati delle politiche keynesiane e all’onda lunga del New Deal. Hanno fatto da contrapposizione a questo scenario macroeconomico il monetarismo e la dottrina di Friedman che avrebbero invertito la tendenza e trovato espressione politica dagli anni ottanta. Gli effetti conclusivi di quella reazione li stiamo vivendo proprio oggi.

Possiamo ragionevolmente guardare al passato per ritrovare in esso la maggiore realizzazione d’istanze come l’uguaglianza, la diffusione del benessere, l’espansione dei diritti. Paul Krugman, Nobel per l’Economia nel 2008, è tra i maggiori sostenitori di questo punto di vista e ultimamente anche in Europa molti hanno capito la verità di questo pensiero.

Non ne faccio solo un caso di corsi economici, pur considerando l’importanza che questi rivestono nella storia dell’uomo. Ciò che avrei voluto vivere è il senso che un giovane di quarant’anni fa aveva del futuro. L’ottimismo, il sogno. Se di nostalgia possiamo parlare, sentimento spesso proteso verso l’assenza, la mia è nostalgia del futuro, di una certa idea di futuro.

Nessuna generazione ha ascoltato con convinzione la musica dei propri padri come accade a quella attuale. Ascoltiamo la musica di quegli anni, tuttora ineguagliato e imprescindibile punto di partenza per ogni autore di oggi, nei quali blues, rock e altri generi musicali hanno espresso vette insuperate. Genesis, Pink Floyd, The Doors, Jimi Hendrix e la lista dei gruppi potrebbe essere enorme, continuano a segnare nei cuori degli adolescenti solchi profondi come quelli che dai vinili, tornati oggi in voga, diffondono nell’aria le note di Ticket to ride. Il “biglietto per partire” dei Beatles mi appare come un clamoroso manifesto di quell’atmosfera. Tenetevi pronti, sembra voler dire, perché il cambiamento è alle porte e potreste essere proprio voi a determinarlo, con le vostre idee, la vostra energia e il vostro bisogno di divertirvi, di essere ascoltati, di amare. Si spogliarono, non solo metaforicamente, prima le donne e poi gli uomini per abbandonare retaggi di un passato che sembrava lontano anni luce.

È pur vero che l’oggi è avaro di fantasia, di un’idea di futuro e pertanto divora le proprie radici, gli anni sessanta e settanta, relegandole a feticcio e deformandole. Non è il sentimentalismo che mi spinge a guardare al passato, avrei anzi una naturale propensione al futuro, bensì il bisogno di concentrarmi su un nucleo positivo, quale mi sembra l’essenza di quel periodo.

Provo a far miei quei sentimenti e cerco di spronare, sulle note di Bob Dylan, chiunque si pianga addosso. Ma ho quasi quarant’anni e, come me, i miei coetanei tengono famiglia. Come potremmo esprimere la forza dirompente del cambiamento? Stiamo passando dall’essere rivoluzionari (mancati) a conservatori (disperati). La mia è una generazione di passaggio, il cui contributo è forse solo la tentata gestione della complessità degli stimoli, della frammentazione, della società composta da individui isolati e senza prospettiva. Nessuno slancio vitalistico verso il futuro né tantomeno una propensione corale. Nella migliore delle ipotesi, la missione della nostra generazione è preparare la prossima a essere pulsione di cambiamento. Nei giorni migliori mi sforzo di convincere i miei amici che il dolore va collettivizzato perché l’isolamento ci indebolisce, che l’ambiente va protetto, il consumismo ridimensionato, che è giusto pretendere un cambiamento.

Ci lamentiamo quando siamo davanti alla televisione mentre guardiamo l’ennesimo reportage in cui uno dei pochi giornalisti che non ha perduto la voce ci descrive la realtà. In che misura saremmo disposti a mettere in discussione quel (poco) che abbiamo per fare la “rivoluzione”? Perché per cambiare, occorre essere disposti a perdere qualcosa. Ma poi spegniamo la tivvù e andiamo a letto: domani è un altro giorno da consumare in un lavoro che ci sta stretto ma che garantisce l’acquisto dello smartphone all’ultimo grido.

A volte incontro persone con le quali condividere i miei pensieri: i miei amici e coloro con i quali amo condividere il vino della mia cantina e immagino, come in una soggettiva hitchcockiana, una cena tra di noi. Sorridiamo mesti all’ironia cinica di una battuta, alziamo i calici e il vino ci conforta mentre fuori dalle finestre, fra le strade spazzate dal vento nuovo, la storia ci sta già giudicando.