Miniature di Gennaio 2012

L’invenzione della gioia

A quasi un anno dalla pubblicazione del libro, sento il dovere di ringraziare tutte le persone che compongono la comunità porthosiana.

In molti hanno comprato più di una copia convinti che fosse un regalo riuscito.
Ne abbiamo stampate tremila, ne rimangono poco più di duecento. Purtroppo l’incasso non è stato così gratificante come potrebbe apparire da un primo semplice calcolo; inoltre, si è trattato di un libro costoso da realizzare, molte copie sono state donate per promuoverne la diffusione, di conseguenza il guadagno per la casa editrice si sta rivelando meno brillante di quanto avrei immaginato.
Ma non me ne dolgo, in fondo questa prima esperienza ha generato errori di valutazione che sicuramente ci aiuteranno in futuro.
Per non parlare delle soddisfazioni ricevute durante le presentazioni, a cominciare dalla prima qui a Roma il 7 febbraio 2011, un giorno indimenticabile. I protagonisti principali di questa avventura, Gianpaolo Di Gangi, Rosalia Fusco e Simona Centi, non lavorano più con me.
Le ragioni sono diverse e non è questa l’occasione per trattarle; rimane invece la loro splendida opera, della quale si percepisce sempre più l’importanza a mano a mano che L’invenzione “matura” tra le mani dei lettori. Le intuizioni grafiche e la maniacale cura di Gianpaolo per tutti i dettagli, la perseveranza e il talento di Rosalia nel lavoro di editing, la determinazione e la disciplina di Simona nelle ricerche e nell’organizzazione: sento di essere stato fortunato e mi auguro di poter vivere in futuro un’altra coincidenza così virtuosa. Nonostante tutti gli sforzi, com’era prevedibile visti i tempi ai quali ho costretto la redazione, il libro contiene numerosi refusi e diverse lacune; per questo motivo ho previsto un’edizione corretta e aggiornata che potrebbe vedere la luce dopo l’estate.
Le richieste da parte del nostro prezioso distributore, Unicopli, e delle numerose librerie che ci hanno conosciuto in questi mesi incoraggerebbero una ristampa, sono però certo che me ne pentirei. Un libro, come un articolo o una rivista, va difeso anche se difettoso, visto che lo si è realizzato con la mente e con il cuore; ma per me è impensabile ripubblicarlo consapevole di poter fare meglio.

Ricordi

Questa miniatura è un omaggio ad alcune persone che se ne sono andate negli ultimi diciotto mesi.
Si tratta di ricordi sparsi che non hanno l’ambizione di essere esaustivi; mi piace l’idea che gli affezionati frequentatori del sito di Porthos possano aver conosciuto queste persone e così condividere i propri sentimenti. Ma anche coloro che prima di oggi ne ignoravano l’identità avranno l’occasione di sperimentare la cultura in un senso meno usuale.
Dal momento che le persone da ricordare non sono poche, e non mi sento di inserirle tutti qui, voglio inaugurare una consuetudine e mi riprometto di continuare sin dalla miniatura di febbraio.

Ho conosciuto Ninni Fiandaca e Annalisa Sagona a metà degli anni novanta e da quel momento sono rimasti per sempre miei alunni. I corsi realizzati a Palermo in quel periodo mi hanno permesso d’incontrare persone determinanti per la mia crescita umana e professionale.
Donne e uomini che per fortuna hanno ancora una parte attiva nella mia vita, esattamente quello che sarebbe successo ad Annalisa e Ninni se fossero qui. In modi diversi hanno saputo prendere la parte migliore di me.

Paolo Poli è stato invece un alunno di Roma, lui genovese e fervido genoano, quando ancora tenevo lezioni all’AIS, quindi nel cuore degli anni ottanta. Impossibile per me dimenticare i suoi esami di primo e terzo livello, il suo desiderio era lavorare nel vino dunque studiava come un pazzo; tra i suoi compagni di corso che preparavano con me l’esame da professionisti c’erano, per esempio, Sergio dell’enoteca “Il goccetto” e Antonio Ciminelli del ristorante “La Torre” di Fiuggi, una classe di alto profilo… Paolo era il sommelier del Bacaro, un locale del centro di Roma che, in anticipo sui tempi, aveva inaugurato la stagione della scoperta enogastronomica come esperienza culturale.
Tra le serate che rimangono intatte nella memoria, la cena del 18 dicembre 1986 alla quale parteciparono gli stati maggiori di Arcigola e del nascente Gambero Rosso, quindi non certo dei parvenu; ebbene Paolo riuscì nel compito di stupirci ed emozionarci.
Con Francesco Arrigoni ho condiviso alcune degustazioni in momenti diversi delle nostre rispettive carriere, dunque non è corretto parlare di amicizia, nel vero senso del termine. Provo però un debito di riconoscenza. Per ben due volte fui chiamato a sostituirlo come responsabile regionale della Guida ai vini d’Italia. Prima in Veneto, dove sarei rimasto fino al 1999, poi in Trentino, che curai per due anni.
Ebbene, ho imparato moltissimo da quello che aveva scritto e da ciò che aveva lasciato in eredità, nonostante le polemiche sollevate dal suo presunto carattere difficile.
A quei tempi Francesco aveva un’invidiabile capacità di lettura del vino come espressione territoriale e quale parte determinante di un tessuto sociale in rapida trasformazione; fanno testo, ad esempio, le sue intuizioni sull’appiattimento qualitativo che la Valpolicella avrebbe subito puntando tutto sull’Amarone.

Esaurire un compito

Non è stato facile spiegare in una miniatura tutte le riflessioni legate alla decisione di interrompere la pubblicazione di Porthos.
Ed è altrettanto difficile tenere a bada e riassumere le emozioni provate nelle ore e nei giorni successivi. Soprattutto alla luce di alcune visite, email e telefonate di amiche e amici che, volendo «sentire come stavo…», hanno sollecitato un ulteriore approfondimento.
Per la cronaca, sto bene e metto da parte diversi appunti per l’editoriale del numero 37. Intanto, ho pensato di pubblicare sul sito le lettere di persone, come Andrea Barbaccia, che in questi anni hanno mostrato di tenere al nostro lavoro.

Ringrazio alcuni colleghi per la stima e per l’incoraggiamento a unire le forze e a condividere progetti.
Temo però che per me non sia ancora tempo.
Ho lavorato sovente da solo e, quando sono stato sorretto da una Ciurma nutrita e agguerrita, ho tenuto alla responsabilità del gruppo; sento quindi un’incapacità cronica a far parte di un’idea senza esserne la guida. Dal momento che non considero il mio carattere come “ineluttabile”, immagino che ci sarà spazio per un ripensamento del modo di essere e di fare, tuttavia vivo ancora slanci irresistibili, quindi se accettassi rischierei di complicare le cose.
Comprendo lo stupore di molti ai quali non sembra vero che dopo Porthos 37 io riesca a rimanere senza questo pensiero.
In effetti, per molto tempo, neanche io l’ho creduto possibile.
Damiano mi ha sempre detto che sarebbe arrivato il momento della fine sana di un progetto. Oggi mi sembra naturale. In fondo, una rivista non è una figlia, verso la quale si rimane genitori per sempre, anche quando è lei, la figlia, a diventare genitore dei propri genitori.
La rivista è un amore che sta tramontando attraverso un luminoso crepuscolo; il dolore della mancanza si attenuerà e così ricorderò solo le cose belle.
Sono felice di averla fatta, perché Porthos è sempre stata un privilegio per chi come me era cresciuto nel sogno di un’associazione indipendente, capace di pubblicare una rivista senza padroni.
E, nel mio caso, il risveglio è stato più bello del sogno.

E poi sento di aver esaurito un compito.
Si deve avere la forza di riconoscere quando è il momento di fermarsi a pensare a cosa si vuole davvero fare, a come procedere. Ho troppa voglia di studiare per insegnare, credo di aver bisogno di un altro metodo che meglio si attagli alla vita e alle ambizioni che coltivo.
E quando ciò accade senza certezze e senza un reddito sicuro, il desiderio diventa un carburante straordinario: la fame non si è esaurita, è tempo di nutrirsi in maniera differente, migliore.


Forse la comprensione della nostra finitudine è l’unico modo che abbiamo di accedere alla totalità che ci invita e ci conquista, creando in noi una sproporzionata ambizione totalizzante. Forse qualsiasi esperienza di infinità è un’illusione, quando non è, in realtà, un’esperienza di finitudine. E forse la misura della nostra lettura dovrebbe, dunque, essere non il numero di libri che abbiamo letto, bensì lo stato in cui ci lasciano.

di Gabriel Zaid da I troppi libri. Leggere e pubblicare in un’epoca di abbondanza, Jaka Book, Milano 2005

*Foto di Giampi Giacobbo