24 Giu Storia del fumetto II – Dialogo tra Sandro Sangiorgi e Sergio Rossi
II puntata
a cura di Elisa Pantaleoni
Biblioteca Delle Nuvole, Perugia
Sandro – Tu ritieni che uno dei motivi per cui i bambini sono protagonisti del fumetto, soprattutto all’inizio sia il fatto che sono più duttili da un punto di vista narrativo, perché più imprevedibili?
Sergio – Certo. Ci sono comunque molti adulti, protagonisti già delle prime strisce; la separazione tra adulti e ragazzi è molto labile. Quello che traspare dai fumetti è la vita vera: i ragazzi che lavorano, non sono protetti, conducono una vita da adulti e muoiono frequentemente; tutto ciò è normale. In molti casi le strisce hanno un riflesso politico, adulto: nella serie di articoli contenuta nei dieci volumi dell’Enciclopedia delle Strisce edita da Panini e allegata a Repubblica ho mostrato come la storia, la vita quotidiana, gli usi e costumi degli Stati Uniti siano riflessi quotidiniamente nelle strisce pubblicate nei periodici.
A proposito degli Stati Uniti, questo è il Paese che dà maggiore slancio alla diffusione del fumetto: è un periodo di forte sperimentazione, sotto il profilo della sceneggiatura, dei formati e c’è una libertà totale perché non si sa bene che cosa si sta facendo, l’unico obiettivo è quello di stampare. Ne è una prova Upside-Down, dell’olandese Gustave Verbeek: una storia i cui protagonisti sono un uomo e una donna che hanno delle vicende totalmente folli. La particolarità di questo fumetto è che la storia si sviluppa su due strisce da otto vignette, che continua se il lettore gira il giornale a testa in giù, quindi ci sono le didascalie sia sopra che sotto. Il disegno sembra quasi un gioco psicologico, infatti questo fumetto durerà molto poco, perché è davvero impossibile creare con una certa continuità nuove storie.
Poi ci sono due grandi sperimentatori, Feininger – che fa The Kin-der-Kids e Il mondo di Wee Willie Winkie, in cui bambini folli hanno avventure di tutti i colori (c’è una tavola bellissima con un tramonto e i raggi del sole che diventano mani, prendono le nuvole e se le chiudono sopra come se fosse una coperta, i comignoli e le finestre che sbadigliano e il mondo che va a letto) – e McKay, con i già citati Sogno di un mangiatore di crostini di formaggio, Little Sammy Sneeze e Little Nemo in Slumberland. Quando negli anni settanta uscirà per Garzanti la prima raccolta di McKay, lo stesso Moebius dirà che questo autore è una conoscenza imprescindibile per un autore di fumetti.
Sandro – Garzanti è un editore particolarmente attento all’argomento. C’è un motivo particolare?
Sergio – Sì, c’è Oreste Del Buono, che con Gandini è tra i fondatori della rivista Linus. Del Buono lavora molto con Garzanti, per cui scopre per esempio Scerbanenco, che fino a quel momento era stato un autore rosa, quale scrittore nero. Inoltre, dopo il successo di Linus, Del Buono propone anche a Garzanti dei libri a fumetti. Tuttora i loro libri sono incredibili per la qualità di stampa e per quello che viene fatto. Del Buono diffonde I Primi Eroi di Caradec, un volume francese che fa una prima summa dei fumetti dalla fine dell’Ottocento ai primi anni cinquanta, non solo Francia, ma anche Italia e Inghilterra, “Bilbolbul”, il primo fumetto italiano di Mussino – un bambino che cambia colore a seconda di quello che vive e che prova, se si vergogna diventa rosso, se vede qualcosa che gli fa male diventa giallo – che esce sul Corriere dei Piccoli nel 1908 e pubblica Rodolphe Töpffer, il ginevrino considerato il vero padre del fumetto.
Sandro – Volevo chiederti, l’Italia produce un fumetto anche piuttosto interessante come quello che mi hai appena descritto, poi importa dei fumetti. E che succede per esempio a Buster Brown in Italia?
Sergio – Viene censurato. I fumetti in America nascono per un pubblico adulto, sui giornali per adulti, che molto spesso sono immigrati, non sanno leggere e imparano la lingua; per esempio Bibì e Bibò hanno un inglese sgangheratissimo. Sono semplici, immediati, cattivi, scorretti, insegnano solo la lingua, perché come scopo principale hanno l’intrattenimento. Noi invece cominciamo a farli leggere ai bambini, perché in Italia c’è molta letteratura per ragazzi (Il Corriere dei Piccoli, Il Giornalino della Domenica di Vamba dove c’è “Giamburrasca”). Quindi, di illustrazioni ce ne sono molte, manca una rivista di fumetti: seguendo l’esempio di molti quotidiani stranieri, Albertini, il direttore del Corriere della Sera, introduce gli inserti per il Corriere, il più importante dei quali è La Domenica del Corriere, con le copertine di Beltrame, che poi passeranno a Molino quando lui andrà in pensione, e Il Corriere dei Piccoli. Il primo progetto lo fa Paola Lombroso (la figlia di Cesare, il giurista che asseriva che i criminali avessero la testa e i lineamenti diversi dagli altri), terminandolo, ma poiché è una donna, e nei primi anni del Novecento è impensabile che una donna assuma una posizione di comando, la direzione viene affidata a Silvio Spaventa Filippi, un pedagogo che apre il primo numero con un editoriale in cui dice: «Faremo delle storie per insegnare ai vostri bambini a comportarsi da bravi bambini». Elimina i balloon, fa le rime in ottave e Buster Brown, da monello terribile, diventa un bambino che fa delle marachelle molto innocenti di cui si pente subito, mentre nell’originale non si pente mai.
Sandro – Se penso per esempio al neonato di Chi ha incastrato Roger Rabbit? che poi si trasforma in un fumatore di sigaro, mi vengono in mente proprio i disegni di cui parli tu. Raccontami di come viene percepita la violenza nei fumetti.
Sergio – In effetti, moltissimi studi descrivono il tasso di violenza dei fumetti; per esempio Pornograffiti, di Laura Barbiani e Alberto Abruzzese, del 1980, prende gli ultimi fumetti usciti alla fine degli anni settanta e cerca di analizzare il fenomeno del fumetto erotico. La famosa mostra “Nero a strisce, la relazione a fumetti” svolta a Parma dal febbraio al marzo del 1971, è alla base di tutti gli studi sulle stroncature dei fumetti violenti o dai contenuti non “appropriati”, in cui si critica anche Topolino perché ci sono troppe scene di sparatorie. In “Topolino e l’unghia di Kalì” di Romano Scarpa c’è una scena in cui il personaggio vestito da Kalì spara con quattro pistole (una per mano) ed è una scena alquanto violenta. Mi ricordo che da bambino ne ero rapito: Topolino coglie in flagrante questo personaggio, urla «Mani in alto!», questo si gira e ha quattro pistole!
Sandro – E tutto questo dopo non ha più funzionato, è stato considerato troppo violento…
Sergio – Il fumetto esposto in questa mostra è diventato uno dei capisaldi per coloro che credevano che i fumetti popolari come Tex, Topolino, i fumetti porno, fossero violenti; per ogni fumetto c’è una scheda tassonomica in cui si prende nota delle sparatorie, delle parolacce, delle botte… E sulla base di questo si giudica la bontà morale di un fumetto, senza neanche andare a intervistare gli autori.
Sandro – Ti ricordi quando nei fumetti c’era proprio tutto?
Sergio – Certo, hanno tagliato tutto negli anni ottanta, per esempio sono scomparsi gli ami: nella prima edizione di una storia di Topolino, Topolino e Pippo vanno a pesca e utilizzano gli ami, quando la storia viene ripubblicata sia il testo che il disegno sono cambiati e Topolino e Pippo, invece di andare a pescare, dicono: «Andiamo a buttare delle sonde» e tu, leggendoli, pensi che siano pazzi… Oppure c’è Gambadilegno che beveva birra: io ho ritrovato una storia in cui beve aranciata e improvvisamente non fuma più. Quindi niente più polli arrosto, niente più fumo, niente più birre, niente più pistole; però non è la vita vera…
Sandro – Dopo questa breve panoramica, da cosa vogliamo cominciare?
Sergio – Mah, forse da Hugo Pratt, se dobbiamo prendere uno bravo, da Hugo Pratt e Gli scorpioni del deserto, perché Pratt ha creato tanti personaggi, ma i fondamentali sono Corto Maltese, che crea alla fine degli anni sessanta, e i protagonisti di questa serie, nata nel 1972. Gli scorpioni del deserto narra dei soldati dell’esercito inglese, il Long Rifle Desert Group, che si muovono nell’Africa della Seconda Guerra Mondiale. Per tutti questa è la sua opera della maturità, perché Pratt passa l’infanzia in Africa col padre, fascista volontario che arriva in Eritrea dove gli va tutto storto, affronta persino la separazione dalla moglie. Pratt rimane con sua madre e lì scopre l’Africa vera, perché non frequenta i ragazzini fascisti ma sta con i ragazzini neri della Somalia, dell’Etiopia. La madre si sposta in un campo inglese, e lì lui scopre i fumetti e la letteratura inglesi, la lingua inglese; conosce anche molte donne secondo la sua biografia, però in questo caso la verità e l’artificio si mescolano. Perde di vista il padre, infatti la serie degli Scorpioni non solo è una rielaborazione di tutti gli anni dell’adolescenza visti però da grande, ma contiene anche la ricerca, qui non è mai detto, dei luoghi in cui è stato il padre, tant’è vero che l’ultima storia che avrebbe dovuto scrivere è “Appuntamento a Dire Dawa”, dove c’è il campo di prigionia in cui scopre morirà il padre. Da grande Pratt va alla ricerca della tomba del padre, dice di averla trovata, tuttavia chi andrà a cercarla anni dopo la morte di Pratt stesso, non troverà neanche il cimitero, quindi probabilmente l’autore si è inventato tutto, però in ogni caso è una storia bellissima.
Sandro – E Gli scorpioni del deserto sono andati bene come Corto Maltese?
Sergio – Sì, perché Corto Maltese è diventato un personaggio a sé, negli Scorpioni il protagonista è il tenente Koinsky, insieme ad altri personaggi che gli girano intorno, però questa non è una figura carismatica come Corto, qui le storie hanno una narrazione corale di ampio respiro, hanno un altro passo rispetto a Corto. Sono veramente un romanzo storico ma non solo, perché Pratt è interessato alla storia degli uomini, infatti i cattivi sono anche ambigui, non ci sono né buoni né cattivi. È chiaro, ci sono gli inglesi e i fascisti, le parti sono distinte, ma in mezzo c’è movimento.
Sandro – Come finisce Gli Scorpioni del deserto?
Sergio – Non finisce perché Pratt crea quattro storie, deve fare “Appuntamento a Dire Dawa” ma muore nel ’95; lo continuano altri autori, la prima storia, fatta dallo svizzero Pierre Wazem è molto bella, però non è Pratt. Il problema è che tu puoi prendere un personaggio e rifarlo, manca semplicemente tutta la vita dell’autore che è il serbatoio da cui lui trae l’energia per le sue storie. Pratt è proprio un unicum da questo punto di vista. Provano a riprendere anche Corto Maltese ma è impossibile.
Sandro – Quando dici quattro storie significa…
Sergio – … quattro romanzi che vengono suddivisi in quattro volumi.
Sandro – Quanto tempo ha impiegato per fare una cosa del genere?
Sergio – Pratt inizia gli Scorpioni nel ’72-’73, lo finisce nel ’94 facendo comunque altre cose in mezzo; vent’anni continuando a fare Corto Maltese e molte altre storie.
Sandro – Stavo riflettendo su questa capacità di far sedimentare delle cose e poi svilupparle piano piano.
Sergio – Pratt inizia negli anni cinquanta, finita la guerra torna in Italia e fonda con i suoi amici la rivista Asso di picche dove c’è questo personaggio vestito da uomo mascherato che ha un asso di picche sulla tutina, chiaramente ispirato a tutti i fumetti americani, e noi possiamo vedere benissimo la formazione anglosassone della sua infanzia.
Poi va in Argentina, dove trova l’ex direttore della Mondadori, Cesare Civita, espatriato perché ebreo, che fonda con suo fratello quello che ancora è uno dei più grossi colossi editoriali del Mercosur, l’Editorial Civita, che ha anche una rete televisiva. Civita prende questi ragazzi, li porta in Argentina, che è floridissima, e li mette a lavoro. Lì c’è un’esplosione di fumetti e Pratt si forma e diventa Hugo Pratt. Dagli anni cinquanta agli anni sessanta sta in Argentina e poi torna in Italia, quindi fa varie puntate in Inghilterra e produce moltissime cose, tra cui il “proto Corto Maltese”, Anna nella Giungla, dove la protagonista è una ragazzina (personaggio chiaramente ispirato alla figura di sua moglie da giovane), col suo amichetto (che è Pratt da giovane) e un personaggio più grande, Luca Zane, prototipo di Corto Maltese. Quindi torna in Italia, lavora al Corriere dei Piccoli, dove però non si trova bene perché è uno spirito libero; trova quindi Florenzo Ivaldi, un costruttore di Genova che ama i suoi lavori e fonda una casa editrice (la Florenzo Ivaldi Editore) su misura per lui e lavora con lui. Tuttavia, in Italia non esplode, sfonda invece in Francia dove lo assume la rivista Pif Gadget del partito comunista a cui propone Corto Maltese, che aveva già fatto con “La ballata del mare salato”. Quindi sviluppa le storie brevi di Corto Maltese che poi sono quelle che gli danno un successo mondiale, anche grazie al fatto che da Pif passa a Casterman, la casa editrice dove c’è Tin Tin e lì acquista fama. Tutte queste storie in realtà nascono per il mercato francese e poi di riflesso vengono portate nel mercato italiano.
La Ivaldi poi produce altri fumetti e altri libri, ma rimangono prodotti sempre molto di nicchia, ora si trovano ma i prezzi sono esorbitanti.
Sandro – Quindi Hugo Pratt muore in una fase ancora estremamente creativa. Lavora con il disegno e il testo, fa tutti e due.
Sergio – Dopo l’esperienza argentina si è sempre, o quasi, scritto i propri testi.
Le immagini sono state estrapolate dal Corso di storia del fumetto di Claudio Ferracci che ringraziamo per l’ospitalità.