
22 Mag 19 maggio – verso la Fornace della Maremma, Massa Vecchia
Sono la linea ferrata che è stesa per terra tra Bergamo e Pisa, la carrozza trainata da una forza sovrannaturale, la falsa aria che condiziona oltremodo l′ambiente, il naturale e l′innaturale, il sedile di un treno, il sonno che tutto trasfigura. Sono carne macellata, appesa ad un gancio nella cella frigorifera di un carrozzone da circo, sono pasto per denti da fiera. Mi reincarno in me stesso quando torno a temperatura ambiente, sono a Pisa Centrale e cerco il binario dove attendere il treno per Grosseto. Un pezzo di litorale tirrenico, Livorno, Piombino, pini marittimi e l′arrivo a Follonica. Dopo pochi minuti il fuoristrada guidato da Stefano, una spontanea e verace accoglienza, il suo schietto essere Maremma mi tiene già per mano mentre si comincia a parlare. La prima espressione che mi penetra dentro è la guazza, la rugiada che al mattino inumidisce i vestiti e il corpo, uno stato transitorio che si dissolve con l′arrivo del sole. Altra cosa è la molliccicaia che perdura nel terreno, lo tiene bagnato e vanifica e scoraggia il lavoro nella vigna. Da queste espressioni intuisco il momento delicato della stagione e la conseguente pressione che si respira nell′aria e nell′atmosfera al di là della spigliata ed allegra parlata toscana, dei modi gentili e sorridenti di Stefano. L′acqua della pioggia inizia già a bagnare e ancor prima di scendere dal cielo si mescola nel vento che in assenza di sole si fa più freddo e scompiglia e mette in allarme il temperamento dell’uomo e della donna che vegliano la terra.
Dopo una ventina di chilometri verso l′entroterra sulla strada l′indicazione per Massa marittima che Stefano mi indica lassù sulla collina alla nostra destra. Lì invece c’è il podere di Massa Vecchia ora diventato un albergo per ciclisti ed accanto al podere la nostra cantina e l′oliveta e Berta e Gioia le nostre cavalle. Proseguiamo in direzione di Montieri.
Non avrai paura dei cani? Questa è Anarchia. L′abbiano chiamata così perché faceva tutto il contrario di quello che le si diceva. L′altro cane è Zorba, quasi completamente sordo.
Saluto Anarchia che subito mi salta addosso scodinzolando. In casa Zorba anch′esso festoso e Francesca vicina ai fornelli e al tavolo apparecchiato. Pranziamo nella cucina della Fornace, il luogo dove si sono incanalate le energie che hanno fatto danzare i destini della vita in un movimento di avvicinamento, di provvisorio abbandono e di nuovo riavvicinamento. Che sia un luogo catalizzatore lo si percepisce dalle vecchie pentole che ancora riscaldano cibo e dalla territorialità insita negli animali che vivono in casa e nelle boccate di pipa tirate da Stefano, nei vasi di tisane preparate da Francesca. E soprattutto nel vino che si beve a tavola, un vino chiamato Betone e fatto per il consumo domestico, un lare che si propaga ingenuo e rustico nella convivialità del pasto.
Era da tempo che non bevevo un vino così, semplice e onesto come lo si faceva una volta.
Le parole delle nonna di Stefano sono il migliore complimento e bevute insieme ad un bicchiere fanno quasi luccicare gli occhi. Mentre Stefano prepara il trattore in vista del trattamento per l′indomani scendo insieme a Francesca a vedere i vigneti. La Querciola, le viti più vecchie di Sangiovese quasi completamente in fiore,
del maestoso Alicante
e dell′Aleatico. Il suolo è secco, si asciuga rapidamente dopo una pioggia. Sotto la mineralità del travertino e dappertutto aglio che sfocia in alto in chiari rosei fiori.
A pochi passi il vigneto del Vermentino, del Trebbiano e della Malvasia Nera da poco messa in bottiglia nella splendente versione rosata. Le nuvole si intervallano di continuo tenendo il sole nascosto e promettendo una vicina acqua cadente. Saliamo alla cantina e Francesca mi presenta le sue cavalle. Le raggiungiamo nell′erba dell′oliveta dove sono lasciate al pascolo durante il giorno.
Berta, una bretone strappata via ad un destino chiamato macello e Gioia una vecchia avellinese visibilmente gelosa delle attenzioni rivolte alla compagna.
Mi sono scordata le chiavi della cantina, possiamo tornare alla Fornace a sistemare l′orto, assaggeremo domani i vini.
Stefano è ancora alle prese con le difficoltà del trattore, di certo qualche moccolo sarà volato in giro ma il suo viso mostra una paziente determinazione.
Accanto alle capre il piccolo cancello che introduce nello spazio dell′orto, vi portiamo le piantine di pomodoro, di zucchine, di melanzane e di peperoni, scaviamo un solco con la zappetta, ci versiamo una parte di compost naturale e le interriamo. Raccolgo gli ultimi carciofi per la pasta della cena e le ultime fave ancora appese alla pianta.
Stefano arriva dopo aver risolto in qualche modo le difficoltà e libera la capra con il suo capretto poi prima di tornare in casa chiama le altre capre per la breve mungitura.
Francesca mescola le ortiche per la tisana da portare sulle foglie del vigneto.
Si apre una bottiglia di Berace, Sangiovese e Cabernet Sauvignon e si apparecchia. Sì parla del trattamento per l′indomani e del l′instabilità del tempo. Della preoccupazione non si parla ma la si legge a chiare parole nel silenzio e nel non detto. Stefano porta un formaggio fatto da poco con il latte delle capre tra il fresco e lo stagionato e lo si mangia assieme al vino che pare un abbraccio ruvido di stoffa grezza e comunque calda e buona compagna di pelle. Poi, dopo la cena qualche risveglio di passione, ricordi di cinema, di western e di fantascienza, Sergio Leone e Asimov, i due generatori di fantasia per Stefano, di registi russi e di Kitano, le mie fonti di ispirazione. Francesca ci ascolta paziente e a volte si mette nella discussione poi taglia qualche fetta di torta e versa un bicchiere di passito di Aleatico. Chiudiamo in dolcezza il giorno allontanando per un momento il pensiero del domani, della vigna e delle sue necessità e vicissitudini. Si spegne il pentolone con la tisana di ortiche e buonanotte.