
27 Lug 6 luglio – Paolo e Lidia, Rocco di Carpeneto e l’ovadese
Posted at 15:43h
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I treni iniziano a scottare. L′annata trova un′estate diversa dalla precedente e il ricordo dei giorni di pioggia costante è riscaldato da un sole fermo che poggia le mani sulle città e sulle campagne. Ma stando fuori, all′aria aperta, giorno dopo giorno, il corpo ritrova se stesso e si abitua ai freddi e ai caldi piegandosi laddove volge la natura.
Percorrere la strada da casa fino al lavoro. Farlo in bicicletta attraversando i paesi o a piedi lungo il sentiero tra boschi e vigneti. Farlo da fuori con lentezza. Per cinque anni ho visto trascorrermi accanto i tempi delle stagioni. Se era pioggia la lasciavo cadere addosso sui vestiti, se era vento pedalavo con più fatica controcorrente e il quotidiano mi restituiva un pezzo di anno e un pezzo dopo l′altro faceva il mese e la stagione e chiudeva un cerchio per poi ricominciare da capo sempre diverso. Il treno si ferma vicino a Milano.
È un treno dove scorre impotente l′aria da fuori. Un treno lombardo di luglio.
In una stazione sotterranea salire sulla vettura verso Pavia e da lì ad Alessandria. E un paese che era Liguria e ora Piemonte. Novi Ligure. Le 12 e tre quarti. Paolo mi raccoglie dagli asfalti bollenti dove i taxi aspettano qualche viaggiatore che ha fretta e cerca comodità. Ci allontaniamo dall′anonimo nucleo abitato parlando di fiere. Un basso Piemonte in cui scorgo qualche sprazzo di girasoli parimenti allineati verso una uguale direzione. Il bosco prende spazio quando entriamo nel territorio chiamato ovadese. Dalla parte di Carpeneto, la terra appare più bassa, ma è solo un’impressione, i campi e le vigne vivono a circa 250 metri sopra il livello del mare. In basso, a qualche chilometro, Ovada e il fiume Orba. Più in alto il corso d’acqua del Bormida. Lontano dalle ultime case del paese, l′azienda Rocco di Carpeneto, la cantina e gli spazi dell’agriturismo.
Nel cortile tra case e vigna il sole sembra salire anche dal basso, Lidia e i suoi cani mi vengono incontro, ci salutiamo.
Entriamo che mangiamo qualcosa. Porta pure dentro le tue cose.
Appesi alle pareti i disegni dei progetti inerenti agli spazi abitativi e alla cantina. Uno stile di leggiadra aerodinamica. Sul tavolo una piccola ciotola con della pasta fritta, un modo di riproporre un avanzo, una rielaborazione creativa.
Poi avvicina una bottiglia senza etichetta di vino bianco.
Condividiamo un primo assaggio.
Questo è il Cortese 2014 imbottigliato da due giorni. Lo beviamo per la prima volta.
Sono felice di farlo insieme a voi.
Lidia ha preparato anche delle zucchine tagliate fini fini con foglie di menta e ha tagliato delle fette di testa in cassetta, frattaglie di maiale bollite e insaccate. Una gioiosa passione per la cucina. Dentro ciascun piatto ci ritrovo il suo sorriso, la sua allegra vitalità.
Paolo mi dice come potremmo organizzare la giornata. Più tardi dovrà andare all′enoteca regionale di Ovada per una riunione del consorzio, io potrei accompagnarlo.
Intanto è il Cortese ad accompagnarci. Lo fa con leggero vigore e una fresca energia che rinfranca la calura di dentro. Un’uva matura e di scorza minerale di agrume percettibile in un liquido in piccola parte denso e ruvido.
Gentile e nudo.
So che Lidia tra poco andrà a Genova a prendere il traghetto per una breve vacanza in terra sarda e le chiedo se ha voglia di raccontarmi qualcosa assieme a Paolo in modo da avere anche la sua voce nel materiale che sto registrando.
Usciamo sulla terrazza sopra il vigneto, preparo la camera e il microfono poi cominciamo a parlare di come sono iniziate le cose, della scelta di vita e dello stato presente dei fatti.
Lidia tiene spesso il suo sorriso tra una parola e l′altra, Paolo racconta con curiosa e pacata passione.
Guardando il vigneto dietro di loro chiedo quali operazioni si stiano facendo in questi giorni. Lidia risponde che sono ancora in corso i lavori di potatura verde nel vigneto del Gaggeto.
Sì, quest′anno siamo abbastanza in ritardo per via del nuovo impianto a Grimaldi.
Dai, domani potremmo lavorarci un po’.
Ce ne sarebbe bisogno, sì.
Ma ora se ti va andiamo a Ovada per la riunione.
Certo Paolo
.Risaliamo in auto e percorriamo la decina di chilometri che separa i due paesi del territorio attraversando il ponte sull’Orba. Mentre raggiungiamo Ovada, Paolo mi parla del consorzio formato da venti aziende, la metà convertite al biologico. Al di fuori del consorzio esistono altre venti aziende vitivinicole. Appare fiducioso di ciò che potrà nascere in un domani vicino, della sinergia tra giovani realtà che sembrano condividere un’idea.
Un territorio che fino a qualche anno fa coincideva con un solo luogo e un solo nome: Pino Ratto.
Il suo vino rappresentava Ovada all′esterno. Tuttavia, la percezione è quella che non sia stato in grado, vuoi per storia, vuoi per carattere, di trasmettere e far nascere nuovi adepti. Forse si tratta comunque di un influsso sotterraneo che ha scavato, tra amore e odio assieme, una direzione ben precisa.
Il campanile di Ovada, il comune e adiacenti, le scale che scendono all′enoteca. Seduti nel salone coloro che gestiscono gli storici locali, produttori anch’essi del vino ovadese, altri produttori, ristoratori del territorio, giornalisti. Si parla del Menù Ovada. Un’iniziativa per cui un gruppo di ristoratori metterà nella carta un particolare menu a cui si potrà abbinare uno dei vini scelti tra i produttori del consorzio ovadese.
Dopo le parole conosco Marco di Forti del Vento, la sua risata improvvisa mi dice di una persona gioviale. Sono felice che ceneremo insieme il giorno dopo.
Salutiamo Ovada e ritorniamo a Carpeneto. Sistemo i bagagli nel mio alloggio e abbraccio Lidia che parte per l’ isola.
Verso sera la famiglia di svedesi arrivata nel pomeriggio visita il vigneto insieme a Paolo che spiega la storia e le azioni che portano alla vinificazione.
A guardarlo ora nei movimenti delle mani in controluce nei filari della Barbera più vecchia dell′azienda mi ricorda l′esilitá e la leggerezza di David Carradine.
Passiamo nella moderna cantina, nel piano di vinificazione e in quello di affinamento dove una botte è ricoperta di un vestito di lana che la sta aiutando nella ripresa e nel proseguimento della fermentazione malolattica.

Sono spazi e materiali nuovi studiati in un′armonia eco sostenibile. Tuttavia, come mi confida Paolo, la botte grande è passata per un pelo dalla porta della stanza di affinamento.
A cena gli chiedo del suo passaggio dalla città di Milano alla campagna ovadese. Lui mi parla di un testo degli anni ′70, Il Padrone dell′Agricola di Marcello Venturi. Un giornalista e romanziere che dalla Versilia e dalla città di Milano giunge nelle campagne del basso Monferrato a dirigere un’azienda agricola e che, nella volontà di cambiare e ammodernare le cose, si trova davanti un mondo contadino fatto di magie ancestrali, usanze, rifiuto e fatalismo che solo la morte potrà dissolvere. Un mondo condannato a scomparire eppure riluttante a cambiare. Avevamo dimenticato che la vita corre anche qui, in questa immobilità che è solo apparente.
E penso a lui e Lidia che dalla città sono arrivati a questa campagna che gli anni non hanno fatto scomparire del tutto. Del loro incontro con un mondo fatalista e disilluso. Della loro potenziale energia innescatrice di una nuova dinamica. E proprio qui, nel Piemonte contadino è bello vedere come chi non ha una storia di terra e di campo possa avvicinarsi e portare vivacità e voglia di cambiare.
Finiamo un gustoso piatto di trippa aggiustata e torniamo tra le vigne. Ci diamo appuntamento verso le 6 in vigna Gaggero per continuare la potatura verde. Io raggiungo la mia casa di oggi sospesa da terra e mi addormento nel silenzio accanto ai boschi.
Alle 5 il cielo si sta rischiarando e oltre il vigneto si immagina il sole che è lì per salire. Registro i suoni dell′alba, il canto del risveglio e i galli lontani. Poco dopo è un nuovo sorgere.
Mi vesto con gli abiti del lavoro e raggiungo la vigna dove incontro Paolo e altri due operai. Guanti e forbici e ci dedichiamo al lavoro. La vegetazione, a luglio, di una vite non ancora ripulita dai polloni e dai germogli in eccesso appare subito rigogliosa e difficile da sfoltire. I tralci da togliere ormai sono diventati duri e legnosi ed è necessario l’uso delle forbici. Alla base del fusto e tutt’intorno c’è da strappare l’erba cresciuta che impedisce alla pianta un respiro tranquillo. Un paio di ore a filare.
Il prossimo anno lo facciamo molto prima questo lavoro. Esclama uno degli operai che ci stanno aiutando.
Alle 9 il caldo si fa sentire. Si continua una vite per volta e guardando alla mia sinistra verso l’inizio del filare sento l’importanza di questo lavoro che libera e toglie e alleggerisce.
La coppia di danesi che ha dormito vicino a me ci saluta con la mano dal finestrino dell′auto. Paolo mi dice che stanno andando verso una parte del fiume Orba in cerca di oro. Anche l’anno scorso erano venuti per lo stesso motivo. A Rocca Grimalda c’era in passato la casa-galera dove vivevano i prigionieri romani che ogni giorno setacciavano il corso del fiume per recuperare i granelli di oro provenienti dalle miniere vicine.
Oggi sembra che qualcuno ritorni a far rivivere un mito.
All’ora di pranzo nelle mani ho la fatica di due filari. I tralci tagliati e le erbe strappate abbondano nel corridoio tra le piante. Il sole è addosso sulla pelle bagnata, ma basta un attimo a dimenticare gli sforzi compiuti. È la consapevolezza che le proprie azioni hanno accompagnato qualcosa di vivente, che si siano appoggiate a una evoluzione, a un senso che è naturale e partecipante.
Mangiamo qualcosa?
Sì. Direi che è ora.
Qualche fetta di lonza, un’insalata di pomodori, una crema di albicocche che riscaldiamo. E qualche assaggio.
Una Barbera, due Dolcetti di Ovada.
Il primo bicchiere mi insegna come una Barbera di questo territorio possa essere ricca in acidità. Un tannino calmo senza spine e punte. Così il Dolcetto, giovane nella sua espressione sia nel Losna sia nello Steira. Meno diretto e contadino della Barbera, mostra una sua volontà di riservatezza come a dire aspettatemi che mi faccio bello per uscire. Un vino che sembra cercare distensione come a depositare nel tempo la propria forza e intensità, a lasciarla disponibile alla pazienza.
Lo scorso anno dall’università di Milano è arrivato uno stagista per fare una tesi qui da noi. Secondo uno dei testi importanti di viticoltura e enologia la quantità di azoto presente nelle nostre uve non avrebbe reso possibile una fermentazione spontanea con i soli lieviti indigeni. Di fronte all’evidenza chissà se l’autore del testo universitario si è ricreduto.
Paolo mi dice questa cosa con lo stesso tono di voce di sempre. Il suo fare di uomo del nord, la sua tranquillità e perseveranza di sciatore di fondo non nascondono la grande passione che vive sotterranea e sempre presente nelle sue parole e nelle azioni.
Bene. Io torno al vigneto, ci vediamo lì tra un po’ quando hai finito le tue cose.
D’accordo. Sistemo il check-out degli svedesi e poi ti raggiungo.
D’accordo. Sistemo il check-out degli svedesi e poi ti raggiungo.
Intanto si è alzata l’aria. Un vento fresco che mi dicono chiamarsi Marino. Arriva da Sud, arriva dal mare.
Il lavoro appare adesso più leggero.
Paolo mi raggiunge che sono a metà del filare di Dolcetto. È un silenzio di vento tra le foglie e di mani che strappano, un lungo silenzio di pomeriggio ovadese.
Verso sera la coppia danese è di ritorno dal fiume. All’incirca un grammo di oro raccolto.
Noi ci alziamo dalla terra che mancano pochi filari ancora.
Domani finiamo il Gaggero.
Domani, sì.
Tra poco andiamo a Rocca Grimalda che devo parlare con i proprietari del castello. Tu datti una sistemata poi ci si vede.
Faccio in un attimo.
Dalla vigna ripercorro la strada verso le due case sospese e, passando accanto all’orto, vedo i fiori blu della borragine. Il loro aroma mi accompagna tra l′erba alta che si muove nelle raffiche dell’aria.
Dopo la doccia mi concedo qualche minuto per registrare la voce del vento e di quello che incontra. Mi pare di stare più vicino alle cose, di ascoltarle davvero, di respirare insieme.
Con l′auto passiamo nuovamente il ponte sull′Orba ed entriamo a Rocca Grimalda. Dal parcheggio osservo l′immenso albero che sta nel cortile di ingresso del castello, la torre e i portoni.
Oggi i proprietari affittano alcune stanze a mo’ di bed and breakfast e Paolo chiede se ci potrebbe essere posto per una coppia di suoi amici. Marito e moglie ci fanno entrare e ci portano per gli spazi dell′antico edificio. Il parco, il giardino, l′orto con tante varietà diverse, ognuna con il suo cartellino e nome. Mi fermo a guardare l′achillea.

Nel sotterraneo lo spazio di quella che era la cantina e che tra le due grandi guerre fungeva da osteria per gli abitanti del paese.

Poi le stanze. Quella a pianterreno e quella magnifica quasi alla sommità della torre. Prima di salutare diamo uno sguardo anche alla piccola cantina dove da poco vinificano le uva di Barbera e Dolcetto.
È tardi. Marco ci sta aspettando per andare a cena verso Gavi.
Silvano d’Orba, un piccolo torrente che anni fa allagò il paese, qualche casa e la cantina Forti del Vento. Marco ci aspetta fuori, abbraccia la moglie la figlia, un cenno al cane e si parte.
Risaliamo le terre di Ovada fin verso i vigneti del Gavi. Suoli bianchi di calcare, colline piene di boschi. Paolo e Marco mi parlano dei paesi che incontriamo, della diversità di clima, della povertà delle cantine sociali e dei loro personali vissuti.
È una situazione importante e credo unica dati i tempi stretti della mia permanenza. Da una parte l′uomo che è giunto dalla città e che incontra la campagna con una freschezza e con un entusiasmo sincero, dall′altra l′uomo che ci è nato in questa campagna e che si porta dentro le voci di uomini più vecchi di lui, i sogni cresciuti dalla terra e le mani grosse di fatiche quotidiane. Sento che non è un caso se grazie a Paolo e Lidia ho conosciuto Marco e il loro legame franco mi dice tanto su ciò che potrà divenire questa terra.
Chiedo allora all′ovadese di origine quali sono i suoi impegni per l′indomani, che mi piacerebbe fare due parole e vedere i suoi vigneti.
Passo a prenderti io verso le due se ti va bene.
Sarebbe buono così nella mattinata aiuto Paolo a finire il lavoro nel vigneto, pranziamo insieme e poi mi preparo.
Dai, facciamo così.
Nel respiro ho il sorriso felice di chi incontra una parte nuova e bella di mondo e ha il privilegio di conoscerla attraverso persone che la amano e se ne prendono cura senza risparmiarsi.
Le due voci che ascolto hanno una forza decisa e una fiducia collettiva, la volontà di cambiare, anche soltanto per un pezzo di unghia, questo mondo contadino conservatore e pessimista.
Una coppia di caprioli saltella vicino al tornante. Dai boschi osserva una macchina che scende verso Nebbioli e più giù verso Gavi e scompare e ridiventa natura.