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7 luglio – Ovada, da una parte all’altra del fiume

Quando apro la porta per andare verso la vigna, il Marino è già lì che si muove tra le cose, le fa suonare con il suo tocco di vento salato. Guardo il sole giovane e penso a quelle uova di gallina che hanno nel colore del tuorlo il colore di un sole appena nato e allo stesso tempo cadente al tramonto della sera a Occidente e a quelle uova che invece hanno nel centro il colore di un sole più caldo e pomeridiano. Oggi è così che il pensiero porta il risveglio. Sono colori e consistenze. L′alba pare una solitudine; il sole, un uovo da rompere sulla vita per ammorbidirla, amalgamarla, tirarla in uno sfoglio di pasta. Provo un attimo di malinconia tra gli occhi e lo stomaco: non dovremmo far altro che mangiare vita.
Taglio corto. Percorro il sentiero fino al vigneto, indosso i guanti e mi avvicino alla pianta, le azioni faranno il resto. Paolo mi raggiunge dopo qualche minuto e continuiamo in silenzio il lavoro nell′aria che si muove e dà piacere. Ormai siamo agli ultimi filari, poche ore ed abbiamo finito di accomodare il Gaggeto.

Vorrei che Paolo mi parlasse della vigna vecchia di Barbera, il Rocco. Faccio una corsa a prendere l′attrezzatura e ci ritroviamo lì accanto alle grosse piante interrate nel 1955.
Quando siamo arrivati il contadino che lavorava questa campagna ci aveva consigliato di estirpare completamente il vigneto della Barbera e di fare un nuovo impianto.
Sarebbe stato un vero peccato.

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Poggiano fiere sulla terra e regalano grappoli alimentati da una linfa matura che ha visto passare annate e stagioni per più di mezzo secolo. Non è da tutti rispettare una vecchiaia e accontentarsi e saper prendere quello che ancora ci può dare. Camminiamo per qualche metro lungo uno spazio racchiuso da due file poi Paolo si volta verso di me.
Andiamo a vedere come stanno Gli Scarsi prima di mangiare?
Non ho mai conosciuto Pino. Non ho mai messo piede nell′ovadese fino a oggi. Mai visto una sua fotografia. Mai ascoltato la sua voce. Soltanto ascoltato i racconti di chi era stato da lui o la aveva incontrato nelle fiere. 
Ricordo di una bottiglia di Scarsi bevuta nella biblioteca delle Nuvole a Perugia in compagnia di Sandro, Matteo e un gruppo di amici. Matteo l′aveva aperta al termine di una degustazione di sei vini. Ricordo la forza di quel vino nel farsi sentire e nel farsi spazio tra la mente e il corpo.
Mi piacerebbe tanto vivere un pezzo di vita in quel posto.
Ci mettiamo in strada, ripassiamo il ponte sull′Orba e risaliamo le colline accanto ad Ovada. Paolo mi dice di una catena legata a un lucchetto che sbarra la strada per la casa-cantina di Pino. Mi dice che la proprietà le Olive è stata comprate da una famiglia di Milano che ha già vinificato la prima vendemmia senza particolari risultati.
Gli Scarsi, quelli, sono ancora abbandonati assieme alla casa e alla cantina vicina. Nessuno sembra volersi avvicinare.
Prendiamo a sinistra scendendo lungo una piccola vallata. Qualche vigneto sul calcare e tanto bosco. Poi, nel quasi nulla, una casa e una catena che blocca il sentiero. Paolo scende e bussa alla porta. Dalla finestra un viso di vecchio ci osserva. La porta si apre, Paolo chiede al vecchio se possiamo passare per proseguire fino alle proprietà che erano di Pino. Tutto mi appare trasognato. Il vecchio esce con un mazzo di chiavi. Ne prova una, un′altra e un′altra ancora senza trovare quella giusta. Ritorna in casa. Il senso di irrealtà lo accompagna. Infine torna fuori dicendo di averla trovata. Il lucchetto si apre e noi passiamo salutandolo con la mano.

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Un centinaio di metri ancora e davanti a noi circondata dalla natura che le sta crescendo intorno e dentro, la casa di Pino. Le finestre e le porte sembrano chiuse, sprangate e pure dove non c′è porta né finestra lo spazio appare sigillato da un tempo senza nome.

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Sulla sinistra quello che rimane della cantina, damigiane capovolte e bottiglie sparse a terra, rovi e semplici silenzi. Saliamo per qualche metro dietro la cantina e il respiro incontra il mondo che era ed è tuttora gli Scarsi.
Terra impervia e pendente. La natura si sta riprendendo quello che l′uomo aveva reso cultura-coltura senza risparmiare nulla. Ma accanto ai rovi sono ancora lì le ultime tracce di chi ha camminato e sparso sudore nel campo.

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Ci sono i fiori dell′aglio che da viola sono diventati bianchi, erbe che arrivano ai fianchi, pali di legno senza più una verticalità.

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C′è un giallo che ha ancora la forza di ravvivare un luogo, di portare una giovinezza e in mezzo a tutto ci sono le ultime viti interrate da Pino.

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Le guardo con emozione. Paolo cerca di sistemarle ma sono gesti inutili, come inutili sono i grappoli attaccati alla pianta. I rovi avanzano attorno in un fatale senso di abbandono. Le piccole viti si lasciano andare e tornano a far parte del tutto indistinto e selvaggio.

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Camminiamo nella bellezza di una natura che si riprende ciò che le appartiene e il ricordo dell′uomo che dialogava con essa. Torniamo alla macchina. Un ultimo sguardo alle cose ammucchiate davanti la casa. Bottiglie, vecchie valigie e servizi di piatti.

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Parole sbiadite scritte in una cornice, mattoni di pietra, una vasca con i piedi all′aria e un cespuglio cresciuto vicino e dal cespuglio uno schermo nero di televisore. Lo guardo, lui se ne resta muto e inutile come tutto il resto.

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Rifacciamo la strada, arriviamo alla casa del vecchio che forse sta lì e sente l′auto passare sul selciato e uscirà una volta lontani e rimetterà il lucchetto alla catena perché – come dice lui – potrebbero venire extracomunitari a dormire nella casa di Pino.           

Sulla via verso Carpeneto ci diciamo che è un peccato. Sarebbe stato bello conservare un pezzo di storia della viticoltura ovadese. Far ripartire da lì una radice comune. Lasciare perdere le invidie e il sangue acido e fare la pace con la terra e l′uomo che ora le sta sotto. Forse un domani… 
Mangiamo qualcosa e beviamo un ultimo bicchiere di vino. Il Cortese che mi era tanto piaciuto. Poi arriva Marco. Carico le cose sulla sua auto. Saluto e ringrazio Paolo del tempo trascorso assieme e mi avvio verso un′altra parte di mondo.

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A Rocca Grimalda c′è una parte dei vigneti dell′azienda Forti del Vento accanto all′agriturismo della famiglia di Tomaso, il socio di Marco.

Entrambi nati e cresciuti nel territorio, nella memoria i gesti e le parole dei nonni che lavoravano la terra prima di loro. Marco fa scendere il sua cane, un bovaro bernese, che sale verso la collina terrazzata senza aspettarci. Camminiamo e inizia a parlarmi della vigna e dei vitigni che vi sono piantati. Una voce allegra e sanguigna che appare muoversi sempre verso un tono giocoso ma che in un attimo sa farsi seria e decisa. Mi mostra i segni della Flavescenza Dorata, il male che da qualche anno sta segnando le campagne del Monferrato soprattutto per il vitigno della Barbera.

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Ora possiamo andare dall′altra parte del fiume dove si fanno i vini migliori.
Ascolto la sua risata sonora e ricordo di avere già sentito queste parole a Ovada all′enoteca regionale quando ci siamo conosciuti. Da allora mi sono chiesto cosa potesse esserci di differente da una parte e dall′altra del fiume. Passiamo il ponte per l′ennesima volta in pochi giorni e saliamo verso Castelletto d′Orba.
Ci fermiamo a guardare un antico ed enorme torchio per noci dai vetri di una sala-museo e Marco mi mostra l′architettura delle case e dei fienili.

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Proseguiamo la strada fino al bosco da dove si sale verso il vigneto.
Dalla sommità della collina posso rendermi conto dell′estensione dei boschi attorno alle terre vitate. L′altra parte di valle di fronte a noi sembra un anfiteatro naturale dove i filari di vite prendono il posto dei gradoni di pietra per gli spettatori. 

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Uno dei miei rimpianti è quello di non aver comprato quelle terre che vedi.
Sono proprio belle.
Già. Ma credo che anche qui si possa tirar fuori qualcosa di buono. 
Vediamo insieme i grappoli di Dolcetto, le foglie, la Barbera e il Nibiö riconoscibile dalle venature rossicce delle foglie e del peduncolo che porta al grappolo. Gli chiedo se sia un parente del Nebbiolo.
No, è una varietà diversa del Dolcetto di Ovada. Te lo faccio assaggiare quando andiamo in cantina.

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Ti va se facciamo due parole qui e accendo il microfono.
Certo. Vedi solo di non inquadrare la pancia. 
Dove ti piacerebbe metterti?
Qui davanti alle viti da questa parte.
Bene, parlami di questo territorio.

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Il racconto di Marco è qualcosa di vissuto, nelle parole un entusiasmo vivace. Mentre mi parla penso a quanta diversità possa donare un territorio seppure piccolo. Nelle persone che hanno storie diverse e nei suoli che cambiano nel giro di pochi metri. Il terreno pianeggiante fatto di limo ed argilla di Carpeneto è ora collinare e scosceso e bianco di calcare e di sassi. Mi indica il fondo valle.
Laggiù era tutta vigna. Ora ci sta il bosco.
Poi ci sediamo sul calcare e parliamo ancora un pò di quello che sta succedendo nell′ovadese. Marco si sente fiducioso di come si stanno mettendo le cose e mi descrive con passione quello che per lui è il Dolcetto, un vino stratosferico a cui vuole bene. Mi piace il suo essere semplice, terra-terra, come mi dice di sentirsi, il suo bisogno di metterci le mani in tutto quello che fa. Lo ascolto parlarmi dell′interrail fatto da giovane, del rapporto con il padre e delle assurdità burocratiche. Poi ci alziamo, un ultimo sguardo tutt′intorno e riscendiamo verso la cantina sempre a Castelletto d′Orba.

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Assaggio da una vasca il Nibiö con molta curiosità. Un vitigno abbandonato per la scarsa produzione. È un vino allegro, mi ricorda la risata di Marco e la sua parte gioiosa. Se non fosse che mi ha parlato con grande passione del Dolcetto direi che questo vino lo identifica. È semplice e senza niente di nascosto. Se ne potrebbe bere una grossa quantità così come si rimarrebbe ad ascoltare con piacere l′esuberanza conviviale di Marco.
Scendiamo di sotto dove stanno le botti. 

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Questo è il Dolcetto 2014.
Molto buono. Anche in questa terra l′annata difficile sta portando un vino interessante. Oltre la semplicità e la freschezza si avverte un suono provenire da più lontano, un sapore che è ancora vendemmia e maturità allo stesso tempo.
Rimango con il bicchiere in mano a contemplare l′essenziale spazio della cantina, i piccoli mattoni tra il rosso e il marrone e la luce del giorno che taglia i corpi e le ombre. Poi bevo quello che è rimasto, guardo Marco, la moglie e sorrido di felicità.

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Andiamo allora, ti accompagno alla prossima tappa.
Solo se non ti faccio perdere tempo.
Dai, dai, andiamo.
Saluto le terre di Ovada.
E condividendo pezzi di vita attendo che compaia la terra astigiana.