Anteprima Vini Costa Toscana 2003

Perché la denominazione non è solo un nome, ma anche una vera assunzione di responsabilità, nel bene e nel male.
L’occhio sereno di Samuel Cogliati di fronte alle contraddizioni di “Anteprima vini della Costa Toscana 2003”, una manifestazione appena agli inizi, ma…

articolo

 

Villa Bottini e chiostro del Complesso di San Micheletto a Lucca, il sole caldo d’inizio estate balugina su “Anteprima vini della Costa Toscana 2003”: una novantina di vini 2002 en primeur e la neonata Associazione Grandi Cru della Costa Toscana , nata per “difendere, promuovere e diffondere la cultura della qualità della produzione vinicola dei territori delle province di Massa, Lucca, Pisa, Livorno e Grosseto fondata essenzialmente sull’autenticità di quei territori idonei per la produzione di grandi vini”, come recita lo statuto.
I fondatori sono una dozzina di produttori; trapelano ambizione ed entusiasmo e il rischio – almeno nell’immediato – di sommarsi agli svariati consorzi di tutela e agli altri organismi vitivinicoli toscani.
“La volontà di fare qualcosa assieme era forte – spiega la presidentessa Ginevra Venerosi Pesciolini – e a questo punto c’era l’esigenza di essere un organo riconosciuto e riconoscibile, capace di comunicare la filosofia della qualità. Una unione di produttori dettata anche dal desiderio di darsi una dimensione internazionale”.

Il progetto è seguire il sentiero tracciato dall’Union des Grands Crus de Bordeaux, fondata nel 1973, e rappresentata per l’occasione dal suo direttore Jean-Marc Guiraud. Questa istituzione raggruppa crus classées e non-classées della denominazione vinicola più estesa del mondo, saldata da una comune antica identità che nessuno metterebbe in discussione. Dal Médoc alla Rive Droite, dalle Graves alle Côtes de Bourg si producono vini rossi maturati in rovere e dallo stile tannico pieno e morbido, destinati a un invecchiamento variabile, figli del “taglio bordolese” (cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc…) che fa proseliti nel mondo.
Quando nel 1935 la Francia per prima al mondo si diede una regolamentazione basata sul dato geografico, creando l’Institut National des Appellations d’Origine, era spinta da forti motivazioni di fondo. La nozione legale di denominazione nasceva dalla constatazione di una denominazione di fatto.
Steven Spurrier e Michel Dovaz evocano le ragioni della Storia e ci introducono il concetto di qualità: “Molto prima dell’istituzionalizzazione della nozione di difesa del consumatore, si è imposta la necessità di definire e poi di preservare l’autenticità dei diversi vini. Il rispetto della verità ci obbliga a riconoscere che all’origine non si trattava di difendere il vino o il consumatore, ma il produttore. Costui era infatti leso dalle imitazioni che nuocevano all’immagine del suo marchio e al suo commercio. Molto presto si è dimostrato che la migliore difesa doveva appoggiarsi sulla zona di produzione. Questo perché i produttori erano accomunati dagli stessi problemi, perché usavano tecniche simili su suoli vicini e coltivavano gli stessi vitigni. In fine, ma è la conseguenza di tutto ciò che precede, perché i loro vini possedevano caratteristiche comuni”. Gérard Debuigne ci ricorda che le Aoc sono “fondate sul rispetto degli “usi locali, leali e costanti””. Con la loro istituzione si prende atto della relazione tra origine geografica determinata e qualità, e ci si propone di difenderla. Se si intende proteggere il nome della denominazione è perché esso veicola un’idea di qualità.
In genere quanto più piccola è una denominazione, tanto maggiore sarà la probabilità di imbattersi in vini interessanti: precise peculiarità difficilmente si estendono su territori ampi. Il sistema piramidale istituito in Borgogna sulle basi di una conoscenza e di un’esperienza plurisecolari è l’estrema espressione di questa logica: denominazione regionale (Bourgogne), comunale (Nuits-Saint-Georges), comunale con specificazione del vigneto (premier cru: Chambolle-Musigny les Fuées), di solo vigneto (grand cru: la Tâche), con tipicità e qualità crescenti. Il concetto di cru è causa ed effetto di questo sistema.

Nei vini della costa toscana non manca la qualità tecnica: il varietalism del Nuovo Mondo e la concezione moderna dell’enologia diffondono l’idea che un vino è buono per il valore genetico del vitigno e il livello scientifico-tecnologico della produzione, più che per la sua tipicità di terroir. Ma il panorama dell’area in questione è eterogeneo sin dal nome, mai sinora sinonimo di una zona vitivinicola culturalmente e qualitativamente coesa. Ad “Anteprima” la costa toscana è rappresentata da vini di sette Doc/Docg e di due Igt (Toscana e Maremma Toscana) tanto ampie e generiche da ridursi a mero involucro formale. Tra le denominazioni costiere non c’è coesione qualitativa né culturale, ma neanche omogeneità all’interno delle stesse. C’è da dibattere su che cosa costituisca quell’autenticità che lo statuto dichiara di voler seguire e perseguire, e di cui parlano a ragione anche Spurrier e Dovaz. Se qui autenticità c’è ci appare spesso in nuce e a “macchia di leopardo”. Ma anche la filosofia produttiva e associativa traccia il solco tra la costa toscana e il modello bordolese. Lo château di Bordeaux sovrasta nella fama e in etichetta la denominazione perché già la contiene. L’Union francese è fatta di vini di territorio, quella toscana di vini di produttori. Com’è consueto in Italia, l’individuo precede la comunità. Così il nome stesso dell’Associazione – Grandi Cru – stride un po’ perché ci appare improprio.

Sola sul palco dei relatori della presentazione alla stampa si leva la perplessità di Jens Priewe: “Val di Cornia, Monteregio, Colline Lucchesi? L’idea geografica non esiste. Se si vuol crescere come territorio, si ha bisogno di certe condizioni. Un profilo manca in quasi tutti i territori menzionati: la conoscenza del terreno, del clima, dell’andamento stagionale… Manca anche un profilo di vitigno. Qui c’è di tutto, sono state create denominazioni che permettono tutto. E nemmeno esiste un profilo del vino, in grado di far capire al consumatore che cosa sia un vino della costa toscana. Sono venticinque anni che visito la Toscana e devo confessare che non ho l’impressione che il sistema dell’Union bordolese possa adattarsi a questa realtà”. E’ curioso, ma interessante, che tocchi a un giornalista straniero far notare all’auditorio che si rischia di celebrare una sovrastruttura poggiata su una situazione mal definita, come nella genesi di molte Doc. Se come dice Venerosi Pesciolini la comunicazione verso la stampa è il primo scopo dell’associazione, questo appare una sorta di “marketing preventivo”.
Ci sentiamo dunque solidali con Priewe quando sostiene che “questo statuto vuole legittimare una produzione ancora disparata”. Ci vorrà tempo per individuare i profili mancanti, sondare le vocazioni, scremare le soluzioni valide. E’ una situazione ricorrente in varie realtà vitivinicole italiane, anche laddove un potenziale è certamente presente. Ci auguriamo che la qualità derivi sempre più dalla tipicità che i vini costieri sapranno trasmettere. Se si vuole ottenere un responso dal territorio e capire quali siano le sue reali potenzialità occorrerà anche il coraggio di lasciare che la natura si esprima senza voler correggerla a forza. Il primo compito del vignaiolo è osservare. La tentazione di sfruttare la notorietà della Toscana potrebbe invece generare un rischio speculativo. Questa Associazione sarà proficua se costituirà l’occasione per i produttori di guardarsi dentro, prima che al mercato o alla stampa. Scambiarsi informazioni, cooperare, riunirsi è certamente un modo per crescere. E’ un laboratorio che seguiremo con attenzione e fiducia “anche se un messaggio chiaro per il momento magari non è presente”, come dice il collega tedesco.