Bordeaux a Sesto

I corsisti sono pronti, io un po’ emozionato. È una delle rare occasioni – per scelta ma non solo – in cui si beve Bordeaux.

Château de Fieuzal 1996
Pessac-Léognan (Sémillon, Sauvignon Blanc)
Château Haut-Bailly 1999
Pessac-Léognan Cru Classé (Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc)
Château Haut-Marbuzet 1999
Saint-Estèphe Cru Bourgeois (Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc)
Château Léoville Poyferré 1998
Saint-Julien Deuxième Cru Classé (Cabernet Sauvignon, Merlot, PetitVerdot)
Château Soutard 1995
Saint-Emilion Grand Cru Classé (Merlot, Cabernet Franc)

I corsisti sono pronti, io un po’ emozionato. È una delle rare occasioni – per scelta ma non solo – in cui si beve Bordeaux. È un’opportunità seria, perché in genere questi vini li assaggiamo in un calice volante nelle fiere, nelle degustazioni organizzate, negli eventi promozionali. Invece questa sera “piovono pietre”: si beve Bordeaux. Ne sono particolarmente contento. E lo dico.

Fieuzal blanc è una mise en bouche particolare: schiude i sensi senza tentennare. Questo cru di Pessac-Léognan ci sollecita e ci disorienta. Subito bifronte, ricorda che è l’unione di due vitigni. Ciò che accomuna il Sauvignon e il Sémillon, in questo naso di aperto invecchiamento, è la capacità di incidere senza perdere tempo. Non c’è urgenza di impressionare: il 1996 non ha questa capacità. Fieuzal non promette, non allude, non esagera. Mostra. Inizia con una dolcezza rattenuta, più piccante che distesa, lascia scorgere il segno della barrique senza metterlo in primo piano. Arrivano il muschio, l’acqua di rose, le erbe mediterranee, il cuore ancora crudo, nonostante l’età, della sua carica aromatica. L’ossidazione è serenamente compiuta. Il liquido è sottile, quasi indifeso: non fa mistero di una quieta maturità. A tratti scalcia, non concede a nessuno di restare indifferente.
Non si può restare insensibili neppure quando entra in bocca. Siamo oltre il concetto, tutto francese, di fondu, “fusione”. Fieuzal fa tutti gli sforzi per tenere in armonia il sapore; nonostante questo, gras e furia acida continuano a fare strada assieme su binari affiancati. Comune è la ragion d’essere; il Sémillon scatena un’energia tartarica ostinata, che si prende la responsabilità della fase centrale dello sviluppo. L’ingresso e la chiusura, con una consistenza convessa, sono iniziativa del rovere, che ci mette calma e mestiere. Eccolo, il gras: non cerca di sbarazzarsi dell’acidità, nemmeno di domarla, è cosciente del suo gregariato. Quando se ne va, questo ’96 lascia una linea salina quasi impalpabile, una chiara impronta agrumata, l’evocazione dell’amaro e un’acidità elementare che non si risolverà più.
Ciò che Fieuzal non sa fare è raddrizzare la postura: dopo due ore, il bicchiere è ancora vivo, ma la sensazione si è raccolta – le due bottiglie respirano in maniera diversa, una più burrosa, l’altra più pungente – e il rovere ha guadagnato un po’ di terreno, pur senza esibizioni di forza.
L’incontro con il Pouligny-Saint-Pierre è fulminante: il vino spende parte della sua acidità sul grasso, unendo l’altra quota all’acidità del caprino in una sovrapposizione paradossale. Liquido e formaggio avanzano insieme, si miscelano in una preziosa suggestione di nocciola tostata; poi Fieuzal rende l’onore delle armi e si prende cura di conservare una sensazione di freschezza sullo strepitoso finale del Pouligny.

Haut-Bailly arriva col merletto, quando in noi è vivo il desiderio della sostanza, quasi si è creata l’ansia del rosso. Ci vuole qualche minuto per ripulire il bicchiere e svelare una ciliegia matura, precisa, elegante. L’inizio è discreto; qualcuno è sorpreso da tutta questa timidezza. Accenni di ferro, di piccoli frutti neri… il vino ha un moto di ritegno e si dispone con l’ordine imposto da un protocollo ufficiale. Quando lo mettiamo in bocca ha appena abbozzato la sua fisionomia cremosa, fruttata e opaca. Ha giusto iniziato a fare il grande classico. E’ il timbro accurato, maturo e lineare in cui si riconosce la filosofia di Emile Peynaud, che tenne Haut-Bailly tra i suoi châteaux d’affezione. Il suo metodo è la misura. Una corrispondenza gusto-olfattiva da manuale, con la frutta che torna senza esitazioni ma priva di fronzoli. Il tannino è sottilissimo e diffuso. Non incide con vigore, ma mostra ciò che i francesi chiamano souplesse: flessibilità. È malleabile come il giunco e del vegetale ha anche l’aspetto succoso. Questo vino ha la missione di accompagnare la bocca.
Quando arriva la delicata intensità del maiorchino di Erasmo Gastaldello – talmente gentile da sbalordire chi scopre che si tratta di latte di capra e pecora – Haut-Bailly non perde la flemma: dispone il finissimo tannino nella grana compatta e friabile del formaggio, disseta con una lucida liquidità che per un attimo ci fa pensare ai più riusciti Dolcetti di Beppe Rinaldi; si accomiata con la grazia di chi non ci pensa proprio a gareggiare con i muscoli e la persistenza. Insomma: subisce con dignità la superiorità del formaggio, ma non fa una smorfia.
Senza smarrire il suo aristocratico puntiglio, il rosso delle Graves consuma un poco della sua purezza a bicchiere aperto, quando il frutto si fa più smaccato, e il portamento si rilassa. Sorge un filo di rammarico in me, ma lascio volentieri l’ultima parola a chi non riesce a trattenere «Però è buono!»

Haut-Marbuzet è subito espressivo. Aperto, infervorato, non fa molti sforzi per nascondere il compiaciuto tono torrefatto del legno di cui non si libererà più, anzi crescerà con il passare del tempo. Lo spettro odoroso è dolce, qualcuno lo trova subito polveroso, con ricordi di cipria e un’urgenza nel concedersi che confondono dopo il garbo di Haut-Bailly. Lo stacco stilistico è chiaro, ma a parità di annata c’è anche la zampa del terroir, con la nota terragna di Saint-Estèphe.
In bocca arriva con volume e calore; il tannino è fisico, granuloso, asciuga a macchia di leopardo. Cresce il sentore di caffelatte, anche se con un po’ di pazienza questo cru bourgeois smaltisce parte della sua smania, s’acquieta, recupera contegno formale se non purezza espressiva.
Sul manzo marinato, sottile e tenue, è francamente eccessivo: sacrifica la delicatezza della carne imponendo il suo tannino rugoso. Le fettine non trovano un adeguato rispetto neppure con Haut-Bailly, che svela il suo cuore verde sotto la pressione della pur leggerissima marinatura.

Arriva il momento di Léoville Poyferré. Fa ciò che ci si aspetta da lui: ammicca con il naso vellutato e cremoso, mette in mostra la miglior perizia enologica di Bordeaux. Panna, un pizzico di vaniglia, ma anche sentori di ferro, di metano, che portano in secondo piano la componente fruttata. Questa è “piacevolezza ad alta definizione”, e il successo nella sala è immediato. Oltre alla mano abile della squadra guidata da Michel Rolland, montano in superficie la sobria, equilibrata finezza di Saint-Julien e la fisionomia più completa del 1998 sull’annata successiva.
Il vino prende possesso della bocca con studiata autorevolezza: sistema il suo morbido tannino, ordina l’acidità e non accusa l’incertezza centrale che un po’ di mancanza di concentrazione aveva concesso a Haut-Marbuzet.
Tutta l’efficacia di una fisionomia così ben congegnata si svela sulla mortadella di Bologna con tartufo nero, una piacevole creazione che unisce la morbida carnosità della pasta con la potente aromaticità del tubero. Qui serve un vino che si conceda con fare ovattato, che sostenga l’intensità sapida con la giusta morbidezza, che lasci fare il tartufo senza opporre una massiccia presenza odorosa. E’ Poyferré, che spende la sua dosata freschezza sui generosi inserti di grasso della mortadella. Questa è puntuale connivenza.

A Château Soutard spetta il compito di concludere. Lo fa con sicurezza: cambia registro, risveglia un’attenzione beata dal piacere e dalla nascente ebbrezza. Lo stacco stilistico viene con la rustica fragranza dei profumi, una quota vegetale ben fusa, un’articolazione precisa. Si avverte anche la solidità del terroir calcareo, assieme a una complessità odorosa superiore. La materia è franca, la vicinanza della terra più forte. Dal fondo sala qualcuno esclama: «Oh! torniamo sulla terra, questo è un vino umano!» e si allunga sulla sedia. In bocca il ‘95 è tosto; non sfodera opulenza ma rigore, la materia si preoccupa di distendersi sul centro della lingua, lasciando ai lati una limpida freschezza. Non c’è esibizione di muscoli né di adipe; ma neppure di nervi. Il suo gabarit è slanciato, come un corridore: tensione senza sproporzioni, padronanza della strada. Meriterebbe di essere aspettato, di dedicargli la pazienza che ha avuto negli ultimi dieci anni. Purtroppo è tardi.
Allora lo mettiamo alla prova sulla grananglona, un grana di pecora sarda, nella cui salata sabbiosità Soutard si insinua con precisione, e la lieve dolcezza con cui il formaggio chiude smussa il carattere un po’ burbero del vino. La sua è l’anima del Merlot di razza.

E’ mezzanotte. Bisogna sloggiare. Puliamo, incartiamo, imballiamo, riordiniamo, spegniamo, scendiamo, chiudiamo. Respiriamo un po’. C’è soddisfazione nell’aria. «Vi sono piaciuti i vini»? Sì, un gran bel bere. «Li comprereste»? Beh, forse l’ultimo… Eppure c’è soddisfazione nell’aria. Un gran bel bere, un gran bel mangiare.

Monto in auto, guido fino a casa, scarico tutto. Risalgo in macchina, cerco un parcheggio. Lo trovo di fronte al pub, dinanzi al quale un crocchio di ragazzi fuma l’ultima sigaretta. E’ quasi l’una del giovedì mattina. L’aria è freschissima – penso con preoccupazione all’afa che si prepara per i prossimi mesi. Respiro. Ieri ha piovuto, oggi ha fatto vento, curiosamente a Milano si respira. Mani in tasca, passeggio verso casa e passo davanti al pub. Lo stomaco è soddisfatto, forse anche la mente. Mi fermo, esito un attimo, ho già bevuto qualche calice di vino, diversi bicchieri d’acqua. Ho bevuto Bordeaux, non càpita spesso. Eppure è l’istinto che mi guida. Entro, saluto, non c’è quasi più nessuno, chiedo se faccio in tempo a bere una cosa o se stanno chiudendo. «Che cosa vuoi»? Una Murphy’s piccola. Arriva la stout, fresca, nera, quasi ferma. Poca schiuma. Tre euro. Pago, ringrazio, mi siedo sullo sgabello di fronte al banco vuoto. Il primo sorso, come dice Philippe Delerm. Eccoci. Bastano pochi minuti: un secondo sorso più copioso, poi il terzo. Questa stout sta cancellando la traccia di Bordeaux? ne sta propagando l’eco? è solo sete? sta concludendo ciò che il vino non ha saputo concludere? è solo nostalgia? è stanchezza? è un modo di lavare via il lavoro?