Conte d’automne I

Autunno: tempo di vendemmia. E di guide. La più nota e diffusa fra le enografiche francesi, ogni anno recita cosa c’è di nuovo nelle varie regioni vitivinicole. In questi giorni ce lo siamo chiesti anche noi: quoi de neuf en Toscane? E in Chianti?
I più hanno già svinato, i ritardatari si attardano alle fermentazioni. Qualcuno inizia la raccolta delle olive ma di olio ancora non si parla: quasi una scaramanzia, anche se le drupe sembrano belle. Una strana e poco toscana prudenza quindi, che pare essere la conseguenza delle infinite difficoltà viticole di quest’annata.


Che vendemmia sia stata, è ancora presto per dirlo. Tuttavia qualche costante c’è: poca quantità e poco alcol, molta muffa, dappertutto si sente ripetere che «il vicino ha svinato quando noi si è iniziato a raccogliere»; e, alla domanda «com’è andata?», anche gli amici/colleghi si fanno spallucce e rispondono, con lo sguardo perso in chissà che pensieri: «si starà a vedere!». Fatalismo toscano che la dice lunga sulle prospettive del Sangiovese 2013. Ma nonostante queste premesse, stampa on-line e tv diffondono proclami da vendemmia del secolo. Mentre ancora non ci siamo ripresi dalla dispepsia da Tre Bicchieri – sempre più istituzionali – si leggono castronerie ed espressioni reader’s digest. L’ultima della serie è “vendemmia vintage”, da intendersi come “annata classica” (!), non fosse altro per le scadenze di raccolto. Ma se ormai, da almeno dieci anni a questa parte, le tempistiche denunciano un anticipo condiviso in tutti i comparti produttivi europei, come può essere definita “classica” una vendemmia eccentrica, con tempi di raccolta da fine anni ottanta, specialmente in questa regione, che ha visto un’accelerazione da record nelle maturazioni tecnologiche a scapito delle polifenoliche? Il clima è cambiato – e cambierà ancora, visto che siamo in un’era interglaciale – e quel che era normale negli anni novanta oggi non lo è più; quel che era climatologicamente “classico” nel ’94 o nel ’98, nel panorama di tropicalizzazione attuale va considerato irregolare. E, comunque, quest’ultima annata – è bene ricordarlo – ha visto solo fenomeni eccezionali: piogge monsoniche in maggio, peronospora in giugno, stress idrico in luglio e agosto, alluvioni in settembre e ottobre.
[Ci sono mancate solo le cavallette… ma è meglio non scherzarci troppo, vista la loro comparsa quest’estate in Veneto!]
Per il secondo anno consecutivo, in aree di non massima vocazione per i vitigni a bacca rossa – e per il sangiovese in particolare – qualcuno non ha staccato neanche un acino. E quello stesso qualcuno guarda, con l’impazienza del padre apprensivo, ai fermentini in cui ribolle la Vernaccia e alla vigna nuova dove alligna il Pinot Nero…
Non consolano nemmeno le testimonianze di coloro i quali hanno assistito a una vera e propria arte orafa al tavolo di cernita. Insomma, forse sarà l’ennesima stagione dei precoci – laddove ha senso ancora produrli, il che non è così scontato –, ma l’impressione generale è di un’annata in cupa attesa: attesa della prossima fioritura, ma anche attesa dell’imbottigliamento degli stoccaggi e della dipartita dell’odiato invenduto, che è tanto.
Emile Peynaud sosteneva che i vitigni si esprimono al meglio al loro limite di latitudine – e di altezza. Chissà che forse non si stia assistendo a un riordino dei tradizionali estremi geografici del sangiovese e a una ri-selezione centripeta della sua localizzazione verso le parti più interne delle DOCG storiche. In tal senso non è un caso, infatti, che in queste due ultime annate di tribolazioni il maggior vitigno regionale abbia regalato ottime prestazioni soprattutto a Lamole e Radda, insomma in altitudine.
Eccezione fanno i “miracolosi” o “miracolisti” della biodinamica – veri o presunti tali – per i quali ogni annata è grande, e spesso, per quelli genuini, lo è davvero.
Quel che peggiora, invece, in una maniera davvero drammatica è lo stato di conservazione dei suoli. Interruzioni e voragini, causate dalle bombe d’acqua delle scorse settimane, obbligano a innumerevoli deviazioni. Le frane sbriciolano letteralmente il Chianti Fiorentino. Il bosco ceduo rappresenta l’unico baluardo che si oppone all’erosione. Ma non appena esso viene a mancare, l’arenaria sommitale della Val di Pesa migra verso un fondovalle, ancora gonfio d’acqua, dopo dieci giorni di sostanziale tregua e con temperature sopra i 20 °C.
[E nonostante si sia alzato un vento freddo, stasera a 600 mt si sentono ancora i grilli!]
E i vignaioli aspettano. E rimuginano. Spesso su come poter risparmiare qualcosa a fronte di una crisi di liquidità che sembra insanabile. Qualcuno pensa addirittura di rinunciare alle certificazioni del biologico. Qualcun’altro, magari fra i più “tradizionalisti” e/o “naturalisti”, sentendosi vessato da anni di lotte con le commissioni di degustazioni, fa il “gran rifiuto” – ispirato da alcuni precedenti eccellenti – ed esce dai rispettivi consorzi di appartenenza. Così, non ci resta che registrare una triplice sconfitta: per chi produce e lotta per imporre uno stile meno massificato, e si ritrova costretto a cedere, nonostante i reiterati tentativi di far passare un messaggio inutilizzato, che chiaramente non si vuole recepire; per il territorio, che irrimediabilmente rischia di parlare un unico idioma, spesso foresto; per noi, che ci siamo innamorati del vino ché ci sembrava un rifugio di fantasia e plurilinguismo.