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Elogio della pastorizia contemporanea: intervista a Nunzio Marcelli


a cura di lavinia e sandro sangiorgi

Sono stata alla cooperativa “La porta dei parchi” ad Anversa degli Abruzzi (AQ) in una piovosa domenica di ottobre. La nebbia che copriva le cime delle montagne mi ricordava i paesaggi delle Highlands scozzesi; Nunzio Marcelli, pastore, mi ha subito impressionata per la stazza e l’acume. Ho pranzato nel suo agriturismo con i formaggi da lui prodotti e la carne delle sue greggi. Dopo l’abbondante pasto gli ho chiesto se potevo fargli qualche domanda, non so se fosse contento, ma ha accettato e ha parlato a lungo. 

 

[…] Questo viaggio è unidea e durerà la mia vita,
ogni amore è una strada, l
orizzonte è laggiù.
Perché Francesco è un pastore
e ha vissuto trent
anni in un deserto di pietre
per la sua verità.
Sì, ma quei suoi fragili fiori hanno messo radici,
son sbocciati nel vento infiniti nel blu, infiniti nel blu… […]

Ivan Graziani, Radici nel vento, dallalbum Ivangarage, Carosello 1989


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Nunzio: Questo posto è una scommessa fatta oltre quarant’anni fa. Quando ero all’università, a Roma, percepivo che lo stile di vita urbano non faceva per me, sentivo l’esigenza di un ambiente diverso. Ho scritto una tesi sul recupero delle aree interne attraverso l’allevamento ovino, con cui avevo ipotizzato la mia azienda dal punto di vista economico. A scrivere c’è voluto poco, ma poi per la dimostrazione della tesi è servito molto più tempo…
Alice: Quindi già allora avevi immaginato la tua azienda di oggi?
N.: Certo. La immaginavo già a quei tempi, quando ero circondato dai figli dei fiori, dai fricchettoni, dagli indiani metropolitani. Tu sei giovane e non puoi sapere certe cose. Erano anni di grosse incertezze, il terrorismo imperava, non era facile essere ragazzi a quel tempo. Già guardando la struttura dei paesi e l’età degli abitanti mi rendevo conto che il posto da cui venivo stava morendo. Tornavo da Roma e pensavo “tra quarant’anni non ci sarà più ’sto paese”. A un convegno facemmo una proiezione demografica e ci accorgemmo di quanto la situazione fosse drammatica. Pensai che qualche tentativo bisognava farlo.
A.: La tua famiglia era già in questo settore?
N.: No, i miei erano commercianti.
A.: E allora com’è che hai pensato di puntare proprio sulla pastorizia?
N.: Perché?! Perché queste erano le risorse che c’erano qua!
A.: Quindi un giorno ti sei guardato intorno, ti sei chiesto cosa si potesse fare e hai comprato delle pecore?
N.: Avevano da poco aperto l’autostrada, però eravamo nel periodo successivo all’Austerity. Ora sembra orribile il lockdown, ma prima le macchine non giravano mai. Camminavo tanto – cinquanta chili fa potevo camminare – e vivevamo questa situazione serenamente, devo dirti che a quei tempi mi divertivo moltissimo. Gli adulti di quel periodo erano le persone che avevano fatto la guerra, quindi possedevano già l’attitudine ad adattarsi; però nel frattempo invecchiavano.
A.: Quindi la zona di Anversa si stava già spopolando?
N.: Quello che metteva paura era la piramide dell’età. Oggi si parla di Recovery Fund, senza pensare che in certi paesi il numero di persone abili al lavoro è minimo. Tornando alla mia storia, ho sempre cercato di contestualizzare quello che volevo fare al mondo che avevo intorno, per cui la ricerca è andata soprattutto verso forme di marketing diverse da ciò a cui eravamo abituati qui. Non parlo di studi sulla curva del prodotto, mi riferisco proprio alla costruzione di un’identità. Uno dei grossi problemi dei prodotti alimentari è che sono spesso avulsi dal territorio. Per quanto riguarda gli arrosticini, per esempio, da parecchio stiamo parlando della possibilità della DOP. Devi sapere che l’arrosticino abruzzese è prodotto per il 99% da pecore provenienti da fuori dall’Abruzzo.
A.: Quindi gli animali arrivano in Abruzzo dall’estero già macellati?
N.: Sì, già macellati, e poi sono lavorati qui. La grande distribuzione non ha alcun interesse a tutelare l’arrosticino chiedendo la DOP, perché altrimenti dovrebbe dichiarare la provenienza non abruzzese, la non completa autenticità. Quindi la questione rimane nell’equivoco. Il problema è che ora gli arrosticini iniziano a farli anche all’estero, quindi da che erano un emblema abruzzese ora si stanno snaturando. Probabilmente verranno sempre di più da luoghi dove i costi di produzione sono decisamente più bassi e perderemo anche questa prerogativa. Per questo stiamo lavorando per cominciare a produrre gli arrosticini con la carne degli agnelli che ha già l’IGP, garantendo così identità e tracciabilità.
A.: Qual è la prerogativa principale della tua azienda?
N.: La definirei la “costante”: negli ultimi decenni è l’attenzione alla produzione. Non facciamo niente di eccezionale, se non curare la materia prima. Le cose che ci interessano sono: portare sempre gli animali al pascolo, mantenere il loro benessere, lasciare che scelgano cosa mangiare.
A.: Quindi lasciate gli animali sempre liberi di mangiare quello che vogliono?
N.: Sempre.
A.: Quante pecore hai?
N.: 1300.
A.: E tutte nascono, crescono e muoiono qui?
N.: Sì. A un certo punto abbiamo capito che ogni laboratorio di trasformazione, piccolo o grande, ha gli stessi costi. I veterinari stessi ci dicevano di lasciar perdere, di vendere la materia prima.
A.: Invece voi volevate trasformare le pecore…
N.: Era indispensabile. Se volessimo vendere il latte a un prezzo buono ce lo pagherebbero un euro. Trasformandolo arriviamo a fare anche 4-5 euro. Noi vogliamo lavorare poco ma in casa. La stessa cosa vale per il mattatoio.
A.: Macellate tutto voi?
N.: Sì e questo fa la differenza. Un animale quando lo togli dal suo ambiente e lo porti al macello produce una carica di adrenalina tossica. Avvengono dei processi potenti dal punto di vista muscolare che bruciano tutto il glucosio a disposizione. È come quando sei affaticato o spaventato, senti che i muscoli sono senza energia. Pensa a un animale che è stato allevato in un posto e poi viene preso con la forza, messo su un camion e gli vengono fatti fare cinquanta chilometri. Come pensi che possa stare? Non è stato facile ottenere il mattatoio. Fu difficile far comprendere alle istituzioni le necessità di una dimensione piccola come la nostra, che peraltro non era contemplata. La regione immagina dei procedimenti per gli stabilimenti che si occupano di una certa cosa ma, per loro, se fanno venti o ventimila capi è lo stesso. È chiaro che da noi non può funzionare così, è dura.

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A.: Negli anni la situazione politica è un po’ migliorata o è sempre la stessa?
N.: Adesso secondo me manca proprio l’interfaccia. Se scrivi alla regione, non ti risponde nemmeno.
A.: Quindi il problema è stato estirpato alla radice…
N.: Mentre prima notavi una certa considerazione, ti dicevano cosa fare e non fare, illustravano le norme, ora non ti rispondono proprio.
A.: Può quasi essere un vantaggio, a quel punto agisci e basta.
N.: Sì però poi arrivano i NAS.
A.: I controlli sono tanti?
N.: Fino ad ora è capitato cinque o sei volte. Per fortuna ne usciamo sempre bene. Solo il primo è stato difficile, perché eravamo alle prime armi. In Abruzzo siamo passati improvvisamente dalla cultura della capanna in montagna e del caldaio sotto i ponti a tutta una serie di regole rigide. Insomma… La volta del primo controllo, quando siamo passati alle verifiche sulla parte amministrativa, ci hanno chiesto l’autorizzazione e non c’era. L’avevamo richiesta due anni prima alla ASL, che tergiversava. Loro non potevano crederci, allora li abbiamo portati in Comune. Abbiamo mostrato loro le tante richieste che avevamo fatto. I NAS sono arrivati a pensare di dover procedere non nei confronti nostri ma del comune, perché noi avevamo tutto in regola. Il giorno dopo ovviamente l’autorizzazione è arrivata.
A.: Quanto latte riuscite a produrre al giorno?
N.: 200 litri.
A.: E una pecora quanto latte fa?
N.: Dipende dal periodo di lattazione. Questo (ottobre) per esempio è il minore, ovviamente dopo il parto è al massimo. Noi però lasciamo gli agnelli alle madri fino allo svezzamento e quindi una parte del latte va a loro.
A.: E quando siete al pascolo riuscite a mungere ovunque vi troviate?
N.: Di solito sì, però da un paio d’anni non riusciamo, perché non abbiamo sufficiente acqua per lavare la mungitrice. Anche in quel caso abbiamo provato a parlarne con la regione. Il patrimonio che era del ministero dell’agricoltura è ultimamente passato alle regioni. Per un periodo è stato amministrato dalla forestale, su delega della regione. Ci sono dei patrimoni a Roccaraso, Fonte dell’Eremita, dove dentro hanno addirittura fatto un ristorante.
A.: Anche la Montagna Spaccata è compresa in quest’area? È un posto bellissimo, so che era accessibile finché era gestito dalla forestale, ora non apre da due anni.
N.: Sì, noi lì portiamo le pecore! Visto che non l’aprivano abbiamo fatto una richiesta. In quelle zone non prende il telefono, quindi per noi quell’area è comoda perché è un punto di riferimento, visto che tutti sanno dov’è la Montagna Spaccata. Se qualcuno ha bisogno di noi basta dire che siamo lì e siamo facilmente raggiungibili. C’è un bel movimento. Eravamo disposti a prenderla in gestione insieme ad altri allevatori. Ovviamente anche in quel caso non è stato possibile per motivi burocratici. Sono luoghi bellissimi, ci riproveremo.

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A.: Quali sono le possibilità di un’area interna?
N.: L’ambiente naturale dell’appennino abruzzese è erroneamente considerato uno sviluppo spontaneo, come se tutto fosse accaduto a prescindere dall’azione dell’uomo. Il contesto naturale che oggi abbiamo di fronte, però, non è altro che il risultato di un’azione antropica che si è svolta nel corso dei millenni. Il fatto che per la prima volta nella storia si assiste a una regressione della densità di popolazione montana è un grosso problema. Lo spopolamento comporta la scomparsa dell’originario e consolidato modello che nel corso dei millenni ha dimostrato di avere equilibrio, rinnovabilità e sostenibilità. Anzi, il lavoro umano, in particolare l’agricoltura, ha addirittura favorito l’inserimento di alcune piante che altrimenti non avrebbero resistito, penso all’ulivo e in generale alla frutticultura. Pastorizia vuol dire secoli di presenza umana abbastanza consistente, che continua a rappresentare una garanzia per lo sviluppo del territorio.
A.: Mi parleresti del latte di capra?
N.: Avevo un progetto in mente, volevo creare una rete per la sua introduzione nell’alimentazione e per diffonderlo sul territorio. Pensavo di mettere i caprini, gli animali, su ruote per favorire la manutenzione del territorio. Tu li porti in un luogo, li lasci dieci giorni, loro puliscono tutto. Poi li riprendi, li sposti e pulisci l’area successiva. Bisognerebbe bere più latte di capra. Ora tutti sono allergici a quello di mucca, ma perché? Sarà pure microbiologicamente puro, ma mancano dei componenti che permettono di digerirlo bene.
A.: Cosa succede al latte di mucca?
N.: Intanto lo pastorizzano a 120°. Poi, se per esempio parte dalla Lituania, quando lo trasportano, per far sì che possa essere considerato fresco, ogni due giorni lo devono ripastorizzare.
A.: E così arriva svuotato…
N.: Sì. E quando lo mettono in busta lo vendono come latte fresco. Il latte industriale è sottoposto a determinati passaggi che ne riducono notevolmente le qualità nutrizionali e nutraceutiche. L’uso di medicinali volti a tutelare la capacità produttiva ha compromesso la sua diversità microbiologica e il prodotto stesso, la sua biodiversità. La pastorizia di tipo tradizionale e l’uso di risorse alimentari spontanee per gli animali da latte conferiscono al prodotto finale, cioè al latte e di conseguenza ai formaggi, qualità nutraceutiche quasi curative.
A.: Mi spieghi perché il latte può essere nutraceutico?
N.: Il termine nutraceutico vale per tutti quegli alimenti che hanno delle proprietà che prevengono o riducono l’impatto di una patologia, per esempio da carenza di vitamine. La nutraceutica, che venne abbandonata solo perché non si poteva applicare alle grandi quantità di cibo, adesso viene presa di nuovo in considerazione. C’è una parte della ricerca che sta studiando e approfondendo gli elementi base di questa disciplina. Stanno dimostrando che se si lavora senza esagerare o forzare, si può ottenere un alimento finito con queste proprietà. Alimenti di questo tipo possono essere prodotti nelle aree interne incontaminate e utilizzate dall’uomo per altri scopi, che quindi hanno mantenuto la capacità di dare vita a un prodotto di qualità.
A.: Com’è il latte di capra a livello nutrizionale?
N.: Il vero latte di capra è leggero e ha delle proprietà incredibili. Tutto dipende da quello che mangia l’animale. Nella zona in cui si trovano oggi le nostre capre ci sono molti arbusti pieni di gemme, che sono piene di olii essenziali e quindi principi attivi. Il latte a quel punto non è pesante come quando costringi la capra a mangiare alimenti meno sani. Immaginala così: il latte di mucca industriale sta al Tavernello come un buon latte di capra sta a un vino naturale.
A.: Quindi il problema del latte di mucca è sostanzialmente il modo in cui viene lavorato?
N.: Il latte di mucca che oggi riempie gli scaffali dei supermercati è un latte che ha subito talmente tanti trattamenti da aver perso le caratteristiche di quello originario e che quindi è sempre meno salubre. I motivi sono la conservazione, le modalità e i costi di produzione. Il modo industriale è molto più economico di quello tradizionale, per questo l’ente pubblico dovrebbe intervenire per compensare i costi. In qualche modo questo è previsto ed è possibile ottenerlo dagli stanziamenti per l’agricoltura. Tuttavia stiamo assistendo impotenti a un’espropriazione graduale dei pascoli, che vengono utilizzati non per produrre ma per incassare i titoli disaccoppiati della PAC (Politica Agricola Comune). Per me rappresenta lo strumento che distruggerà definitivamente il sistema produttivo, soprattutto delle aree interne. Tutto si basa sul possesso di un titolo disaccoppiato dalla produzione. Ti faccio un esempio: un produttore coltivava il tabacco nella pianura padana e per questo motivo aveva diritto a un indennizzo. A volte è anche sostanzioso, perché tiene conto della differenza tra il costo di produzione e quello che poi si ottiene dalla vendita. A un certo punto si sono inventati il disaccoppiamento. Non è necessario coltivare un ettaro di tabacco, basta avere un ettaro di terra. Questi ettari di terra dove si trovano più a buon mercato? Sulle montagne. Allora cosa hanno fatto i titolari dei titoli? Trasferiscono i titoli sulle montagne, dove per adempiere al pascolamento basta portare dei somari o animali che non producono, incassando comunque il denaro. Succede però che se il pascolo viene occupato da chi ha titoli molto alti, chi esercita ancora la pastorizia non può più lavorare in quel settore. Complice di questo meccanismo è la pubblica amministrazione, che consente una speculazione terribile, architettata nello specifico dal ministero dell’agricoltura. Poche persone incassano sostegni della PAC per svariati milioni di euro, senza produrre nemmeno un litro di latte. C’è uno in Abruzzo che viene dal nord, mi hanno detto che incassa intorno ai 40 milioni di euro. Sono cifre spaventose, tutti fondi destinati all’agricoltura.
A.: E com’è possibile?
N.: Basta avere 10 o 15mila ettari di montagna. Magari poi lui li ha affittati ai comuni.
A.: Quindi è un circolo vizioso in cui lo Stato non fa che pagare?
N.: Lo Stato avrebbe dovuto modificare questi regolamenti e continuare a dare dei sostegni solo dove c’è produzione. Invece no.
A.: Quindi, per tornare alla tua storia, mi hai detto che i tuoi genitori erano commercianti. Quindi come hai imparato il mestiere, come sei passato dalla teoria della tua tesi alla pratica?
N.: Ho imparato con i vecchi. Andavo a dare una mano, la mia scuola è stata quella.

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A.: Voi pastori riuscite a fare rete?
N.: Non è facile. Avevamo creato una rete, ma è complicato stare insieme e farsi rappresentare. Ovviamente ci sono delle realtà che stimo a Scanno, a Villetta Barrea, a Castel del Monte. Sono tutte iniziative che si sono sviluppate durante la rivoluzione culturale che c’è stata in questo campo intorno agli anni ottanta. Spesso mi sento molto più in linea con i miei collaboratori rumeni, macedoni, pakistani, marocchini, che hanno veramente capito lo spirito di questo luogo, che non con i miei concittadini che stanno al bar a bere lo spritz e a parlare di partite e non sanno più come si amministra un territorio. L’Abruzzo ha delle risorse che non puoi gestire solo perché tuo nonno ti ha lasciato la casa e le terre. Oggi c’è la “pastorizia per i contributi”: se la pecora produce o meno non interessa a nessuno, basta averla. L’unico obbligo è pascolare gli ettari acquistati. Allora magari io ho le pecore, un altro ha le terre sulle quali deve necessariamente pascolare per ottenere i contributi (anche se non ha le pecore) e mi chiede di pascolare sui suoi campi per tre mesi l’anno. Io non so dove andare, lui non ha le pecore, ci mettiamo d’accordo e siamo entrambi contenti, ma problema è che così non si cresce. C’è stata anche la moria degli asini che erano stati lasciati incustoditi in montagna per dimostrare che i terreni erano utilizzati, che il pascolo c’era. In un posto qui vicino gli asini erano 190, ne hanno riportati vivi 60. I lupi hanno fatto festa, così come i grifoni, che erano diventati dei tacchini a forza di mangiare le carcasse dei somari, non riuscivano neanche più a camminare.
A.: Ci sono tanti lupi da queste parti?
N.: Guarda, ne abbiamo incontrato uno la settimana scorsa. Due becchi si sono allontanati dal gregge, il lupo ci osservava da giorni… Quando si è reso conto che i due si erano appartati ha attaccato. Se succede il Parco ci ripaga. Per fortuna non capita quasi mai. Io rispetto il lupo perché è una creatura evoluta. Non è come i cinghiali, che si riproducono ovunque. Se in un certo territorio possono vivere dieci lupi, nel caso in cui aumentano qualcuno emigra. È per questo che sopravvivono, perché la pressione non è mai eccessiva. E poi il lupo attacca quando è sicuro, quando i cani non ci sono o sono distratti. Non perché ha paura dei cani, ma perché evita i combattimenti inutili. Se il cane viene ferito c’è chi lo cura, invece il lupo sa di non poter essere curato. È un animale incredibile.

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A.: Vuoi parlarmi del futuro della tua azienda?
N.: Oggi è importante fare grandi numeri e la montagna non può farli, se vuole mantenere la qualità dei suoi prodotti. È impossibile per noi essere in linea con la politica della grande distribuzione. Il consumatore di solito compra quello che gli viene messo davanti, non ricerca, ha poca consapevolezza. Avremmo bisogno, come molte altre attività, di una pianificazione soprattutto regionale. La regione invece brancola nel buio, i rapporti con la regione sono nulli e, se ci sono, ci ritroviamo davanti un muro di gomma. Nonostante questo andiamo avanti.