I mieli di domani di Andrea Paternoster

Quando vedo che mi stanno morendo così sulla neve le raccolgo nel palmo della mano e con il fiato le rianimo e poi le ripongo sull’uscio delle loro case.
Ecco, per tutto questo, per non lasciarle senza scorte in primavera, nel tardo autunno opero in maniera che i favi siano ben ricolmi di miele perché solo così, a maggio, quando i prati appariranno come un quadro di Van Gogh per l’esplosione della fioritura del tarassaco, le arnie si ritroveranno popolate; e con l’aiuto del sole la raccolta di polline e di nettare sarà abbondante e acuto e aspro, a sera, il profumo attorno all’apiario.
Mario Rigoni Stern, Uomini, boschi e api, Einaudi, Torino 1980

Il più importante ruolo dell’apicoltore è quello di essere un traduttore, interprete del linguaggio degli insetti tutti.
Il suo rapporto intimo e privilegiato con l’ape permette di raccogliere il grido allarmato e salvifico di questi minuscoli animali per mettere al centro della nostra attenzione la salute del pianeta.
L’apicoltore è ambasciatore di lingue “naturali”, ancestrali e diverse per dare luogo a una nuova letteratura il cui soggetto protagonista si chiama rispetto.
Andrea Paternoster, Miele, in M. Donà-E. Sgarbi (a cura di), Pantagruel, La Nave di Teseo, Milano 2020, p. 401.

a sinistra Andrea Bezzecchi, proprietario dell’Acetaia San Giacomo e, a destra, Andrea Paternoster

 

Nel mondo del miele e delle api c’è un prima e c’è un dopo Andrea Paternoster.
Andrea non era semplicemente quel tipo di genialità con un’idea vincente. Andrea aveva concepito, anzitutto, un pensiero, una visione lucidissima ed estremamente articolata di come e cosa sarebbe dovuto essere il suo mondo delle api e del miele. Mai pago, sempre in cerca di nuove sperimentazioni, prima di innovare, creava. Dalle selezioni di mieli monoflorali raccolte in giro per l’Italia, alla mielicromia (per dire, anzitutto, che il miele non è solo giallo e liquido), passando per le marinature ‘impossibili’ divenute ormai delle pratiche imprescindibili della cucina italiana, fino alle panificazioni con i mieli più rari e l’impiego del «puro ingrediente» – così Andrea chiamava il “suo” miele – nelle ricette di grandi pasticceri. Per non parlare del più recente amore per i fermentati: gli aceti di miele e i suoi siderali idromieli1 che già dai nomi restituiscono il senso di quella dinamicità sempre in fieri che era Andrea Paternoster. Le varie versioni dell’idromele, le “Beta” (una di abete, l’altra di agrumi), la versione “Sintesi” primo punto di approdo compiuto dopo tante alchimie fermentative e poi l’“Esuberante”, un idromiele metodo classico che solo il descrittivo è tutto un programma (la grafia tutta in minuscolo è la sua): «sboccato il 9 novembre 2019 e rabboccato con se stesso. tutto semplice se per 27 mesi la fortuna decide di assisterti ogni santo giorno. bevetelo senza preconcetti, fatevelo amico, è autorevole, per niente esclusivo, siate autoironici come lui, voi partite avvantaggiati, l’esuberante adora i curiosi».
Andrea Paternoster era così. Sapeva di muovere passi in luoghi inesplorati, sapeva che stava costruendo qualcosa di assolutamente inedito. Parlare del miele, al plurale, come fosse un’esperienza che nulla avesse in comune con quella sostanza dolcificante che era circolata fino a quel momento. «Il mio» – gli ho sentito dire più volte – «è l’unico miele che non fa bene», tanto era mosso dall’esigenza di sottrarre il «puro ingrediente» dall’immaginario al quale era stato relegato per troppo tempo. Le parole del miele, la sua ossessione, quella di colui che scopre una materia ignota (e ignorata) che deve essere espressa, deve essere comunicata e restituita alla “propria” natura. Da acuto osservatore dell’amplesso mellifero tra ape e fiore sapeva come la gamma sensoriale dei mieli fosse immediatamente connessa all’evocazione di mille altri mondi possibili, sognati, desiderati o anche perduti, che il miele ha la forza di ridestare. Tempo fa al telefono mi parlava di ripensare alcuni descrittivi dei suoi mieli: «ecco, mi diceva, hai in mano un miele di erica e ti ritrovi catapultato a Marrakesh, c’è la piazza affollata, le folate di spezie, qualche nota animale (soprattutto ovina)». La nota maltata di certe melate, poi, era proprio il bricco incrostato per scaldare l’orzo del mattino tenuto puntualmente nella credenza delle case dei nonni, e magari qualche pane raffermo per le zuppe. Ed ecco che conversando ognuno vagava verso i propri luoghi, verso le proprie terre dell’infanzia e quelle da venire. Andrea sapeva tutto questo, sapeva che la piazza di Marrakesh o la doppiezza del miele di tarassaco (era solito chiamarlo «Dr Jekyll e Mr Hyde») non era un riferimento allegorico o un’estetizzazione prodotta dall’assaggio dei suoi mieli, ma ne era la prima e più immediata esperienza. Andava detto però. Andava fatto scoprire. Andava messo l’occhio nel barattolo – come fosse un cannocchiale galileiano, ma ora non più tondo, non più ricondotto alle geometrie e alla simbologia dell’alveare, ma squadrato, a forma di diamante – per dire che lì “dentro” ci si sarebbe imbattuti in un’esperienza completamente imprevedibile (ed era, in fondo, un dentro che faceva già segno a un’esteriorità grandiosa, che somigliava piuttosto a quello spazio sterminato attraversato quotidianamente da ogni ape bottinatrice). La forza e la popolarità dei suoi mieli era legata anche a questo: non simboli, ma esperienze di viaggio, diari, promesse d’avvenire.
Chiudo il tappo nero con su il logo “alato” dei Mieli Thun e apro una pagina di un testo che Andrea ha pubblicato poco prima di lasciarci. M’imbatto nel suo cavallo di battaglia, che ripeteva come un mantra, con il suo fare sobrio, essenziale e allo stesso tempo travolgente di una vitalità che lo contraddistingueva: «I mieli sono quindi il profumo dei fiori condenzato dal respiro delle api»2. Lo scrivo come lo avrebbe pronunciato lui, con quella esse che somigliava a una zeta. Era tutta lì la forza evocativa di Andrea, dentro una consonante che fa stringere i denti restituendo, d’improvviso, lo sforzo sovrumano di cui l’ape si fa carico per donarci il nettare di un fiore. Perché sì, ce lo ha insegnato lui, il miele lo fanno i fiori. Andrea ha anche saputo sottrarre l’ape da un immaginario legato alla mera produttività, restituendole un luogo tutto nuovo, un senso di “erotica” relazionalità, nell’accezione più platonica del termine: «Ogni miele è l’espressione profonda del fiore che racconta e rappresenta. La relazione tra ape e fiore è reciproca, paritaria, profonda»3. La prima volta che conobbi Andrea era al telefono con un tale che gli chiedeva se avesse del prodotto disponibile da spedirgli: «Guardi, non vendo nessun prodotto, al massimo posso spedirle del miele».
Andrea Paternoster era un apicoltore nella forma più autentica con cui Aristotele – che con lui, condivideva la stessa passione, la stessa manìa per le api – definiva gli addetti alla «therapeia», ossia alla cura di questi insetti così prodigiosi. E questa cura, questa custodia perpetrata quotidianamente nei confronti dell’ape, lo aveva reso più simile ad essa. Andrea, come l’ape, era perfettamente trasparente a se stesso: il suo fare e l’essere erano una medesima cosa. È per questo che sapeva apparire così appassionato, così convincente, così profondamente vero.
Tra le diciassette parole del Manifesto dei mieli futuristi di Andrea Paternoster ce n’è una che mi ha sempre toccato più delle altre: «indisponibile». Non solo un’indisponibilità quantitativa o stagionale, ma un’indisponibilità essenziale: approcciarsi al miele, significa essere disposti a cambiare profondamente il proprio quadro prospettico, la propria precomprensione di una relazione che dipende sempre – anche – da altro: il miele «paradigma del rapporto ape uomo alimento», come mi scriveva appena una settimana fa dopo aver ascoltato una conversazione con le amiche e gli amici di Porthos. Gli avevamo tenuto compagnia, lui custode indefettibile, durante uno dei suoi viaggi notturni con le sue adorate.
Nel mondo del miele e delle api c’è un prima e c’è un dopo Andrea Paternoster. Questo dopo è tremendamente diverso da quel che ci eravamo immaginati.
Con Andrea se ne va tutto questo e se ne va un grande amico. Se ne va proprio quando il lavoro, pur nella straordinarietà di quanto fatto finora, era appena cominciato. Non so da dove riprenderemo il lavoro rimasto in sospeso. Troppi fili, almeno per me, sembrano irrimediabilmente recisi. Ma se la via apparirà meno impervia, sarà solo grazie al suo smisurato amore per i Mieli e per la «loro ineluttabile, immanente rinascita»4.
Amicus Plato sed magis amicus Paternoster.
_________________
Più correttamente sarebbe “idromele”, come si trova nella descrizione sul sito mielithun.it, ma Andrea in etichetta li chiama Idromiele e Idromieli.
2 Andrea Paternoster, Miele, in M. Donà-E. Sgarbi (a cura di), Pantagruel, La Nave di Teseo, Milano 2020, p. 397.
3 ivi, p. 415
4A. Paternoster-D. Salvi-L. Piana-L. Manias, Dizionario dei mieli nomadi, Corraini Edizioni, Mantova 2008.