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Il diario di Francesco Ferreri

Prima puntata

Ricordo quando, alla scuola elementare, ci dissero di raccogliere gli antichi detti di Pantelleria. Tornai a casa entusiasta, il pomeriggio mia madre mi accompagnò dagli anziani di Kaffefi, la mia contrada. Poi andammo a Kufurà, Bukkuram e infine a Sibà, l’ultima prima della Montagna Grande.Mi sedevo accanto a loro e iniziavano a parlarmi della loro vita e di come fosse scandita dalle stagioni e dai proverbi utili a descrivere ogni circostanza. Segnavo tutto sul mio taccuino e dopo una settimana iniziai anch’io a parlare in rima nel dialetto arcaico.

Putami a Innaro, zappimi a Fivraro, sicunnami ad Aprili e lassimi durmiri.
Potami a gennaio, zappami a febbraio, smuovimi la terra ad aprile e lasciami dormire.

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Questo proverbio riassume l’anno agricolo del viticoltore, è come se a parlare fosse la vite in prima persona, con tutte le cure di cui ha bisogno qui a Pantelleria, circa ottocento ore per ettaro. Si parte a novembre, con l’aratura del terreno “ad aprire”, per immagazzinare acqua e concimare, e con la nettatura, la prepotatura.
A gennaio si ara il terreno “a chiudere”, si pota e si fanno le conche.
Febbraio è il mese della zappatura, attraverso la quale si fa scivolare la terra della conca in modo da coprire l’erbetta che sta nascendo.
Ad Aprile si ssicunna, si passa una seconda volta per togliere l’erba che rispunta. A Pantelleria, il fattore limitante per la produzione dell’uva è la disponibilità d’acqua all’inizio del ciclo vegetativo. Le erbe che crescono competono con la vite per l’acqua. Inoltre, interrando le erbe in primavera, si contribuisce ad arricchire il terreno di sostanza organica.

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Con la primavera le viti germogliano e maggio è il momento della pizzicatura, ovvero la cimatura per favorire l’allegagione e la spidocchiatura, si tolgono tutti i polloni che sottraggono linfa al frutto. Nel frattempo, è importante liberare dalle erbacce i muri e le mulattiere che portano al terreno, inoltre si ricostruiscono i terrazzamenti franati per la pioggia invernale. 
Arriva agosto e inizia la vendemmia. Il pantesco ne fa tre: dalla prima prende i grappoli da far appassire al sole, nella seconda raccoglie l’uva per fare il vino secco e l’ultima per raccogliere i racemi, detti sganguna, il secondo frutto dello zibibbo che a Pantelleria raggiungono piena maturità tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre.
In Italia, sono due le varietà che riescono a portare il secondo frutto a piena maturità: Zibibbo e Primitivo. Gli sganguna sono meno aromatici rispetto al primo frutto, hanno un contenuto zuccherino meno elevato (si arriva intorno ai 12 gradi di alcol potenziale) e un’ottima acidità (intorno ai 6,5 per mille, espressa in acido tartarico). Il contadino li ha sempre usati per fare un vino quotidiano da bere durante le giornate lavorative in campagna. L’etimologia della parola è piuttosto singolare: in dialetto, sganguliato è l’anziano sdentato. Così appare lo zibibbo in autunno, con poche foglie giallastre rimaste sui tralci e questi grappoli spargoli, con pochi acini sparsi qua e là sulle punte.

L’importanza della zappatura
«Ci alzavamo la mattina alle cinque e si faceva un’ora di strada a piedi. L’ultimo pezzo di mulattiera era un dirupo sul vuoto e bisognava tornare indietro prima che facesse buio per non cadere giù. Zu Chicchino aveva una delle garche più belle dentro il cratere di Gelkamar, oggi è sterpaglia e rovi.
Si chiamavano dieci uomini di zappa, questa era l’unità di misura per capire quanto lavoro ci voleva.
I ragazzini e i vecchi andavano avanti con una zappa più leggera, per scoprire le pietre affioranti del terreno. Dietro gli uomini, con una zappa più pesante, rivoltavano le zolle. “A du corpa”, gridava Zu Chicchino, ogni colpo di zappa doveva essere doppio sullo stesso posto, cosi d’andare più in profondità. Finito il lavoro, si andava tutti a casa del proprietario. La moglie preparava un pasto caldo e abbondante e metteva in tavola il vino nivuro (nero). Finito di mangiare, Chicchino imbracciava la fisarmonica e tutti iniziavano a ballare: masculo e masculo, in mancanza di donne. Poi, gli operai venivano pagati e, finalmente, tornavano a casa».
Da un racconto di mio padre Vito, classe 1939.

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Sull’Isola, i terreni coltivati hanno nomi diversi in base alla forma, all’estensione e alla collocazione morfologica. La garca è un appezzamento ampio e quadrangolare che si trova in pianura. Il margettu è una chiusa di terreno rettangolare. La mataretta è un piccolo campo di forma quadrangolare. La tanca è un terreno collinoso e sistemato a terrazze.
L’altro giorno ho ritrovato in un cassetto un libro del 1882: Viticoltura – precetti ad uso dei viticoltori italiani di Ottavio Ottavi, edizione Hoepli. Leggendolo, ho avuto la sensazione di ritrovarmi di fronte a un viticoltore centenario che racconta tutti i segreti per avere una vigna longeva e produttiva. Eppure, ai contadini, le cose le devi rubare con gli occhi. Per esempio, si parlava di zappatura, un lavoro in disuso ovunque ma indispensabile qui a Pantelleria, dove la scarsezza d’acqua è un fattore davvero limitante per l’agricoltura: «[…] La zappatura, elimina le erbe infestanti che competono per l’acqua, introducendo aria, coopera a fertilizzare, facilitando quelle trasformazioni che rendono attivi i principi inerti del suolo, trasformazioni lentissime se scarseggia l’aria. Il terreno smosso, riempiendosi di bolle d’aria, diventa coibente, cioè cattivo conduttore calorico, si riscalda meno e tiene le radici in ambiente fresco. Inoltre, la terra zappata assorbe meglio la rugiada notturna […]». 
Ora si parla tanto di “no tillage”, di lavorare sul sodo. Ovviamente è diverso al Nord, dove bisogna avere un terreno più duro e nel quale si disperda meno il calore. Il “no tillage” o “zero tillage” è una tecnica colturale che consiste nella non lavorazione del terreno. Si usa, principalmente, per colture erbacee e la semina è fatta su sodo, ovvero senza arare il campo.
Trovo scritto sul nostro disciplinare di produzione: «Il contadino pantesco è una razza in via d’estinzione». Se ne vanno poco a poco, i contadini, senza lasciare un’eredità. Hanno voluto altro per i propri figli, lavori meno duri, dove si guadagna bene senza stare tutto il giorno piegati su viti di non più di cinquanta centimetri d’altezza. Così oggi abbiamo i viticoltori “del sabato e della domenica”, persone che durante la settimana lavorano al Comune, alla Posta, nei Vigili del Fuoco o nella Forestale. Essere contadino per il pantesco è diventato un hobby, qualcosa che può incrementare il proprio reddito ma, in fondo, non è indispensabile. Così si è passati da seimila ettari vitati negli anni sessanta a circa cinquecento nel 2000: di questi, oltre cento sono affidati a grandi aziende siciliane che li lavorano con operai provenienti da fuori. Tutto il resto è in abbandono. L’uva viene pagata a partire da 0,28 euro al chilo e ad acquistarne la buona parte sono sempre le stesse grandi aziende siciliane.  
Figuriamoci se qualcuno si mette a zappare… Ormai, il vero alberello pantesco allevato in conche profonde per accumulare umidità e proteggere i suoi fiori dal vento è solo un ricordo. I nuovi impianti sono fatti fuori conca e poi ci si lamenta della siccità degli ultimi due anni o dei venti primaverili che dimezzano la produzione. 
«Il terreno non ha colpa, se l’uva non è pagata come si deve», ripeteva il padre del mio amico Giovanni.