Il fieno di Ponza

E’ periodo di vacanza e la mia mente è a Ponza, l’isola che dà il nome all’arcipelago pontino nel basso Lazio.
Emanuele e sua moglie, con l’aiuto dell’enologo Maurizio De Simone,  da qualche anno cercano di realizzare un sogno.
Emanuele lascia Ponza da bambino. Frequenta la scuola a Napoli, dove attualmente vive e lavora. Tornava nell’isola natia solo per le vacanze, fino a quando riceve in eredità dal nonno poco meno di tre ettari di vigneto suddivisi in una piccola parte che si affaccia sul porto – Pizzicato – e in un’altra, più interessante e difficilmente accessibile – Punta Fieno.
La mia visita alle “Antiche Cantine Migliaccio”, che producono solo ottomila bottiglie l’anno, ha inizio una mattina dei primi di luglio. Al Pizzicato c’è la prima delle tre piccole cantine, che in tempi remoti furono scavate nel tufo. Qui si vinificano le uve coltivate sulle anguste terrazze circostanti e le bottiglie si etichettano a mano.
Le viti sono rinate da rovi e sterpaglie dopo anni d’incuria. Ci si è trovati di fronte a un patrimonio viticolo variegato, in parte eredità dell’ex dominio borbonico, con Biancolella, Forastera, Falanghina, Piedirosso, Aglianico, affiancate da altre provenienti dalle coste laziali, come Moscato di Terracina, e addirittura la Guarnaccia, gemella del Cannonau giunta dalla Sardegna a bordo di qualche peschereccio.
La coltivazione avviene su terrazze sostenute da muri di pietra a secco. E’ qui che si è scelto di reimpiantare il Moscato di Terracina ad alberello, per la futura produzione di un vino dolce.
Lasciamo il Pizzicato per inerpicarci verso Punta Fieno su improbabili sentieri costeggiati da cespugli di mirto, lentisco, more e ginestre, tra i quali ogni tanto fanno capolino alcuni tralci di vite.
Ci sorprendono i tanti profumi, a volte lievi, a volte intensi: timo, finocchietto, fieno, sentori marini.
Discutiamo della nascita della Doc Ponza e delle difficoltà incontrate affinché fossero accettati i vitigni campani, da sempre presenti sull’isola.
Col fiato corto, parliamo di un futuro progetto di turismo del vino, inevitabilmente riservato ai pochi appassionati che abbiano voglia di scarpinare quaranta minuti su una mulattiera.
Il luogo potrebbe essere reso più accessibile dalla costruzione di una strada, ma ai miei nuovi amici pare non interessare, perché intenzionati a preservare l’originale bellezza.
Giungiamo su un pianoro, da cui si gode la vista da un lato del porto, dall’altro del mare aperto e di Palmarola. E’ un’orgia di colori, sui quali spicca l’azzurro in tutte le sue sfumature, il verde dell’aspra natura, il bianco accecante dei costoni di Punta Bianca, il giallo di quelli di Chiaia di Luna.
Finalmente si scende; incontriamo Giustino, uno dei fieri contadini che, nonostante l’età ottuagenaria, si spinge quotidianamente fin quaggiù.
Un albero di gelsi rossi – a cui avidamente rubiamo i frutti – ci offre riparo dalla calura. Scopro una grotta riadattata a conigliera, la cui vista m’intenerisce.
Mi avvisano che siamo finalmente arrivati; la soglia di una grottacantina e la sua frescura sono un premio.
Fare vino qui ha dell’eroico. L’acqua piovana viene raccolta in antiche cisterne, l’energia elettrica è prodotta con un gruppo elettrogeno. Qualsiasi cosa serva, giunge a dorso d’asino o sulle spalle degli uomini. Nel periodo dell’imbottigliamento le bottiglie arrivano vuote negli zaini dei lavoranti, per essere riportate piene in paese a fine giornata.
Resto sbalordita nell’intuire gli sforzi compiuti per trasportare un grande tino in acciaio a temperatura controllata, che mi confermeranno essere stato portato a braccia da quattro uomini.
La fame si fa sentire, e le friselle pomodoro e basilico sono una leccornia. Mentre i miei ospiti si rilassano, mi concentro nella degustazione di vini che, nonostante qualche imperfezione, riescono a emozionare e trasmettere il fascino della terra da cui provengono.
Il Fieno bianco 2005 è salmastro, con note di erba tagliata, fiori di campo e mela limoncella; salinità e freschezza mi sono particolarmente gradite in questa giornata assolata. Il Fieno rosa 2005 ben si sposa con la panzanella al pomodoro appena offerta. Del Fieno rosso 2005 apprezzo un campione in affinamento, che rivela piacevoli note di vaniglia e sensazioni fruttate di amarena, non violate dall’uso del legno. Mi emoziona un sentore di pietra focaia, che richiama l’origine vulcanica di questi luoghi.
Quando conosco il testardo Liberato, responsabile della produzione, mi rendo conto dell’ulteriore difficoltà a dare vita a vini di qualità, quando la caparbia tradizione si scontra con la modernità.
E’ il momento di rimettersi in moto, verso le ultime terrazze che precipitano sul mare. Gioia di bambina.
Il fieno lasciato seccare al sole mi aiuta a scoprire l’etimologia del nome del luogo, dove fin dall’antichità si preparava il foraggio per le bestie.
Tocco la terra di una vigna di Moscato di Terracina – cenere tra le mani. Annuso, ne cerco l’essenza.
Vecchie viti si affacciano da un muro a secco, affinchè – mi spiegano – siano preservate dalla disidratazione.
Scorgo il filo metallico di una teleferica, utilizzata per trasportare i secchi con le uve dei vigneti più bassi fino alla cantina, durante la vendemmia.
Il mare è ancora un miraggio. Durante la discesa approfittiamo dell’ombra di un boschetto di lecci: lo piantò il nonno di Emanuele, suscitando l’ilarità dei vicini che scommettevano su quanto sarebbero sopravvissuti alla siccità.
Dopo alcuni vigneti di nuovo impianto, in prossimità della scogliera si trova l’ultima grottacantina, risalente alla fine dell’Ottocento. Attualmente in disuso, se si riuscirà a realizzare un approdo dal mare, potrebbe essere utilizzata in futuro per lo stoccaggio dei vini o per l’accoglienza dei visitatori.
Dopo l’ultimo tratto di pietraia, godiamo del refrigerio di un bagno.

Magari riuscirò a tornare per la prossima vendemmia. Due braccia in più possono sempre far comodo!