Veni, Vidi, Vinitaly (2001 d.c.)

Il Vinitaly 2001: la cronaca del solito Tristram.

Si parte all’alba, anzi a notte fonda, dorme anche la Lanterna. Acetone vuol arrivare presto e non fare la coda, io approvo, quindi ci fermiamo dopo cento metri per un caffè. Il nastro d’asfalto scorre veloce sotto le ruote del macchinone, il cx aiuta e la nebbia è lontana, ma arrivati a Verona spuntano tir da ogni dove, qui la gente ci va anche a far la spesa, col tir. Rapidi infiliamo una scorciatoia, che Acetone assicura ci porterà difilato ai cancelli, saltando l’ingorgo eterno di questo Veneto che sembra Seoul. Peccato che la scorciatoia sia sbagliata, perdiamo mezz’ora e va bene così, ci sarebbero voluti più caffè. Oggi va meglio che il sabato dell’apocalisse, quello dell’assalto e delle code da raccordo anulare, tanto che quando arriviamo ai fatidici cancelli, il Vinitaly sonnecchia ancora, persino alla reception. Lo scatolotto della stampa è presidiato da un accigliato giovanotto, che mi chiede un tesserino per l’accredito. Spiego che sono sì un collaboratore di una testata, ma non iscritto all’albo; lui mi guarda con disprezzo e scuote la testa come davanti ad un barbone scemo, anche stavolta ho sbagliato camicia. Nel frattempo fruga ogni angolo dello scatolotto, abbiamo parlato inutilmente, lo scatolo è orfano di tabulati e l’accredito può attendere. Non ci avevo pensato, i giornalisti veri il mattino dormono, per smaltire le degustazioni della sera prima, i tabulati quindi arrivano con calma, dopo le brioches. Ringrazio e vado via, al diavolo la stampa ed i tabulati, meno male che abbiamo i biglietti omaggio, e poi è meglio girare in incognito, la prossima volta mi travesto da astemio.

Ai tornelli c’è un oste ligure che più ligure non si può, Acetone lo riconosce, saluta ed attacchiamo discorso, si fa per dire. L’oste non comprerà nulla, gliene interessa poco, tutto è una menata, lui guarderà due piatti e due bicchieri, ma roba da battaglia, andante, non c’è mica bisogno d’altro nel suo locale, centomila a botta per gradire. Ne prendo nota per non correre il rischio di prenotare, si fotta lui ed i suoi piatti da battaglia, io pago con soldi nuovi e piuttosto faccio un picnic. La prima ora è dedicata alle macchine da vino, Acetone guata gli acciai ed i cristalli d’imponenti marchingegni con l’occhio avido di chi vorrebbe tutto. Costano una fortuna, meno male che ci sono i finanziamenti agevolati, per San Sabatini ci vorrebbe un altare coi ceri, qui in mezzo al padiglione. Alcuni stands sono deserti, anche i venditori fanno le ore piccole, gli unici imbecilli che si sono svegliati presto siamo noi, lo sapevo. Bottiglie, scovoli, pompe, tappi, bicchierame e botticelle da acetaia: i parafernalia non finiscono mai, manca solo la Vorwerk Folletto, con la versione da imbottigliamento. E’ il momento dei frigoriferi da vino, vulgo vetrinette. Ce ne sono per tutti i gusti, ma non per tutte le tasche. Aspettiamo che li faccia l’Ariston, poi compreremo anche noi mortali dal portafoglio stretto. Molte di queste vetrinette hanno un’aria vagamente tombale, sembrano sarcofaghi pronti ad inghiottirti, neri o mogano, al massimo verde mela, con i formaggi di plastica all’interno. Niente topi, tutti partiti per Cheese 2001. Cominciano a squillare i telefonini, arrivano le segnalazioni. Corriamo allo stand della Liguria, sperando nella focaccia col bianco. Come da copione, neppure un cracker, per la focaccia aspettavano noi. Il mite Stefano ci guida verso un Pigato corazzato, se non sto attento stramazzo seduta stante, tredici gradi e mezzo di potenza pura che schianterebbe Mangiafuoco. Mentre Acetone intrattiene assessori e produttori sbocconcellando formaggi, spuntati chissà da dove, io interrogo l’artefice sulla sorte di quel cannone, con cosa lo posso bere, blindato com’è? Un bianco da cinghiale, sembrerebbe, con tanti saluti alla tipicità ed al territorio. Ci vorranno piatti e verdure meridionali per gustare un vino ligure, questo il semplice paradosso, che non è una scelta multiculturale, ma il frutto dell’appiattimento su uno schema, il vinone bianco che tremare il mondo fa. Finiamo col rosso, un divertissement che costa fatica e soldi, al solo scopo di dare penetrazione commerciale ai bianchi aziendali. Come dire, faccio un prodotto mediocre per spingere quelli buoni, perché se non hai un rosso, nessuno ti fila. Stefano scuote la testa, rassegnato al mercato, poi ci porta a giandonare altrove, ha scoperto una falanghina che gli piace, la trova tipica. Acetone chiacchiera con il giovane produttore, biondo e d’occhio ceruleo come uno svedese, ma dalla parlata campana che più campana non si può. Prezzi alti, viva la qualità, guarda che bell’etichetta, ne è davvero orgoglioso, come faccio a dirgli che non mi piace? Ci defiliamo a passo felpato e guadagnamo il capannone del Piemonte, dove spuntano facce ed etichette conosciute. E’ il lato triste di una fiera come questa, ci si viene per salutare gli amici, non per conoscerne di nuovi. Un crocchio d’affamati assedia il bioagriturismo Gallo, che io ricordavo solo agri e ritrovo anche bio, miracoli di Kaspar & Jacobi. Approccio il figlio del titolare, mentre affetta salami e distribuisce assaggi vari. Mi sorride gentile, ma li mortacci sua se allunga un crostino. Gli chiedo, sfrontato ma umile, se ci fa gustare qualcosa, lui guarda altrove come un cameriere navigato, poi dicono di liguri e scozzesi. Sorrido e gli auguro di affettarsi anche il pollice, poi andiamo in cerca di qualche stand più ospitale. Da Borgogno i fratelloni sono solitari e assorti, sembrano agenti immobiliari, troppo seri in questo Vinitaly di paillettes e cellulari. Il loro stand sembra quello di un mobiliere di Cantù, solo le foto e qualche albeisa ci riportano a Barolo. A proposito, ne stappano uno e ci offrono anche il chinato, la qualità è quella di sempre, come la loro cortesia. Parliamo anche di Porthos, un poco anche di Acetone e del mitico Toso, un venditore che ricordano tutti come un Lord del tempo che fu.

Una fiera come si deve necessita di servizi adeguati, ecco perché Vinitaly andrebbe fatta a Düsseldorf, non qui nel meridione. Come dice il nostro uomo a Wall Street, un ingorgo a Genova, stretta com’è tra il mare ed il cemento, è banale normalità, ma qui le pianure non mancano, è che sono tutte lottizzate, capannoni e villette coi nani, le strade ed i parcheggi rendono troppo poco al comune ed ai palazzinari. I cessi mobili invece abbondano, sono tutti vicino al motorhome di Caprai, una congiura proletaria. Nero e monolitico, sembra lo stand di Gaja con le ruote. Ci arriviamo a mezzogiorno, sotto un sole caino. Come il solito ho sbagliato l’orario, la degustazione era due ore fa, parecchi gli assenti, non sono l’unico sbadato. Ci siamo persi De Sica e Cernillone, oltre a qualche buon bicchiere, ma la bionda sui gradini è davvero desolata, perché non provate allo stand interno? Forse c’è rimasto qualcosa per voi accattoni… Acetone ha fame, può diventare pericoloso, meglio accompagnarlo ad uno dei lussuosi snack bar, dove fioriscono mortadelle ed hotdog, che innaffiati con acqua minerale, gonfieranno gli stomaci e sosterranno i piedi, ad un prezzo da Portofino. Un’altra stellina ai servizi offerti, grazie mille all’ente fiera, la cui unica preoccupazione è fornire bicchieri puliti, bontà loro.Delle bottiglie invece si occupano variopinti giovanotti dagli anfibi sfondati, che raccattano avanzi di degustazione qua e là, per poi scolarsi il tutto in santa pace. Aspettano fuori di ogni padiglione, riempiono scatole e sorridono allegri, meglio il Solaia della colla.

A proposito, ecco il padiglione della Toscana, quello della mortadella gigante, come dicono sul Forum. Ci avviciniamo allo stand del Castello di Cacchiano, Acetone ne dice un gran bene, come il solito ha ragione. L’azzimato standista è visibilmente straniero, come i due tizi che sta intrattenendo amabilmente, in un italiano ricco di congiuntivi. Qui gli stranieri siamo noi, fortuna che sono gentili e ci sorridono. Assaggiamo con gusto e senza fretta, la qualità merita tempo ed attenzione. Nel frattempo lo stand è assalito da giovani a gruppi, sedicenti ristoratori, sedicenti enotecari, sedicenti quel che si vuole, purché si beva, magie della partita Iva stampata su un biglietto.Circondati dalla folla, troviamo scampo da Isole e Olena, deserto come il Gobi. Per forza, hanno finito tutto, rimane qualche fondo di bottiglia ed un vin santo che non ci impressiona., il fantasma del Cepparello aleggia nello stand. Il winemaker ha un sussulto al biglietto da visita, ma è troppo tardi per tirare fuori la riserva, ci salutiamo e via.

Tra tanti intrugli, spunta anche un po’ di companatico, formaggi e patè in zona Slowfood, veri padroni del vapore alla facciaccia del mondo. Noi assaltiamo la Taberna Imperiale, assaggiando qualche ostia di formaggio da sciùri. Si finisce col grana di pecora, un’anteprima assoluta. Il verdetto è unanime: né carne né pesce. Fugace la visita al padiglione del Friuli, ci fermiamo solo da Venica e Venica. La biondina è angelica ma inflessibile, assaggiate questo e non altro, mi dispiace, tutto finito. Dispiace di più a noi, il tocai ed il sauvignon avrebbero meritato ben altri approfondimenti, magari con lei ed un’amica. Come dice Acetone, lasciate fare il Sauvignon ai friulani, ed anche le biondine, dico io.

Nelle Marche andiamo di fretta, ma ad una svolta vediamo Santucci di Riomaggio, che non ha ancora aperto l’agriturismo, neanche bio; stanco e malinconico come sempre, divide lo stand con Moroder, Sax ne sarebbe contento. Promette di portare dei campioni a Roma e versa quello che può, impressionandoci col Telusiano. Alla fine sorride pure lui, grazie al cielo è lunedì.

Scendiamo lungo l’Adriatico e finiamo in Puglia, affollata e sola. Marco Maci, chi era costui? Un vicino di casa di Albano, con più dipendenti della Fiat ed un direttore marketing che intratterrei volentieri a lungo, comodamente sdraiati. Ci avviciniamo allo stand attratti dai due piani, sembra un bar sulla Croisette, manca solo l’orchestrina. Etichette ignote e nomi di dubbia fantasia ci guardano dalle lussuose teche, degne del museo egizio, finché uno standista di mezz’età ci offre attenzione e qualche bicchiere. Il primitivo ci tramortisce, ovvio quindi chiedere il prezzo di cotanto spingardone. Fermi tutti, chiamiamo la direttrice marketing, responsabile del mercato estero e dei reparti d’assalto. La signora arriva trafelata, era al telefono con New York, in diretta dal Vinbrooklin. Agendona organizer, sciampo recente, blazerino blu professional, carina assai, meglio chiedere del pane, così restiamo svegli e possiamo fare conoscenza. La ragazza è molto pratica, parla di prezzi senza vergogna, mentre l’oste ci bastona con altri rossi. Fate voi tutti questi vini? Comprate l’uva o coltivate? Tutto da soli fanno alla Marco Maci, ettari ed ettari come in Arizona. L’oste è davvero gentile, ci rianima con un piattone di formaggi e friselle con l’olio, mal che vada si mangia. Un ragazzino dietro di noi se ne frega della privacy, la fame è più forte. Allunga una mano e agguanta una frisella, sgocciolando olio sugli sgabelli. Se ne va e neppure ringrazia, si strafoghi lui e l’agriturismo Gallo, che ancora mi sta qui. La degustazione continua, stiamo soccombendo, per l’ultimo rosso ci vuole il cucchiaio, come lo sciroppo. Acetone ha un sobbalzo quando Miss Marketing gli rispiega il listino, nessun problema, la spedizione è a carico nostro. E vorrei vedere, per il vinone di punta ci vuole un cinquantone, che il ricarico da enoteca raddoppia o giù di lì. Insomma, centomila per bere Marco Maci. Il dubbio non mi assale: Ora et Semper, Dom Perignon. Salutiamo la fatalona, torni pure a New York, mentre noi ci alziamo traballanti dagli sgabelli.

Qualche kilometro più tardi, stanchi e un po’ bolsi, ad Acetone viene la fregola del Montepulciano, o forse sono io, davvero non ricordo. Gli stands dell’Abruzzo sono quasi tutti smantellati, tutti a casa ché domani ci si alza presto. E’ storia di tutte le fiere, spiega Fox, l’ultimo giorno si vede la metà, di pomeriggio scappano tutti, ma il biglietto si paga intero, per non sbagliarsi. Ci fermiamo davanti ad un’oasi di etichette sconosciute, c’è ancora qualche bicchiere pulito, lo standista è gentile, nonostante il taglio di capelli. Mentre noi deglutiamo e sputacchiamo, l’anfitrione ci narra di una cantina sotterranea, scavata nella roccia come il Norad, forse la chiameranno Excalibur. Espressione suprema della bioarchitettura, sarà l’opificio vinicolo più moderno d’Europa, illuminato da una piramide di cristallo che spunta dal sottosuolo, sala degustazioni di 110 mq e mura interrate spesse due metri, manco il bunker di Saddam; nessuna interferenza per i maghi dell’olfatto, purché non soffrano di claustrofobia. I padroni, pardon, il gruppo di controllo, ha fatto i soldi con il vino sfuso ed ora si ricicla come alfiere della qualità, ovviamente bio. Una costellazione di aziende impegnate nell’agriturismo, pardon, bioagriturismo, e nella produzione di vini assortiti, dallo chardonnay di foresta al montepulciano da gran prix, passando per i prodotti del territorio, le conserve e ovviamente la pasta, bio anche quella. Di recente hanno più che raddoppiato la produzione mensile, da venti quintali a cinquanta, affidandosi al solito, vecchio, immarcescibile artigiano, c’è n’è sempre uno in agguato, a nobilitare l’industria pesante. Peraltro, il biograno cresce come la gramigna, nessun problema di approvvigionamento, un altro miracolo di Creutzfeldt & Jakob. Gli lascio un biglietto, nella speranza che mi inviti all’inaugurazione della cattedrale, ma non ci spero, è roba da CNN, col tesserino e il tabulato.

Salute.�