Il mercante, l’’esteta e l’’inquisitore

Io al Vivit, all’interno di Vinitaly, ci sono stato. E ho scoperto che è una fiera del vino e dei produttori naturali. Sono stato anche a Villa Favorita e ho scoperto che è un picnic sull’erba in un bel posto.

Mia figlia, di undici anni, ha potuto giocare e si è divertita con un, due, tre, stella.
I vini in entrambi i posti erano buoni, alcuni molto. Però il Vivit era in uno spazio triste e affollato, ostentatamente business, Villa Favorita un’ampia villa veneta con spazi per chiacchierare e buoni servizi di ristorazione.
Mi sono divertito in entrambi i posti, assaggiando.
Però. Però ho notato che alcuni produttori erano presenti ovunque. Ho fatto un giro anche al Vinitaly e ho visto che, talvolta, gli stessi produttori gestivano anche uno stand negli spazi ufficiali all’interno delle regioni di appartenenza.
Fino a tre stand in contemporanea.
Ma mica quelli grandi… Parlo degli insospettabili, tipo Carussin, Cantina Giardino, Costadilà, Emidio Pepe. Umberto Eco, da semiologo, la chiamerebbe ridondanza.
In comunicazione non è sempre una buona cosa. Soprattutto non lo è se confonde il ricettore, il cliente, l’interlocutore. Perché se io sono una cosa, ho un carattere e un modo di pormi o uno stile di interlocuzione, inevitabilmente sono percepito come diverso se l’ambiente in cui sono è un altro.
Sempre Eco parlerebbe di testo e di contesto.
Le stesse parole, usate in contesti alternativi, significano cose diverse.
Perché il contesto condiziona il messaggio.
Di più: è il messaggio.
A parte che essere presenti in più posti contemporaneamente deve essere costoso, c’è una ragione per questa ridondanza.
I viticultori non vogliono mica spendere inutilmente.
I motivi e gli intenti sono, nobilmente, commerciali.
Si spera di intercettare il cliente ovunque passi, e a qualsiasi categoria appartenga. Quindi si presume che il più appassionato e tradizionale cultore dei vini naturali sia a Villa Favorita – quello alla moda – e a Cerea – quello più nature – mentre chi comincia a guardare a questo mondo nel mercato sia al Vivit, e il normale cliente negli spazi del Vinitaly.
Il ragionamento deve essere: se sono dappertutto, sono visibile e vendo a tutti.
Giusto. Ma sorge qualche preoccupazione.
Perché sembrava che finora il mondo dei vini naturali fosse altro.
Un po’ romanticamente, un manipolo di pasdaran del rispetto del territorio. Aedi del contatto diretto con i clienti, appassionati del loro lavoro e dei loro prodotti. Con poca terra e poche bottiglie da vendere. E che quasi si dovesse avere una patente per scegliere di bere questi vini. Come per aderire ad un club di cui si condividessero i valori.
Valori come il culto del vino visto come espressione di un terreno; l’etere, la quintessenza di quella terra da cui viene prodotto.
Una bottiglia come compendio di quel luogo, della sua bellezza, del rispetto dovuto ad una storia.
Nani sulle spalle dei giganti, questi vini.
Dove i giganti non sono solo i produttori che li hanno prodotti in passato. Ma proprio le storie che hanno attraversato quel posto, le vite delle persone, la biodiversità che ha caratterizzato il luogo, la sua corrente magnetica e le sue stesse pietre.
Chi ha avuto occasione di leggere i libri di Nicolas Joly, quello edito da Porthos, o di Salvo Foti capirà al volo. Produrre un vino nella Loira o sull’Etna senza conoscere la filologia e il romanzo di quei luoghi e di quella gente non può, non deve essere possibile. Il critico che parla di un vino naturale dovrebbe partire dal territorio, metabolizzarne i valori.
E giudicare un vino ed il suo produttore anche da come il suo lavoro s’inserisce nell’ambiente.
Rispettandone la diversità e le tipicità.
Il contrario della violenza aggressiva perpetrata nel tempo sulle colline delle DOCG. Dove ogni coltura diversa, ogni bosco, ogni filare altro, sono stati sacrificati sull’altare della redditizia coltura industriale della vite, modificando paesaggio e orografia. E magari, dove al centro dell’impero vinicolo campeggia la cantina imponente disegnata dal geometra, dall’archistar o dall’artista importante.
Un monumento all’ego del produttore e dell’uomo, artefice e padrone della terra e dei suoi frutti.
Chissà come una fiera possa rappresentare tutto questo.
Il Vivit non lo ha fatto. Anche se il volto ungaro di Fulvio Bressan o quello etrusco di Antonio Di Gruttola rassicuravano. Ma in un non luogo, brutto e affollato come la sala di aspetto di un aeroporto di provincia, è impossibile rappresentare i valori dei terroir, qualunque sia l’insegna affissa all’ingresso.
Così come diventa difficile parlare di vino e natura attraverso la classificazione voluta dalla Comunità Europea per i vini biologici. Che sembra simbolicamente voler portare il vino naturale tra le braccia dei produttori industriali. Pronti legittimamente a sfruttare il trend del vino naturale, così come qualche anno fa affrontavano con convinzione il mercato con bottiglie colme di liquidi concentrati e farciti di tannini gallici.
A Villa Favorita mi sono fermato anche allo stand di Carussin. Bruna Ferro mi ha fatto assaggiare i suoi vini. Le Barbere, il Carica l’Asino. Poi ho provato il Moscato e lei ha detto che non hanno più voluto la DOC. Perché lo facevano sempre rivedibile – ha detto.
Il Moscato era buono e la faccia di Bruna si è allargata in un sorriso.