IL VINO E IL FORCONE

La nostra vedetta lombarda è andata alla conferenza stampa del 4 dicembre 2003, nella quale si presentava l’evento Critical Wine, organizzato da Luigi Veronelli e dal Centro Sociale Leoncavallo.

Non ci avevo pensato più di tanto; anzi la cosa mi era scivolata addosso come fanno tanti loghi di mercato che ci circondano. Poi io e il diretùr entriamo in Milano in una caratteristica giornata autoctona: grigio e pioggerella insignificante di inizio dicembre. E sui muri della metropoli da bere compaiono decine di manifesti rossi con scritte bianche e quel forcone.
“Guarda guarda guarda!” gli fo io.
Egli guarda, constata e tace. Poi mormora: “Non mi è mai piaciuto quel simbolo”. Non capisco più di tanto. “Il forcone?” chiedo. Annuisce cogli occhi. Allora mi ricordo che ho un cervello e anche di aver studiato la Storia a scuola, benino, neanche tanto, ma un po’ sì. L’immagine nella mia mente passa da un semplice strumento di lavoro contadino a una scena di lotta, le jacqueries, o una cosa così. O la Rivoluzione Francese, con il popolo davanti ai cancelli di Versailles brandente ogni tipo di corpo contundente. Oggi le chiamano armi improprie, ma sono proprio armi.
“Noi anarchici vogliamo arrivare alla sovversione e all’eversione”. Gulp. “Il Leoncavallo faceva già paura, ma farà molta più paura da domani. Questa cosa andava fatta al Leoncavallo perché posti come questo dimostrano come la vita non possa non cambiare. Chi ha visto la Resistenza e finalmente nascere la Repubblica non può non rifiutare questo terzo millennio terribile che stiamo vivendo. I centri sociali e i movimenti devono passare dalle parole ai fatti. Tutto ciò che del nostro passato ha a che fare con l’Anarchia va recuperato. Non partecipare è stata la follia che ci ha tenuti fuori; bisogna passare all’azione, la scrittura non ha mai portato a niente; gli anarchici devono assumersi la loro responsabilità, anche alle elezioni. Ed ecco la bellezza del Leoncavallo, che si assume questa iniziativa. L’estrema sinistra si fa portatrice di proposte, e di questa iniziativa si parlerà in tutto il mondo”.
Un proclama o quasi una profezia, fra un bicchiere di vino e l’altro. Questa persona che parla si chiama Veronelli Luigi, detto Gino, e io farei bene a star zitto se non altro per rispetto anagrafico. Infatti taccio. Ma mi vengono in mente le edicole di Hobby&Work, Vino&Pasta Barilla Food Service (Barilla, uno dei principali inserzionisti Mediaset) o i Marchesi di Frescobaldi. Si accenna al Prezzo Sorgente, a un Protocollo di tracciabilità autogestito e autocertificato, si parla di “agricoltura dal basso”. Come se occorresse insegnare ai produttori come si deve fare i contadini.
“L’agricoltura e l’alimentazione sono gli unici settori nei quali non possono esserci industrie”, si sentenzia. Ma di che cosa stiamo parlando? Per quale motivo un produttore di vino dalle movenze imprenditoriali dovrebbe redimersi, abiurare e riconvertirsi a una produzione autogestita e autocertificata di impeccabile etica ecologica, salutare e bucolica?
Il consumatore deve trovarsi di fronte all’ennesimo progetto garante di che cosa? di fronte a una lista di aziende controllate e garantite, fra le quali società da milioni di bottiglie l’anno?
La scrittura non avrà forse mai portato a effetti immediati; l’azione indubbiamente sì.
Le rivoluzioni, da quella Francese a quella Russa a quella Cubana, hanno sempre portato sconvolgimenti tangibili. E sparso sangue. “Gli eserciti si sa come sono, ogni volta che si muovono combinano disastri”, diceva Italo Calvino, uno che ha sperimentato sia il fucile del partigiano che la penna dello scrittore.
Il nostro mondo è alle soglie di una frattura delle tensioni; ci avviciniamo sempre più a quella che sembra configurarsi come un’esplosione delle esasperazioni, che si preannuncia drammatica e violenta. Quando penso alle sbandate periferie delle città statunitensi o francesi, quando penso al deflagrante Medio Oriente che ci troviamo sempre più in casa, quando penso alle guerre fratricide intestine dell’Africa nera o alla xenofobia di gente come Bossi, Haider, Howard o Le Pen, ma anche alle devastazioni dei blackblockers, non riesco a non pensare che invece di un forcone preferirei vedere un libro. E che la violenza e l’agitazione iniziano dove finisce la parola.
È la diseducazione della nostra scuola sempre meno pubblica e sempre più privata, della nostra televisione (idem), dei nostri wine bar che raccolgono lo stanco testimone delle osterie e dei bar di quartiere, dei centri commerciali che sostituiscono le piazze le bocciofile e gli oratori, che mi spaventa. Temo l’ignoranza, non il potere delle multinazionali.
Per questo, invece di far firmare protocolli a gente che fa il vino con lo stampino o a gente coscienziosa che non ne ha bisogno, mi preoccuperei di educare il cittadino, magari per arrivare un giorno al sogno di smettere finalmente di chiamarlo consumatore. Quel giorno chi farà il vino con lo stampino e la catena di montaggio se lo ritroverà tutto in magazzino, e gli toccherà degustarselo.