Intervista a Davide Vanni

S: Eri mai andato così a Sud nella tua vita?
D: Ero stato in Puglia, però la Lucania è tutt’altro, è un paesaggio incantato.
S: Qual era la località?
D: Pisticci.
S: Beh, adesso è piuttosto famosa; ci fanno un festival.
D: Sì, da sedici anni c’è un festival organizzato da quei ragazzi che passo a trovare appena posso.
S: Al colloquio ti presero?
D: Inizialmente non mi dissero niente, tornai a Torino e passarono altre settimane senza sapere nulla. Poi arrivò la buona notizia. A giugno terminò la scuola Holden e subito dopo ci sarebbe stata la grande festa finale; io però dovevo partire per il campus e andai in Lucania. Lì conobbi gli altri ragazzi con cui alloggiai nell’ex orfanotrofio del paese.
S: In che cosa consisteva il campus?
D: Era diviso in tre o quattro sezioni e per ognuna c’era un insegnante della scuola nazionale di Roma o comunque legato al mondo del cinema. Tutti i docenti sviluppavano la parte teorica del progetto e poi si passava alla pratica. Generalmente il lavoro consisteva nel rapportarsi al luogo, al paesaggio e alla gente che ci viveva per raccogliere materiale legato a retaggi della magia lucana, quella studiata da Ernesto De Martino. Spesso ci trovavamo a iniziare la giornata all’alba per cercare le luci dei paesaggi.
S: Passi dall’alpeggio a Pisticci, continui a svegliarti all’alba.
D: Già… credo sia stato il periodo della mia vita in cui ho visto più albe. Ho iniziato a esplorare il territorio, a entrare nei posti, a dialogare, a cercare me stesso e quello che ha lasciato il luogo, in posti come Craco.
S: Craco Si trova lì vicino?
D: A quindici chilometri da Pisticci ed è un paese completamente abbandonato, vuoto; a parte un pastore che viveva abusivamente in una grotta. Proprio sotto a questa specie di città fantasma c’è rimasta qualche casa, ma il paese è stato ricostruito a valle e si chiama Craco Nuovo. Decisi, insieme con altri due ragazzi, di girare un cortometraggio nella parte più alta del paese, la torre, che era anche stata la causa della rovina del posto. Lì sotto, infatti, era raccolta l’acqua e vi fu un dissesto idrogeologico che creò profonde voragini.
S: Avete fatto un lavoro su questo?
D: Sì, io ero un attore che non parlava, ma si muoveva e camminava sulla torre. Una sera, noi ragazzi e il docente di Roma restammo in paese per guardare le “schegge” della giornata sul muro di una casa di Craco, e si fece notte. Da sotto arrivò una volante della polizia, perché era proibito trattenersi lì dopo il tramonto. Con un megafono ci chiesero di scendere perché dal basso vedevano le luci. Una mia amica, Aurelia, si tagliò con un vetro e cominciò a sanguinare, poi toccandosi sparse il sangue sulla faccia. Si diceva che lì qualcuno andava a svolgere dei riti satanici e forse la polizia era arrivata per quello; quando videro Aurelia completamente sporca di sangue, avranno pensato a qualche rituale. Alla fine chiamarono i nostri responsabili di Pisticci e la cosa si risolse. Quelle cinque settimane mi diedero molto e fecero emergere in me l’esigenza di raccontare attraverso il documentario. Forse è lì che è nata la mia volontà di…
S: Documentare e narrare?
D: Sì, ma a modo mio. Sempre vicino a uno sguardo poetico, non televisivo. Tornato a Torino comprai l’attrezzatura: una videocamera, un cavalletto e un microfono e iniziai a fare il mio primo documentario. Lo intitolai “Dentro il giardino, dalle 16 alle 18”. Il giardino è quello pubblico del paese dove sono nato, Vobarno; a quell’ora mio nonno e agli altri anziani si sedevano sulle panchine, poi arrivavano le badanti dell’Est e dei ragazzi africani, si creava una dinamica sorprendente.
S: Tre soggetti sociali così diversi. Interagivano e non si odiavano?
D: No. Gli anziani continuavano a ripetere battute a sfondo sessuale sulle badanti russe e rimproveravano i ragazzi africani che con le biciclette facevano molto rumore…
S: E le badanti russe non s’innervosivano?
D: Erano pazienti, sopportavano, ascoltavano. Era bello quando le vedevi insieme la domenica che si concedevano uno spazio di intimità, si raccontavano le loro cose, a volte cantavano.
S: Sei riuscito a riprendere tutte quelle cose?
D: Sì, ho anche registrato una signora che mi ha cantato un paio di cose in russo.
S: E l’intervista a Nino è di quel periodo?
D: Di due anni dopo.
S: Si coglie questa maturità, in effetti.