IPERCOOP

In tempi così cupi, alle volte basta anche una frase buttata lì, magari nel contesto e nel posto più improbabile, per ricordarsi che questo paese forse ha ancora qualche speranza. A me è accaduto pochi giorni fa. Ipercoop di Beinasco, periferia industriale a sud di Torino, un luogo dove la crisi si sente davvero e assume significati concreti e immediati, come la difficoltà di arrivare a comprare ciò che è strettamente necessario. Sono in coda alla cassa, proprio di fronte c’è una ricevitoria nella quale una quindicina di persone fanno un’altra fila, quella per giocare il superenalotto; so che il jackpot si aggira sugli 80 milioni di euro. Il cliente davanti a me pone i suoi acquisti sul nastro scorrevole lamentandosi con la cassiera per i continui aumenti. Avrà più o meno i miei stessi anni ma una storia ben diversa, almeno a giudicare da come veste e da quello che c’è nel suo carrello, un campionario di tutto ciò che può essere catalogato alle voci superfluo e dispendioso. Eppure il tizio si lamenta per gli aumenti con questa ragazza che ha un contratto precario e fa un lavoro non certo gratificante e ben pagato. Lei mi guarda e alza gli occhi al cielo, io sollevo le spalle in segno di solidarietà. Arriva il mio turno, e mentre i miei acquisti ponderati e necessari passano sotto il lettore ottico parliamo di superfluo, di prezzi e degli effetti della crisi economica. Lei parla dei suoi due bambini piccoli e del costo spropositato degli asili nido, io le racconto che non avendo i nonni noi dobbiamo giocoforza essere sempre presenti con nostra figlia, che ha poco più di due anni. Così, le spiego per farle un esempio, io e mia moglie non andiamo a mangiare fuori assieme da un pezzo perché tenere buona la bambina al ristorante (è mia figlia, buon sangue non mente) è pura utopia. Evito di dirle che non ci saremmo andati molte volte lo stesso, per ragioni economiche: lo faccio perché non amo il vittimismo e forse anche perché un po’ me ne vergogno. Allora lei piazza lì la frase, quella che cambia il mio sguardo nei confronti della giornata e mi restituisce un po’ di fiducia. “Quello di andare a mangiare fuori per me non è un problema, perché comunque non me lo potrei permettere”, mi dice. Probabilmente rimango a bocca aperta, non per ciò che dice ma per come, cioè con quale tono e quale espressione, lo dice: questa ragazza pronuncia una fase che provocherebbe un ulteriore paio di punti percentuali in negativo a Piazza Affari – una donna giovane, madre di due figli e con un impiego, cittadina della sesta o settima potenza economica mondiale che non può permettersi neanche una pizza – con una naturalezza incredibile, senza amarezza, autocommiserazione o vergogna, quasi con ottimismo e, soprattutto, senza la benché minima traccia di rassegnazione. “Per adesso è così – è l’evidente sottinteso – è davvero dura ma che posso farci, mi tiro su le maniche finché passa o la faccio passare io, e comunque ci sono cose più importanti”. Un ragionamento e un atteggiamento inequivocabilmente sovversivi. Finisco di caricare le buste nel carrello, pago, le auguro buona giornata e la ringrazio. La fila per il superenalotto si è allungata, nonostante qualcuno abbia calcolato che le probabilità di una vincita sono di gran lunga inferiori a quelle che un asteroide si schianti contro la terra. I titoli dei giornali esposti nell’edicola accanto parlano di crack delle borse, di paese fermo e di pericolo immigrazione. Guardo la ragazza, sta salutando una cliente con un sorriso per nulla affatturato. Sorrido anche io, e mi avvio verso l’uscita.